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Le vite degli altri di Florian Henckel von Donnersmarck

di Massimo Melis

Le vite degli altri (Das Leben der Anderen). Germania 2006. Regia di Florian Henckel von Donnersmarck.
Nessuno in Europa, cinematograficamente, ha oggi la stessa coraggio dei tedeschi riuniti, nel guardare al proprio passato recente. I due film presentati all’ultimo festival di Venezia sulla RAF ( le brigate rosse tedesche) ne sono un esempio come il vincitore del leone d’oro nel 1981 “Anni di piombo” di Margareth Von Trotta che trattava gli stessi argomenti, o il più leggero e divertente “Good Bye, Lenin” di Wolfgang Becker.
Un altro passato scomodo per i tedeschi, è quello affrontato in maniera egregia nel film “Le vite degli altri”, uno spaccato rappresentativo, (al limite dello storiografico per quanto riguarda la ricostruzione degli ambienti, degli arredi, degli abiti) della vita dei lavoratori della cultura (artisti) nella Berlino Est del 1984.
Una nazione in cui, come ci ricorda la didascalia iniziale, tutto era spiato. La Stasi, il servizio segreto interno, contava 100.000 addetti e 200000 collaboratori.
La pellicola narra le vicende di un colonnello della stasi incaricato di sorvegliare un drammaturgo le cui uniche colpe sono quelle di avere una compagna che piace al ministro della cultura, e di appartenere alla fazione avversa in seno al partito.
La spia e lo spiato credono entrambi fermamente nel sistema, hanno scelto di stare nella DDR, come a suo tempo scelse Bertold Brecht, entrambi amano il proprio paese, e ciò accresce il dramma, che avrà conseguenze tragiche, per quasi tutti i protagonisti.
L’uomo della Stasi, che ci viene presentato, mentre conduce durante un disumano interrogatorio, rimarrà colpito, nello srotolarsi degli eventi, da quello che viene chiamato “il potere salvifico dell’arte”. Piangerà durante la lettura delle poesie d’amore di Brecht, o durante l’ascolto della “sonata per uomini buoni”, fino a salvare, pagandone le spese, la vita del drammaturgo, che dopo la caduta del muro, si ricorderà di lui.
 
Gli enormi archivi della Stasi infatti non vennero distrutti e vennero resi subito consultabili, rivelando l’enorme mole di informazioni raccolte su milioni di cittadini.
La trama così descritta può apparire, a dei cinefili smaliziati, un po’ ingenua, ma a parte la mia necessità di sintesi nello scrivere, il film è tutt’altro che ingenuo e superficiale, indaga a tutti i livelli su un argomento delicatissimo, come quello del rapporto tra arte e potere.
Tema non facile, già trattato in Mephisto di Istvn Szabò, qùi viene inserito in un film che è nello stesso tempo, spionaggio, thriller, opera storica. Il regista non divide il mondo in buoni e cattivi, ma descrive degli infelici, che, tentano di riscattarsi. Vengono mostrate le debolezze di tutti, del ministro che nonostante il suo potere rimane solo, del regista cui viene impedito di lavorare, dell’attrice che di fronte al ricatto di non salire più su un palco, tradisce, del burocrate schiavo di un sistema da lui stesso costruito. Nonostante tutto, il finale è ottimista, la pellicola avvince e commuove, inorridisce e stupisce.
 
Merito di una sceneggiatura ineccepibile a cui gli autori hanno lavorato per quattro anni.
La scena più agghiacciante è quando viene presentata la tesi sulle tipologie psicologiche degli artisti (sono solo otto dichiara l’ufficiale ridendo) e sulle rispettive tecniche per annularne la volontà, come per esempio non dare nessuna giustificazione e non fare nessuna violenza fisica, in modo da non dare alla vittima niente di cui scrivere dopo…