Stampa

“The Reader”, la “Banalità del male” di Stephen Daldry

 
Germania, anni '50. Un adolescente alle prese coi primi turbamenti sessuali, una donna bella e misteriosa che diviene il suo primo amore; la questione della “colpa” della Germania per un passato che non passa. Sono questi gli ingredienti di “THE READER” , il nuovo film incentrato sulla tematica della Shoah in programmazione, in questi giorni, nelle sale. Protagonisti della pellicola, un Ralph Fiennes nel pieno della carriera e una Kate Winslet in stato di grazia, reduce tra l'altro dal grosso successo di “Revolutionary Road”. L'azione è ambientata ai nostri giorni, in una Berlino meravigliosa e supermoderna, che si prepara al futuro come grande capitale Europea nel 1995. Ma subito dopo l'inizio, ecco che il protagonista, un avvocato di successo tedesco, torna indietro con la mente agli anni '50, in una cittadina tedesca di provincia, ancora vittima delle conseguenze di una assurda guerra fredda.  Qui quando l’adolescente Michael Berg si sente male, viene aiutato ad arrivare a casa da Hanna, un’estranea, con il doppio dei suoi anni , bella donna, controllore dei biglietti nella locale linea tranviaria della città. Colpito da scarlattina, una volta guarito, cerca Hanna per ringraziarla. Così, i due rapidamente rimangono coinvolti in una relazione segreta e appassionata. Nonostante il loro rapporto, un giorno Hanna scompare misteriosamente, lasciando Michael confuso e addolorato. L’oscuro passato di Hanna, di cui Michael mai aveva saputo nulla, si manifesterà a quest'ultimo non molti anni dopo quando divenuto uno studente di legge nella Germania degli anni '70,  il giovane, condotto dal suo professore alle udienze di un processo per crimini nazisti nel lager di Auschwitz, verrà a scoprire la sua vecchia fiamma tra le imputate aguzzine.
 
Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Bernhard Schlink  e si può dividere in tre parti ben distinte: la prima, forse la più  noiosa e ripetitiva nelle oltre due ore di durata del film, è relativa alla breve storia d'amore tra Michael e Hanna; la seconda, la più importante, è quella relativa alla terribile scoperta della verità su Hanna e alla questione della “colpa collettiva/individuale” riguardo alla Shoah (Michael viene portato   dal suo professore alle udienze di quel processo proprio perchè le visioni di queste fanno parte del programma relativo a  un seminario universitario sulla questione delle colpe della Germania sui crimini di guerra e la Shoah!), e la terza parte, la più pretenziosa, cerca di muovere le fila verso un discorso sulla “riconciliazione” e il perdono per questi crimini, riconciliazione che non arriva ovviamente da nessuno (come non ricordare  le parole dei superstiti della Shoah come prima da Marcheria o Simon Wiesenthal, che sostengono l'impossibilità intrinseca di un perdono per la Shoah e i crimini del nazismo!)  e che resta giusto nel cuore di Michael. Il film ha letteralmente spaccato la critica, proprio perchè non si tratta di un semplice film sulla Shoah ma di una pellicola  che mostra la Shoah con l'occhio dei carnefici  e non pone uno sguardo da parte delle vittime!
 
Quello che ritorna con questo film è la annosa teoria della “banalità del male” espressa con quella estrema lucidità da Hanna Arendt nel suo fondamentale testo relativo al Processo al criminale Nazista Adolf Eichmann, intitolato appunto “La banalità del male”. Forse  in questo film notiamo tutta la teoria della Arendt espressa nel suo stato massimale! Infatti, abbiamo una donna normale. Certo una donna forte, autoritaria, che comanda lei in tutto e per tutto nella fugace relazione col giovane studente. E' lei a comandare come lui si dovrebbe comportare ogni volta che la incontra, è sempre lei a comandare ogni azione quando i due sono nell'intimità a casa di Hanna: se fare sesso prima di farsi leggere un libro dal suo fidanzatino  o farsi leggere un libro prima di fare sesso.
Eppure, nonostante Hanna proprio per l'autoritarismo potrebbe incarnare lo spirito di una guardiana di un lager, nulla fa intuire o lontanamente immaginare questo suo passato a uno spettatore del tutto ignaro della tematica del film fino alla parte  incriminata dove il passato di Hanna viene fuori in tutta la sua crudeltà! Quindi, proprio come scrisse la Arendt, i nazisti, anzi le naziste! E porrei, a questo proposito l'accento, sul fatto che il film parla di un processo a guardiane donne dei lager, ponendo quindi l'accento su un'altra ottica della storia nazista, spesso non approfondita: quella dell'alta percentuale di donne carnefici! In questo film non sono visti nella solita forma stereotipata o da macchietta di persone cattivissime, sadiche o ciniche.
 
Ma nell'ottica di normalissime persone, che, in una maniera lucidissima, hanno letteralmente aperto e chiuso una parentesi nella loro vita, diventando, per alcuni anni, delle spietate assassine. Tornando poi a vivere il loro quotidiano, come se nulla fosse accaduto. E tuttavia, nonostante il film abbia tutti questi meriti, non poche sono state le polemiche! Molti difendono il funzionamento del film a prescindere dai temi trattati. Tasha Robinson di “A.V.Club” scrive che "funziona sia come una storia d'amore (e odio) sia come metafora". Roger Ebert, guru 66enne della critica americana, sostiene sul “Chicago Sun-Times” che “The Reader” non sia un film sull'Olocausto: "il focus del film, dall'argomento del senso di colpa tedesco sull'Olocausto, si sposta presto sulla razza umana in generale". Carrie Ricke del “Philadelphia Inquirer” loda il regista Stephen Daldry, già regista di “Billy Elliott” e “The Hours”, "un maestro nel mostrare la passione contrastata o repressa". James Berardinelli di “Reelviews” scrive che il film è perfetto per chi "gradisce la complessità e l'ambiguità morale nel contesto del melodramma".
 
D'altro avviso Manohla Dargis sul “New York Times”, che commenta: "non è un film sull'Olocausto né sui tedeschi che furono alle prese con il suo lascito: è un film sul rendere il pubblico confortevole di fronte a una catastrofe storica che diventa sempre più vaga". Il “Wall Street Journal” lo definisce un film "schematico e riduttivo", e su “Variety” si legge che è "un'esperienza essenzialmente cerebrale, senza l'impatto di pancia". Più caustico “Film Threat” che lo definisce "il film più superficialmente serio dell'anno",  e il “New York Magazine” per il quale "gli autori hanno preso troppo alla lettera la nozione di 'banalità del male".
Su un cosa sono tutti d'accordo: la performance perfetta della protagonista Kate Winslet, che infatti è in lista per l'Oscar come miglior attrice protagonista. Dopo aver già vinto, per questo stesso film, il Golden Globe, il BAFTA Award, e i premi della Broadcast Film Critics Association, della San Diego Film Critics Society, e lo Screen Actors Guild Award. Per Premiere "la Winslet merita un Oscar per la sua meravigliosa performance", e secondo Peter Travers di “Rolling Stone”, "il ritratto fiero feroce e infallibile va al di là della recitazione, diventando una provocazione che vi terrà svegli la notte".
Per molti, la sola presenza della Winslet varrebbe il prezzo del biglietto: come Kenneth Turan del “Los Angeles Times”, che chiosa: "francamente, è soltanto la forza della performance della Winslet che si solleva al di sopra dei contesti convenzionali e rende il film l'esperienza che dovrebbe essere".