Percorso

"Il papà di Giovanna" di Pupi Avati

di Clara Spada

locandina Lo si incontra spesso, a Roma, "il papà di Giovanna" Silvio Orlando, seduto al bar intento a leggere il giornale o a spasso per le stradine intorno a Campo dei Fiori. E' un personaggio familiare, direi una persona normale e affabile con la quale scambiare piacevolmente due chiacchiere.
L'ultima volta mi è venuto spontaneo chiedergli in che fosse impegnato. "Sto lavorando con Pupi Avati". Solo un guizzo negli occhi mi ha fatto capire la sua soddisfazione di attore, non ha aggiunto che era l'interprete principale di uno dei quattro film italiani in concorso al Festival di Venezia.

Ha sorriso per il mio entusiasmo e per le ovvie congratulazioni, per i miei auguri. Mi illudo di avergli portato quel pizzico di fortuna in più che lo ha fatto prevalere, e vincere, sul favorito e devastato Mickey Rourke.

Ho visto il film. Silvio Orlando interpreta magistralmente un ruolo complesso, il ruolo di padre e di uomo in lotta contro le delusioni della vita: un matrimonio senza amore, di convenienza, una professione piccolo borghese frustrante per le sue ambizioni intellettuali, una figlia adolescente  e problematica sulla quale riversa tutto sé stesso.

 Il periodo storico in cui il suo dramma ha luogo è anch'esso drammatico come se gli avvenimenti pubblici e privati collimassero fino ad una inesorabile rovina.
Per questa figlia che non riesce a salvare rinuncia a tutto: a sua moglie, alla sua dignità di uomo, alla sua cultura. Se il suo primo impegno è stato quello di incutere fiducia e sicurezza alla figlia, con la condanna di Giovanna si adegua alla ulteriore involuzione di questa figlia che non vuole perdere, scampata alle macerie del manicomio e della guerra. E' tutto ciò che gli resta.
Sono uscita dal cinema commossa dalla vicenda, ancora immersa nell'abile colore seppia che rende il film simile a vecchie fotografie dimenticate nel fondo di un cassetto, gli occhi perduti in  ricordi lontani di vecchi appartamenti spogli, con alti immancabili portavasi e attaccapanni di legno marrone, anonime pareti screpolate, infissi bisognosi di una mano di vernice, mentre antichi ritornelli riaffioravano nella mente. Soprattutto commossa dalla vicenda rappresentata a forti tinte da un regista che non ha bisogno di complimenti, plaudente alla coinvolgente interpretazione di Silvio Orlando e a quella, anch'essa encomiabile, di Alba Rohrwacher nel ruolo di Giovanna.

 Facile scrivere su un film così coinvolgente, mi ripetevo.
Invece no. Più ripercorrevo le immagini più avvertivo dubbi e forti sensazioni di contrasti, di qualcosa fuori posto.
Il finale? non incide, non resta in mente, troppo zuccheroso per essere in tema.
Ezio Greggio? Bravo, è sempre bravo ma lo si guarda, finanche nel momento in cui fugge morente dalla esecuzione sommaria, e ci si aspetta una gag improvvisa stile "Striscia".
Francesca Neri? troppo bella e raffinata per essere "un'oca"  - come lei stessa si definisce in una battuta del film - costretta a un matrimonio combinato e ad una maternità che rifiuta. Gli occhiali scuri esaltano la sua algida bellezza ma sono in totale contrasto con l'abbigliamento di una donna di quegli anni, di quello stato sociale. Ne fanno una diva, non la madre di una figlia assassina.
Particina più che dignitosa per Serena Grandi che merita i complimenti per avere superato con grande forza l'icona della sua prorompente bellezza, anche se non risulta chiaro se sia lei o la simpatica biondina la moglie di Greggio.
E infine il dubbio. Ma Giovanna è una vittima del regime o ha veramente ucciso l'amica bella e figlia del gerarca? O vuole a tutti i costi, immolandosi, salvare un amore subliminato e immaginario?
Nell'incontro fugace con la madre dell'amica uccisa, che si rifiuta di ascoltarla, ripete più volte, con un filo di voce "non mi ha fatto parlare... non mi ha fatto parlare...".
Che intendeva dire?
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