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"Gran Torino" di Clint Eastwood

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
 
''Gran Torino''“Lo strano caso di Benjamin Buttom” riferito non alla vita, ma alla creatività. Si potrebbe definire così la straordinaria carriera di Clint Eastwood. Da attore marginale in pellicole di serie B a protagonista di un serial western (“Rawhide”) per la CBS fino al successo grazie al suo mentore Sergio Leone, ai trionfi commerciali, sempre più bravo e stimato per arrivare ad essere, tra gli anni ottanta e i nostri giorni, a quasi 79 anni, un regista che non sbaglia mai. Non ha niente da perdere, possiede una casa di produzione (la Malpaso) e può scegliere storie che sembrano la summa di una riflessione sull'i ndividuo e la società americana, evidentemente elaborata nel tempo. Il suo cinema è d'autore, ma anche proteso a una platea allargata, intragenerazionale; è un cinema, per certi versi, sperimentale (lo ha dimostrato con “The flags of our fathers” e “Lettere ad Iwo Jima”), ma pure segnato da un linguaggio limpido, secco, intenso.

“Gran Torino”, potrebbe essere definito un racconto rispetto ai precedenti “romanzi” “Changeling”, “Million dollar baby” o “Mystic river”.
 
''Gran Torino''Una novella degna dei grandi scrittori classici americani, contente nei dettagli un universo interpretativo profondo. Si inizia con il funerale della moglie di Walt Kowalski. Non viene raccontato niente di questa donna, appare giovane sposa in una vecchia foto conservata dal marito nel portafoglio. Eppure lo spettatore può intuire l'intera sua esistenza. La sua vita di casalinga vicino ad un bel reduce della guerra di Corea, che, lasciate le armi, rimossi a stento gli orrori compiuti in nome della patria, non ha vissuto da celebrato eroe, ma ha lavorato fino alla pensione come operaio in una fabbrica della Ford, di cui ha comprato (forse con uno sconto?) una delle ammiraglie, la Gran Torino, che conserva come un salotto antico nel garage, rigorosamente coperta dal telo per non rovinarne la splendente carrozzeria.
 
''Gran Torino''I due coniugi hanno abitato in un quartiere di periferia, in un piccolo villino con un mini giardinetto, la cui erba scolorita Walt falcia tutti i giorni, pateticamente. Ma il quartiere operaio, nel tempo, è cambiato. Agli sfruttati americani, figli di polacchi, italiani, irlandesi, traferitisi negli Usa all'inizio del secolo, si sono sostiuiti i nuovi proletari immigrati di prima e seconda generazione, “musi gialli” come i coreani comunisti combattuti da Walt negli anni cinquanta; peccato che appartengono al popolo Hmong, quello espatriato dal Vietnam perché anti Vietcong, dunque filo americano. I figli? Lui deve aver lavorato troppo e appartiene a quella generazione che il padre lo ha fatto di rimorchio, per cui ora non ha niente da dirgli, sono come estranei, appartenenti a un mondo configurato su modelli egoistico-consumistici (viziati e protetti dalla mamma?).
 
''Gran Torino''Questa non è la trama di “Gran Torino”, ma è ciò che Eastwood ci fa capire per portare lo spettatore alla comprensione di un personaggio apparentemente resitente agli altri, intollerante e istintivo, un uomo medio americano “di frontiera”, un Callaghan testardo e invecchiato, che si consola con la compagnia di una vecchia cagnetta (perché solo verso gli animali i “cowboy”, i “veri uomini” possono essere affettuosi) e tanta, tanta birra. Nel racconto esemplare Walt si interesserà dei vicini “usurpatori” scoprendo quanto i loro valori sia più tradizionalisti dei suoi, si prenderà a cuore un ragazzo, sicuramente per attenuare i suoi sensi di colpa di padre fallito, e spiazzerà tutti con una reazione finale, che è, allo stesso tempo, riappacificazione con se stesso ed espiazione assoluta.

Difficile rimanere gelidi di fronte a un film così ben costruito, girato con semplice classicità, interpretato mirabilmente dallo stesso Eastwood, a cui basta uno sguardo di fronte alla macchina da presa, che lo ama, per evocare cinismo presunto o sincera malinconia e, la grande, drammatica, solitudine del crepuscolo annunciato degli eroi.