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"Questione di cuore" di Francesca Archibugi

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
 
“L'amara commedia” (come titolava un vecchio testo curato da Riccardo Napolitano) è stata la spina dorsale del nostro cinema dal dopoguerra fino agli anni ottanta, un genere originale che riusciva a compiere il miracolo (grazie soprattutto a solide sceneggiature e interpreti di ottima caratura) di provocare nello spettatore riso, pianto, ma pure riflessione su una società in cambiamento accelerato e scomposto.
Inoltre, otteneva ottimi incassi, spesso investiti dai produttori – almeno in parte – in film diversi, più sperimentali, maggiormente complessi per linguaggio e contenuto. La commedia, nello standard suddetto, era legata al contesto storico e economico del boom; avanzando i tempi, diversificandosi la situazione sociale, invecchiando e scomparendo registi e attori, il genere, ovviamente, ha avuto una mutazione, così come le altre tipologie del cinema popolare, una sorta di decadimento. Ma il tentativo di riproporre “l'amara commedia” è tuttora in corso da parte di autori, anche molto giovani, con risultati, il più delle volte, contraddittori.
 
“Questione di cuore”, tratto dal libro omonimo di Umberto Contarello, vuole essere proprio un film di sorrisi e di tristezza, di battute vincenti e di riferimento all'Italia contemporanea. Nel raccontare l'incontro – in una corsia di rianimazione cardiologica - di uomini opposti nella estrazione culturale (l'intellettuale e il proletario arricchito), nel lavoro (lo sceneggiatore e il carrozziere), nelle soddisfazioni sentimentali (Alberto viene lasciato da una pseudo fidanzata, Angelo è felicemente sposato con figli), nella personalità (l'uno è diventato assai cinico e nevrotico, l'altro “pensa positivo”), l'Archibugi vuole mostrare anche quanto è cambiato il nostro paese. Quest' ultima ambizione si rivela disastrosa. Se è vero che l'autrice, con sensibilità tecnica, porta la macchina da presa nelle periferie romane trasformate profondamente da vent'anni a questa parte, ma che comunque conservano un aura popolare, ancora assai evidente, le notazioni sociali sono superficiali e patetiche. Al film manca proprio questo: riferimenti reali e credibili al mondo che vuol ritrarre.
 
Però, l'Archibugi, da sempre, essendo stata anche lei una discreta attrice (la ricordiamo con piacere, per esempio, nel televisivo “Le affinità elettive”) ha un tocco felice con gli interpreti: sceglie ottimamente il cast e si affida ad attori perfetti e adeguati per i ruoli.
In questo caso, la coppia Albanese-Rossi Stuart funziona al massimo livello ed è il punto di eccellenza del film, che vale il loro gioco interpretativo, fuori da ogni steroptipo. Riescono a rendere toccante la storia e reggono primi e primissimi piani, quasi bergmaniani, con la forza di uno sguardo, di un sorriso, di una repentina trasformazione mimica che rende, di volta in volta, melanconia, ritrovata serenità, disperazione, nuova sensibilità nel cogliere le vicende del mondo. Inoltre, l'Archibugi è una delle poche registe che sa far recitare i bambini non rendendoli insopportabili marionette e pure questo dà vigore alla storia. Basterà? Come, più volte, shakespearianamente, afferma il protagonista, “questa è la domanda!”.