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"Tutta colpa di Giuda" di Davide Ferrario

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
''Tutta colpa di Giuda''Davide Ferrario, regista sempre disposto a seguire strade cinematograficamente originali (da “Tutti giù per terra”, 1996, a “Dopo mezzanotte”, 2003 -, il suo successo maggiormente rilevante - sino al documentario anomalo “La strada di Levi”, 2006), ha anche, come affermato in varie interviste, una decennale esperienza di operatore culturale in carcere, prima a San Vittore, poi alle Vallette di Torino. Chi ha lavorato in un istituto penitenziario in progetti didattici e culturali, ne conosce bene i problemi: il creare un gruppo con detenuti che spesso cambiano per ragioni di fine pena, il dramma della apatia e della noia portatrice di abbrutimento e di annullamento di qualsiasi senso di vitalità e di volontà, la sensazione di oppressione, ma anche l'evidenziarsi dei sentimenti che meno ci si aspetterebbe in quei luoghi di sofferenza evidente.
Insomma, per “gli esterni” spogliarsi da qualsiasi intento di fare il missionario e porsi in ascolto di una realtà quasi paradossale, è complicato e delicato. Ferrario ha sottolineato come il suo “Tutta colpa di Giuda” non volesse essere un film “sul” carcere, ma “dentro” il carcere.
 
''Tutta colpa di Giuda'', Luciana LittizzettoPonendosi in questa prospettiva e girando in un ambiente a lui noto come il braccio VI delle Vallette a Torino, dove sono presenti detenuti di piccolo calibro, legati soprattutto allo spaccio di droga e solo qualche ergastolano, il regista ha potuto riportare sullo schermo con un tocco “leggero”, ma non superficiale, una realtà certo non sovrapponibile alle varie istituzioni penitenziarie d'Italia, ma sicuramente lo ha realizzato con sensibilità e ironia. Certo, la struttura volutamente ibrida del film, che unisce fiction, musical, documentario, da una parte evita patetismi o drammaticità forte da tipica pellicola “carceraria”, dall'altra non sempre riesce a compattare adeguatamente le varie anime dell'opera. Ma, all'interno di “Tutta colpa di Giuda”, ci sono momenti veramenti toccanti e divertenti, grazie alle inserzioni di danza e musica realizzate, sotto la guida della coreografa Laura Mazza e dei musicisti del gruppo Marlene Kunz e di Francesco Signa e Fabio Barovero, da un gruppo di bravissimi - artisticamente - detenuti insieme a attori professionisti come Katia Smutniak o Fabio Troiano.
 
''Tutta colpa di Giuda'', Katia SmutniakTutta la sequenza pre-finale dell' “Ultima cena”, sulla base della canzone di Neffa (già nella colonna sonora di “Saturno contro” di Ozpetek) è veramente commovente e comica insieme.
La storia è quasi un canovaccio: una regista di spettacoli d'avanguardia (e su queste performance patetiche l'ironia di Ferrario è chiara) è chiamata per creare in un istituto di pena con l'apporto dei reclusi, una “Passione” di Cristo, di cui, come dice il cappellano della prigione, bisogna sottolineare “il lato umano”. La giovane donna, ingenua e entusiasta, prova una formula nuova. Ma a fermare lo spettacolo non saranno né le autorità, né il direttore, né il prete, né i problemi tecnici, bensì... l'indulto, che svuoterà il braccio delle Vallette dai detenuti.
 
''Tutta colpa di Giuda''Altro elemento affascinante è quanto Davide Ferrario sia riuscito, utilizzando un sistema digitale all'avanguardia, a restituire sullo schermo gli ambienti del carcere: i bastioni interminabili grigi e moderni, le terrazze delle abitazioni del personale, la trascurata facciata, la vecchia aula bunker dove si svolgevano i maxi processi degli anni settanta, abbandonata, caotica con quelle montagne di sedie, di documenti accatastati e, infine, le notti filmate attraverso le sbarre: il cielo stellato o piovoso di un mondo che, visto da quella prospettiva, pare quasi emblematicamente lontanissimo e finto.
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