Intervista a Furio Scarpelli
Tratta da "Nanni Loy, un regista fattapposta" (Tredicilune, CUEC editore, 1996) di Maria Paola Ugo e Antioco Floris

Intervista a Furio Scarpelli. Una delle malattie di questo momento è il cinemismo, cioè la cinefilia di chi fa il cinema. Un eccesso di sapienza cinematografica e mancanza di altre conoscenze: psicologia, morale, filosofia, socialità. Nanni Loy questa cosa la sapeva senza esibirla. Era consapevole che fare il cinema non basta, il suo spessore politico dava anche spessore al suo cinema, anche se apparentemente i collegamenti non erano diretti. In epoche precedenti a quelle di Loy del resto questa era la norma: quelli che poi vennero chiamati cineasti - senza che fossero felici di questa definizione - i grandi autori cinematografici insomma, possedevano dei pregi culturali e mentali alti e forti. Un grande musicista era tale perché aveva anche altre passioni, altre attenzioni culturali. Nessuna estetica si nutre di se stessa, se no si chiama manierismo. Nanni Loy questa cosa la sentiva fortemente, la praticava. Chissà se si divertiva di più (divertiva in senso nobile) a immaginare e girare un film o a interessarsi attivamente di politica: forse tutte e due le cose. Lo so che i colleghi più stupidi (sono rari per la verità) sono quelli ai quali ho sentito dire: ma io di politica non mi interesso, io faccio il cinema. Cosa si pensa di persone che fanno il cinematografo? Che quando stanno insieme parlano di cinema? Sì certo, può capitare come a tutti di dire: ma hai visto quel film com’è piacevole, quell’altro com’è divertente... In realtà si parla e si parlava sempre di altre cose che se poi vanno a finire nel cinema lo arricchiscono.
In America i buoni film, non quelli puramente spettacolari, si arricchiscono di cose che non sono cinematografiche, che sono anche politica, socialità, psicologia, scienza, scienza medica. Cose che hanno una vita propria, anche tragica, indipendentemente dal cinema. La domanda allora potrebbe essere: ma il cinema quindi che cos’è? È un modo di raccontare, ora più di una volta. Con Nanni Loy parlavamo di questo. Quando il cinema si faceva più a mano di quanto non lo si faccia oggi era un’estetica che non dico potesse vivere di se stessa ma quasi. Ora il cinema è diventato un modo di narrare forse più affascinante - secondo me no - della narrazione letteraria. Per forza, perché la tecnica, che per qualcuno è diventata un mito da seguire ciecamente, in qualche modo ha facilitato l’effetto e l’emozione dell’immagine, se cerca solo l’effetto visivo. Quindi ancora più a ragione bisognerebbe che la storia avesse maggior spazio, intendendo per storia una narrazione che al tempo stesso abbia un significato.
Come tutti anche Nanni Loy doveva combattere con il fato della realizzazione, con l‘ignoranza e la pavidità della produzione, con la mancanza di apporti che provengono da fuori del cinema, come la narrativa e il teatro. In America invece si usa molto desumere sceneggiature da racconti e commedie. Lui sapeva bene che gli apporti nel cinema sono di provenienza extracinematografica. E che troppo spesso qui da noi si vedeva e si continua a vedere anche oggi o racconti senza significati o significati senza racconti. Questo è un momento in cui prevale la seconda maniera che forse è anche più accettabile della prima. Descrizione e significati, però il racconto non c’è. Ma questa è una carenza che probabilmente fa parte della nostra non tradizione a narrare. Il film "Rosolino Paternò soldato" inizialmente doveva farlo Hiller, solo in seguito passò a Nanni Loy. Abbiamo lavorato tanto tempo con Arthur Hiller, poi invece - non mi ricordo perché -, con De Laurentiis non si trovarono. Il film piacque a Nanni Loy. La gestazione fu lunga perché De Laurentiis ne voleva fare un film non soltanto all’americana ma un film italo-americano e probabilmente l’operazione non riuscì. La matrice, il seme è uno, anche il seme di una quercia è una ghianda, non possono essere due. Quindi il film restò italiano nel bene e nel male, con personaggi che erano americani. lo non l’ho più rivisto. Non è uno di quei film di cui c’è un’insistita presenza alla televisione. Ci piacque scriverlo e anche vederlo dopo che fu girato, ma da allora non ne so più niente. Dissero che non aggiungeva nulla rispetto ad altre opere come Tutti a casa? È una iattura tipicamente italiana, io non voglio salvare il livello del film, può darsi che valesse non più di tanto, ma non è lì la questione. Bontempelli scrisse nel 1950 che la dannazione del narratore italiano è che oltre a inventare il romanzo deve inventare il genere a cui farlo appartenere.


Noi ci riferivamo a quello che sapevamo e sentivamo, ma anche il settentrionale era ugualmente sprovvisto di senso critico e dì spirito di ribellione. Nanni Loy intervenne anche nella sceneggiatura, del resto questo è un metodo italiano che ha dato buoni frutti. I mezzi per fare film sono mille, ma facciamo finta che siano due fondamentali. C’è quello di un certo cinema che fanno in America che è desunto al novanta per cento dei casi da commedie o racconti. Allora il cuore dell’opera è già nato al di fuori dell’iniziativa realizzativa di un film. C’è uno scrittore che ha creato una narrazione. Questa opera poi diventa un’impresa cinematografica. Lì la collaborazione può essere anche minima fra regista e sceneggiatore perché in quel caso il regista non deve presiedere alla nascita di un essere che prima non c’era. Ma quando, come avviene in Italia, è lo sceneggiatore che crea la storia oltre a creare la sceneggiatura, è chiaro allora che l’esigenza del regista è quella di essere presente. È chiamato a sua volta ad essere autore, non c’è prima Calver o Miller. L’impresa nasce in quanto impresa cinematografica. Quindi il cinema italiano è più cinema di quello americano. Ciò non toglie che sia più brutto.

Nell’"Audace colpo dei soliti ignoti" era un esordiente ma aveva alle spalle una lunga pratica di Centro Sperimentale, e una sapienza maggiore di qualche regista al quale ha fatto da aiuto. Una sapienza che si portava da casa, come si dice. Da una cultura che certamente aveva, da una pratica di cinema che già possedeva e da altre passioni, non ultima la politica. Spesso era in contrasto con altri autori. lo credo che sia naturale che uno spirito indipendente che sposa una linea politica generale, all’interno di questa linea poi si comporti secondo i propri stimoli personali, i propri punti di vista. Lui spessissimo era contro, ma all’interno di un movimento generale al quale aveva aderito. Tendeva più a fare opposizione all’interno di ciò a cui dava la propria adesione politica? Può darsi di sì. Non era proprio un sistema, ma può darsi di sì. Il suo spirito analitico, anche il suo spirito critico lo portava a porsi qualche volta in opposizione all’interno di qualcosa che condivideva completamente. Si chiama dialettica interna, lui la praticava.

Lo scegliere di fare cinema invece di scrivere testi letterari o poesie comporta un compromesso. E il compromesso è dato dalla scelta stessa. Si sceglie di narrare ad altri e questi altri devono poter essere affascinati da quello che narri. Ora come si arrivi ad affascinare coloro che pagano il biglietto per vedere un film è oggetto di interferenze, di studi, di pareri, di imposizioni assolutamente non omologhe, contrastanti fra loro. Per forza, l’autore di un testo letterario più o meno, sia pure subendo qualche interferenza da parte dell’editore, fa quello che vuole. Il cinema è fatto di tanti apporti e quindi di tanti compromessi.

Probabilmente se Nanni avesse potuto fare quello che gli era più congeniale, partendo da quei film che abbiamo citato, avrebbe potuto fare molto, molto di più. Quindi bisogna dire, come per ognuno probabilmente, le opere migliori restano dentro.


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26 maggio 2010