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Cinema e crimini

"Gomorra" di Matteo Garrone

Gomorra

Paolo De Angelis

 GOMORRA, ovvero il coraggio della denuncia.
Gomorra è un film; Gomorra è un romanzo; Gomorra è un’inchiesta, un documentario, un racconto, un’analisi, un saggio sociologico, un ritratto dolente di una società malata.
Gomorra è, soprattutto, la realtà, la dura e spietata osservazione, mediata dal contributo artistico, di quello che, da anni, accade in una vasta area del territorio italiano, senza che, prima di SAVIANO e prima di GARRONE, cose del genere suscitassero né sgomento né indignazione.
In questo senso, per la sua capacità di mostrare, il film, e prima ancora il libro, si inseriscono di diritto nel filone dell’arte civile, impegnata a descrivere la realtà che ci circonda, offrendone, se non la chiave di lettura, almeno un codice di decodifica.
In effetti, GARRONE, selezionando l’imponente materiale narrativo del libro, sceglie alcune storie e le legge ( ce le fa leggere) in modo solo apparentemente descrittivo, in realtà terribilmente partecipe, per lo sguardo amaro che accompagna ogni inquadratura e per il consapevole giudizio di inesorabile degrado non solo della società ma della stessa qualità umana dei protagonisti.
Gi uomini, e le donne ed i bambini, sono immersi nell’ingranaggio criminale, sono semplici pedine del Sistema, e vivono la loro condizione con rassegnata partecipazione, come se fossero tutti etero-diretti, spinti da forze estranee ma terribilmente inesorabili, nell’unica dimensione possibile, quella della realtà criminale.
Il crimine assorbe ed ingloba menti, cuori, comportamenti, idee, stili di vita: non c’è possibilità di fuga, non c’è alternativa, non c’è speranza.

 La via criminale è l’unica linea guida della vita e della stessa capacità di  espressione degli esseri umani che, come marionette, sono prigioniere sul palcoscenico di una realtà vissuta e percepita come drammatica eppure senza via di uscita.
Fin qui, la descrizione del contesto: la bravura di SAVIANO, anche sceneggiatore del film, è stata quella di fotografare una realtà sotto gli occhi di tutti ma che, prima del suo racconto, solo in pochi vedevano o, forse, volevano vedere: dopo SAVIANO, e a questo punto, dopo GARRONE, nessuno potrà dire “io non lo sapevo”.
Forse termini come capolavoro sono eccessivi, ma l’opera è onesta e coraggiosa, con immagini livide che rendono perfettamente la deriva morale, la perdita di coscienza civile e di valori morali: è un racconto potente, di forza assoluta, per la capacità di descrizione e di analisi, senza cadute didascaliche e senza la pretesa di fornire soluzioni o formule salvifiche.
GARRONE aveva già, col suo IMBALSAMATORE, offerto un primo assaggio del degrado morale e degli abissi profondi nei quali precipita il senso di umanità, se lasciato in preda degli istinti più bassi, nella ricerca egoistica dei propri biechi interessi.
Qui, l’analisi scende ancora più in profondità, perché si tratta non di una singola anima cattiva che insegue il male ( il nano imbalsamatore del primo film) ma di un fenomeno sociale diffuso, accettato, un modello di comportamento imposto a colpi di mitra, sorretto dal desiderio di emancipazione economica, visto unicamente in senso consumistico e con ideali di tipo divistico- televisivo.
Il quadro che ne esce è terribile, un inferno contemporaneo in cui le anime dannate vivono perseguendo febbrilmente e senza sosta un delirio criminale che, in quel contesto, è l’unico mondo possibile.
I richiami al mondo dello spettacolo e dell’alta moda aumenta il senso di disagio nello spettatore: gli uomini della camorra vivono nella prospettiva di omologazione a quei modelli estetici, a quei palcoscenici, ma il sogno rimane all’interno dell’incubo e nessuno, almeno consapevolmente, vuole uscirne.

 Una descrizione che vale mille volte più di qualunque ricerca sociologica o inchiesta giornalistica: la realtà basta ed avanza per colpire l’immaginario, non c’è nulla di più che possa essere concepito e raccontato.
La fiction come la realtà e viceversa: non è un caso, infatti, che, nello stesso momento in cui il film è nelle sale, i giornali descrivono quello che succede per le strade della Campania, e tra cinema e vita reale non c’è più alcuna scissione ma una triste e perfetta sovrapposizione.
All’Università, ci insegnano che i modelli criminali hanno forza espansiva tale da inglobare e trasformare il modello di società civile; gli economisti descrivono i danni irreparabili dell’economia illegale, che tende a sovrapporsi al sistema economico ed imprenditoriale legale, con un inarrestabile fenomeno di inquinamento e riciclaggio di risorse finanziarie provenienti da reati gravissimi.
Ma nessuno studio teorico può raggiungere la profondità dell’osservazione del reale, nessuna tesi accademica può essere paragonata a ciò che realmente accade: per questo l’opera ha una funzione educativa, perché informa e costringe ad osservare e riflettere.
Si potrebbe dire che la soluzione, come si proclama in questi casi, sia il ripristino della legalità: l’affermazione è giusta e corretta, in linea di principio.
Ma qui si tratta di contrastare un fenomeno economico e sociale oramai dilagante ( anzi, dilagato), ed i soli principi servono a poco.
Resta il valore della denuncia: a me ricorda quella di Francesco ROSI che, quasi cinquant’anni fa, firmava un’opera fondamentale sul degrado urbanistico e sulla speculazione edilizia: LE MANI SULLA CITTA’ era un film che descriveva, come GOMORRA, lo scempio ormai avvenuto della colline di Napoli, edificate in modo selvaggio e con connivenze pesantissime tra imprenditori e politici.
L’esito di quella stagione criminale è sotto gli occhi di tutti: il territorio di Napoli fu saccheggiato e i palazzi vennero costruiti ovunque, anche dove non era consentito e la conseguenza furono crolli di intere palazzine, morti, un disastro urbanistico di proporzioni immani.

 Oggi, GOMORRA è l’edizione aggiornata di quelle MANI SULLA CITTA’: il bene comune non esiste più, l’interesse che vince è quello economico, a tutti i costi, la salute collettiva è a rischio, l’ambiente è degradato, la civiltà è compromessa.
Si esce dal cinema senza illusione, sopraffatti dalla visione di un degrado da cui non riesci nemmeno ad immaginare se sia possibile risalire, e in che modo.
Questo è il crimine, e non c’è molto altro da dire: SAVIANO e GARRONE hanno lo stesso sguardo pessimista e turbato del Pier Paolo PASOLINI degli Scritti Corsari, ma da lui hanno preso anche la voglia polemica e il gusto della denuncia, la volontà di combattere, anche da soli, per non dire a sé stessi “ci siamo arresi”.
E’ la lezione del cinema italiano; è l’esempio della cultura italiana.
SAVIANO e GARRONE ci spingono verso una direzione opposta allo scempio, ci dicono che non è vero che ormai è tutto perso: questo segnale di riscossa viene, non a caso, da due giovani e, soprattutto, dal mondo del giornalismo e dell’arte, gli unici in grado di riflettere al di là dei drammi quotidiani.
La camorra come terreno di battaglia: loro coi mitra, noi con la cultura, questo ci insegna GOMORRA.
Non è uno scontro impari, anzi: infatti i boss hanno condannato a morte SAVIANO, perché sanno che il risveglio delle coscienze può distruggerli, molto più di una retata.
Non lasciamo solo SAVIANO; non lasciamo solo GARRONE; non facciamoci più ripetere che il sonno della ragione genera mostri.

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 Fenicio

 Il film Gomorra smentisce la dichiarazione di Tarantino sul cinema Italiano. Il cinema italiano non parla solo di coppie piccolo borghesi o di quarantenni in crisi.
Saviano trae dal suo libro un soggetto eccellente che Matteo Garrone dirige con sapienza, crea una  tensione crescente nel descrivere una quotidianità dallo svolgersi  agghiacciante. Come i personaggi dei film horror, i protagonisti del film di  Garrone  non hanno scampo, vanno incontro al loro destino implacabile. Lo spettatore resta attaccato alla sedia sin dalla prima inquadratura, durante lo svolgersi delle vicende, accumulando tensione, con la consapevolezza della tragedia imminente.
I volti dei personaggi sono spesso sfuocati o al buio, anonimi, le vicende si intrecciano in un montaggio fluido, gli assassini non sono belli come in Kill BIll, sono brutti, grassi, in ciabatte e costume da bagno come nei film di Sordi, la vita non vale nulla e la morte puzza.La scelta degli attori è ottima, un film corale.
L’Italia che scorre nello schermo è quella dell’economia che “tira”, che regge il confronto con la concorrenza cinese, quella che riempie le discariche abusive del sud con i rifiuti tossici del Nord, che spara al sarto perché insegna i segreti dell’alta moda ai cinesi, dello stato sociale della Camorra incarnato in Don Ciro, che da buon ragioniere passa la quota mensile ai familiari dei caduti, finendo anche lui nella guerra di Secondigliano.

 Garrone non ci mostra i buoni e i cattivi, la realtà ci scorre davanti nella sua crudeltà come se stessimo guardando un documentario sui pescecani, con la consapevolezza che tutto ciò che si vede è narrato  con nomi, date, indirizzi. Gli orrori narrati nel libro omonimo, in cui si documenta la profonda ristrutturazione della Multinazionale Camorra, con uno stile avvincente che sta tra il romanzo storico epico e il servizio giornalistico di approfondimento,  vengono resi nelle pellicola, con naturalezza. I personaggi, spesso inquadrati di scorcio, da dietro una porta, da dietro un pilastro ( per esempio nelle scene girate alle Vele di Scampia), si muovono in spazi angusti, per vie obbligate. E’ un film di pugni durissimi alla bocca dello stomaco e non serve essersi preparati prima.

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