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Letteratura - S. Sanjust

Letteratura e cinema (I parte)

di Stefano Sanjust

Premessa
Il cinema ha da sempre avuto un rapporto intenso e privilegiato con la letteratura: raccontare delle storie, usando il nuovo mezzo – la macchina da presa – trovò subito un solido puntello nello sterminato patrimonio letterario. Questo legame ha portato con sé, sin dall’inizio, problemi di carattere linguistico, estetico, sociologico sorti man mano che il nuovo medium affinava la sua tecnica narrativa passando dall’inquadratura fissa al montaggio delle varie scene, dal muto al sonoro e dal bianco e nero al colore. Le obiezioni e le perplessità di molti, peraltro bilanciate da coloro che erano rimasti affascinati dalla «apertura alle nuove possibilità» (1), nascevano dallo scetticismo circa la capacità di rendere sullo schermo la suggestione della pagina scritta, i sentimenti e i pensieri dei protagonisti, oltre che dalla (presunta) difficoltà di condensare nel breve tempo del filmato storie narrate in centinaia di pagine: tutto ciò, unito alla diatriba sulla (dovuta) fedeltà al testo di partenza e la conseguente subordinazione del cinema alla letteratura, ha fatto sì che per lungo tempo la settima arte sia stata vista come un mezzo tecnico-espressivo più che una forma autonoma di espressione, capace di porsi allo stesso livello della narrativa e del teatro.
Così Giorgio Tinazzi, nel suo libro "La scrittura e lo sguardo" (2007) descrive efficacemente l’atteggiamento dei letterati dell’inizio del XX secolo nei confronti del cinema:

Avversione, indifferenza, accettazione interessata, ma anche apertura alle nuove possibilità. Questi, in estrema sintesi, gli atteggiamenti che i letterati, inizialmente, tennero nei confronti della nuova forma di spettacolo; in poco tempo si convenne poi che fosse anche una nuova forma espressiva, occorreva però discuterne la qualità, l’ascrivibilità ai linguaggi artistici. […] La letteratura fu quasi immediatamente di appoggio al cinema e in misura assai rilevante perchè si diffuse ben presto la convinzione che il patrimonio delle storie scritte era una fonte di sostentamento quanto mai opportuna e anche una garanzia, un richiamo, per un pubblico che si andava estendendo (2).

Un pubblico, spesso non alfabetizzato, che se all’inizio era accorso numeroso per vedere lo spettacolo spinto esclusivamente dalla curiosità o dalla attrattiva tecnica (il fascino della riproduzione del movimento della vita reale), fu poi indirizzato verso un patrimonio letterario cui altrimenti non avrebbe potuto accedere. La letteratura nobilitava lo spettacolo, ammantandolo di una funzione pedagogico-divulgativa: è indicativo che tra il 1908 e il 1922 si girarono in Italia ben sette versioni cinematografiche dei "Promessi sposi", mentre l’Inferno, transcodificazione dell’opera dantesca, considerato il primo lungometraggio italiano, è del 1911.
Il cinema coinvolse ben presto anche il pubblico borghese (e colto), divenendo così un fenomeno di massa e alle ragioni di carattere commerciale si unirono altre di tipo diverso: «il cinema» – sono ancora parole di Tinazzi – «poteva ricevere sostegno ma anche assorbire e fondere in una nuova dimensione altri linguaggi, aprendo quindi orizzonti che andavano esplorati» (3).
Altri linguaggi, dunque, che però spesso hanno finito per ‘parlare’ la stessa lingua. (O lo stesso dialetto, come sostiene il regista Eric Rohmer: «Non mi sembra che un buon film parli un dialetto diverso da quello che parla mia madre letteratura» (4).
A questo punto assume particolare interesse (e importanza) cercare di capire cosa muti nel passaggio da un testo narrativo ad uno filmico, nel caso in cui il film sia stato tratto da un testo letterario. Questo processo, definito da Roman Jakobson «traduzione intersemiotica o trasmutazione, una interpretazione di segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» (5), comporta una serie di complessi problemi determinati dal passaggio dalla lingua verbale a quella multimediale, se è vero, come afferma il regista Vittorio Taviani, che «nel rapporto tra la letteratura e il cinema ogni linguaggio ha una sua autonomia: il linguaggio usato dal regista deve scomporre tutta la materia che c’era prima [nel libro] e ricomporla [nel film] in una maniera tale che anche il senso si modifica» (6). Di fronte ad una relazione intersemiotica di questo tipo bisogna dunque tener sempre presente di avere a che fare con opere aventi una autonomia e una coerenza proprie, a «testi insostituibili l’uno con l’altro», come nota Nicola Dusi (7), laddove il passaggio da un testo letterario ad uno filmico, lungi da essere una semplice transcodificazione, diventa una «forma d’azione complessa, […] un evento transculturale, dinamico e funzionale, in tensione tra una esigenza di fedeltà al testo di partenza e la necessità di trasformazione in un testo che sia compreso e accettato nella cultura d’arrivo» (8). Non solo: qualcuno, come il regista francese Jean Renoir, riteneva anche che il cinema fosse lo strumento più efficace per raccontare una data storia, più di «una penna o una macchina da scrivere» (9).
Come rileva Francesco Tronci nel suo saggio Intertestualità e multimedialità: considerazioni inattuali (2005) il passaggio da un medium all’altro porta con sé «il problema degli ‘incroci’ di codici nella prospettiva semiologica d’interpretazione dei testi» (10), laddove il concetto di multimedialità rimanda a quello di intertestualità: la ‘mescolanza dei codici’ di cui parla Maria Corti nel suo libro "Il viaggio testuale" (1978) (11).
La nuova invenzione – il cinematografo – concentrava diversi codici narrativi (la parola, la musica, l’immagine, il suono, il colore) all’interno di un macro racconto (il film) che li teneva uniti insieme: ciò poteva determinare il pericolo della incapacità di comprensione, da parte dello spettatore, del singolo codice rispetto ad altri ritenuti superiori, come denunciarono, nel primo Novecento i formalisti (12) e i pionieri dello strutturalismo del Circolo Linguistico di Praga, gli autori delle famose Tesi (13), i quali elaborarono, nel 1929, un Manifesto della asincronia.
Vediamo di chiarire il concetto, usando ancora le parole di Tronci:

Le possibilità offerte dall’evoluzione tecnologica (banda sonora, colore, ecc.) anziché aumentare il tasso di complessità semantica del testo cinematografico finiva, qualora i codici fossero utilizzati in una situazione di perfetta sincronia, per appesantire e banalizzare il testo. Soltanto l’asincronia, vale a dire lo sfasamento, più o meno pronunciato, delle colonne paradigmatiche (movimenti di macchina, piani, dialoghi, colonna sonora, ecc.) riferibili ai diversi codici, garantisce della possibilità di riconoscimento del ruolo giocato dalle lingue diverse che concorrono alla costruzione del testo (14).

L’esempio più noto di film perfettamente asincronico è senza dubbio il provocatorio "L’année derniére à Marienbad" (L’anno scorso a Marienbad, 1961) di Alain Resnais, Leone d’Oro al Festival di Venezia, con Giorgio Albertazzi.
Uno dei punti maggiormente dibattuti riguardava l’uso della musica all’interno del film, soprattutto dopo l’avvento del sonoro: la musica, che nel cinema muto aveva il compito di vivacizzare le didascalie al cambio delle scene, con il sonoro continuò per lungo tempo ad essere intesa come un codice narrativo secondario, un semplice accompagnamento delle immagini. È nota la posizione in proposito di Theodor W. Adorno, che nel suo libro "La musica per film" (1975) stigmatizzava l’uso, a suo dire riduttivo e banalizzante, della colonna sonora nei film:

Uno dei pregiudizi più lungamente diffusi nell’ambito dell’industria del cinema è che la musica non si dovrebbe sentire. La ragione di questo pregiudizio è quanto mai vaga, e cioè il film – inteso come unità organizzata – assegnerebbe alla musica una funzione diversificata, il che significa servile. Il cinema è in linea di massima un’azione parlata, l’interesse materiale e quello tecnico, quest’ultimo derivato dal primo, sono concentrati sull’attore e tutto ciò che potrebbe dargli ombra viene considerato come una turbativa. Anche nei copioni si trovano soltanto accenni vaghi e sporadici sulla musica. Essa si è semplicemente introdotta a forza nel procedimento di ripresa cinematografica, in base allo sviluppo dei mezzi di ripresa del cinema sonoro. Dal punto di vista del contenuto suo proprio, non è stata per nulla approfondita. Essa viene tollerata come elemento estraneo del quale non si può fare a meno (15).

Naturalmente al giorno d’oggi non si ritiene più – come spesso avveniva in passato – che il libro sia (sempre) superiore al film, perché entrambi assumono una propria specificità alla luce delle caratteristiche del linguaggio usato e di altri fattori in gioco, come le diverse epoche storiche in cui hanno vissuto gli scrittori e i registi, i quali hanno voluto raccontare delle storie – le loro storie – modificando (qualcuno più, qualcuno meno) il testo letterario di partenza: che poi i mezzi del cinema abbiano avuto – usando le parole di Italo Calvino – una «suggestione di verità più diretta» (16) rispetto alle opere letterarie, non ha importanza (sempre che sia vero), perché lo scopo non è stilare una graduatoria di valori estetici, ma cercare di capire quali motivazioni abbiano indotto gli autori a raccontare, proprio in quel modo, quella data storia.
Un’ultima considerazione: girare dei film ‘tratti’ da opere letterarie ha spesso contribuito ad (re)indirizzare la curiosità degli spettatori verso il testo di ‘partenza’, il libro. A riprova di questa nuova tendenza del pubblico – con l’augurio anche che da (troppo spesso) semplice spettatore passivo possa diventare (sempre più) lettore attivo – si può ricordare il grande successo di vendite ottenuto dal romanzo La masseria delle allodole, della scrittrice italiana di origine curda Antonia Arslan, pressoché ignorato dal grande pubblico sebbene avesse vinto il premio Campiello nel 2004, all’uscita nelle sale dell’omonimo film, nel marzo del 2007. Può sembrare un paradosso, ma l’ipotesi che i film non sottraggano tempo e voglia alla lettura dei libri, ma che anzi possano contribuire alla loro diffusione, è, oltre che suggestiva, una grande speranza in un Paese come il nostro, dove pochi vanno al cinema a vedere film d’autore e ancor meno leggono libri.

(1) Giorgio Tinazzi, La scrittura e lo sguardo. Cinema e letteratura, Marsilio, Venezia 2007, p.10

(2) Ibidem.

(3) Ivi, p.13.

(4) Ivi, p.9.

(5) Roman Jakobson, On Linguistic Aspects of Translation, in R.Brower (a cura di), On Translation, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1959: [La traduzione è mia]

(6) Stefano Sanjust, Dalla parola scritta dei ‘fratelli maggiori’ al linguaggio filmico dei fratelli Taviani, in Portales n.1, Poliedro Edizioni, Nuoro 2001, p.47.

(7)
Nicola Dusi, Il cinema come traduzione. Da un medium all’altro: letteratura, cinema, pittura, UTET, Torino 2003, p.4.

(8) Ivi, p.7.

(9)
G.Tinazzi, op.cit., p.9.

(10) Francesco Tronci, Intertestualità e multimedialità: considerazioni inattuali, in L.Sannia, F.Cotticelli, R.Puggioni (a cura di), Sentir e meditar, Aracne, Roma 2005, p.375.

(11)
Cfr. Maria Corti, Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978. Nel paragrafo Un modello per tre testi: le tre «Panchine», la studiosa prende in considerazione un racconto di Italo Calvino, La panchina, del 1955, divenuto un anno dopo un testo teatrale, che quindi acquisisce le caratteristiche di un testo multimediale.

(12)
La scuola formalista, che ebbe origine dalla cooperazione del Circolo linguistico di Mosca (nato nel 1915 con l’intento di promuovere studi di linguistica e di poetica) con la Società per lo studio del linguaggio poetico (nata a Pietrogrado nel 1917) conosciuta poi come Opojaz, annoverò tra i suoi esponenti R.Jakobson, O.Brik, J.Tynjanov, B.Ejchenbaum, V.Šklovskij, B.Tomaševskij, V.Propp.

(13)
Gli autori principali delle Tesi erano i Russi N.Troubetzkoy, R.Jakobson, S.Karcevskij e i Cecoslovacchi B.Trnka, J.Mukarovsky, B.Havranek.

(14) F.Tronci, op.cit., p.385.

(15) Theodor W. Adorno, Hanns Eisler, La musica per film, Newton Compton, Roma 1975, pp.25-26.

(16)
Italo Calvino, ‘Quattro domande sul cinema italiano’, Cinema nuovo, X, 149, gen./feb. 1961, ora in I. Calvino, Saggi 1945-1985, tomo secondo, Mondadori, Milano 1999, p.1920.