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Letteratura - S. Sanjust

Letteratura e cinema (II parte)

 
Massimo FelisattiLa sceneggiatura
Con la stesura del ‘copione’ avviene la prima significativa modificazione del testo letterario di partenza e a questo proposito è importante tener presente che tale operazione varia a seconda della ‘lunghezza’ del testo di partenza: se trarre dei film da novelle e da romanzi brevi può apparire più semplice perché i componimenti di poche pagine sono già ‘quasi’ delle sceneggiature, nel caso della trasposizione di un romanzo di centinaia di pagine il lavoro sarà diverso (e forse più complicato); all’inverso, avere poche pagine a disposizione può creare difficoltà di ‘riempimento’ di un film che deve avere la durata di (circa) due ore; laddove invece molte pagine possono offrire maggiori possibilità di scelta.
Ma cosa è esattamente una sceneggiatura? Gianni Rondolino e Dario Tomasi nel loro libro Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi (1995) la definiscono «una descrizione più o meno precisa, coerente, sistematica, di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi in qualche modo fra loro» o, più semplicemente, «un processo di elaborazione del racconto cinematografico che passa attraverso diversi stadi».
Volendo, per dovere di chiarezza, spiegare brevemente le diverse fasi della composizione della sceneggiatura, basterà specificare che generalmente si fa riferimento a tre stadi principali: il soggetto, il trattamento e la scaletta.
 
Quando il soggetto – di solito poche righe o poche pagine che contengono in nuce il futuro film, secondo Rondolino e Tomasi, la «prima manifestazione concreta di un’idea, […] il breve riassunto di qualcosa che ancora non c’è ma che è probabilmente destinato a prendere forma» – è tratto da un’opera letteraria si parla di «adattamento»: in questa fase il soggetto viene suddiviso nelle varie scene che vengono descritte in modo funzionale al girato del (futuro) film, cercando di mettere a punto le varie ambientazioni – esterni, interni, giorno, notte, ecc. – mentre i dialoghi sono abbozzati in uno stile indiretto; la scaletta è invece lo stadio in cui le scene vengono numerate, creando il primo momento di continuità narrativa: si può così cominciare a vedere la ‘misura’ della storia, come affermano Lucio Battistrada e Massimo Felisatti nel loro libro Corso di sceneggiatura (1993):

Possiamo controllare i ritmi [del film], vedere se l’inizio è lento o anticipa troppo ciò che va invece rivelato più avanti; se a un certo momento della storia c’è una fase di stanca […] che va irrobustita con qualcosa di forte, oppure se c’è una eccessiva concentrazione da diluire con una scena di riposo o di passaggio; se un personaggio entra troppo tardi o resta assente dalla storia per troppo tempo; se siamo riusciti a caricare il finale della necessaria tensione...

Dall’interazione del trattamento e della scaletta scaturisce la sceneggiatura vera e propria, nella quale le scene del film sono inserite in ordine cronologico; gli ambienti, i personaggi e gli eventi sono descritti con accuratezza e i dialoghi sono indicati con precisione: ciò presuppone, già nella fase di preparazione, il frazionamento delle scene in inquadrature – il cosiddetto découpage – che vengono numerate e nelle quali si indica il punto di vista della cinepresa e i suoi eventuali movimenti.
Nel cinema italiano d’autore la sceneggiatura è spesso scritta dal regista, cosa che, se da un lato ha semplificato il passaggio dal libro al film, proprio in virtù del fatto che la mediazione da un codice all’altro è avvenuta tramite un testo scritto (i dialoghi del film) realizzato da chi poi ha girato la pellicola cinematografica (due autori, scrittore e regista, per tre stadi: libro, sceneggiatura e film), dall’altro moltiplica le possibili rappresentazioni, perché il «cinema mentale» descritto da Calvino – e cioè la tendenza che ogni lettore ha di ‘sceneggiare’ il libro che legge – agisce più volte, dal testo letterario alla sceneggiatura e dalla sceneggiatura alla scena filmica. E durante le riprese lo sceneggiatore-regista può cambiare ancora la storia, partendo dal «cinema mentale» che la (sua) sceneggiatura gli ha suscitato. Quando si lavora su un film tratto da un testo letterario sarà quindi importante analizzarne la sceneggiatura, tenendo però presente che durante le riprese le scene possono essere parzialmente o interamente modificate rispetto al testo previsto e che durante il montaggio, fase finale (e cruciale) del film, altre ancora possono essere state cassate.

Il montaggio

Già nel 1929 Sergej M. Ejzenstejn affermava che «gli elementi dinamici del montaggio servono come impulsi per portare avanti il film nel suo complesso» e che «il montaggio [cinematografico] è il mezzo per ottenere, attraverso il montaggio dei concetti figurati, l’incarnazione organica di un’unica idea, che abbracciasse tutti gli elementi, i particolari, le parti dell’opera cinematografica».
Tecnicamente il montaggio è l’operazione che consente di unire la fine di una inquadratura con l’inizio della successiva: cosa che deve avvenire, necessariamente, dopo che l’ultima scena del film sia stata girata. Ciò significa che quando il lavoro degli attori e di tutti i membri della troupe è terminato, inizia, sotto l’occhio attento del regista, quello del montatore: la pellicola viene sviluppata e sistemata dentro le bobine: vengono scelte, tra le numerose inquadrature, quelle più efficaci, si uniscono gli spezzoni tra loro e, scena dopo scena, si ricostruisce la storia del film così come era prevista dalla sceneggiatura o come è stata modificata nel corso delle riprese. Durante il montaggio singole inquadrature o intere scene possono essere eliminate, modificate o collocate in un momento del racconto diverso da quello originariamente previsto.
Così scrive il montatore Albert Jurgenson nel suo libro Pratique du montage (1990):

Si può dire che la nascita del montaggio dati dal giorno in cui si è pensato di modificare il punto di vista della macchina da presa su di una scena nel corso di quella stessa scena, di modificare cioè la sua posizione senz’altro scopo che quello di una migliore descrizione dell’azione o di una migliore costruzione drammatica.

MeliesNei primi film dei fratelli Auguste e Louis Lumière e di Georges Méliès, costituiti da una sola inquadratura in campo medio, della durata di circa un minuto – quella della pellicola di una bobina – la macchina da presa rimaneva fissa. Nei primi anni del XX secolo i film cominciarono ad essere costituiti da più scene, ognuna delle quali era girata in una singola inquadratura e il montaggio consisteva nell’unire tra loro le varie scene-inquadrature. Col passare degli anni le scene iniziarono ad essere composte da più inquadrature: «I lungometraggi – afferma Dominique Villain nel suo libro Le montage au cinéma (1991) – di circa settantacinque minuti, divengono la norma verso il 1915, e contengono fra i duecentocinquanta e i quattrocento piani» e, alcuni anni dopo, le inquadrature vengono riprese da angolazioni diverse, i «tagli si raccordano sul movimento [dei personaggi] e i film hanno molte più inquadrature: tra i cinquecento e i mille piani»: tale evoluzione tecnico-narrativa si deve al regista americano David Wark Griffith, l’autore di The Birth of a Nation (La nascita di una nazione, 1915) e di Intolerance (Intolleranza, 1916), che, intuendo che la macchina da presa potesse avere una parte attiva nella narrazione, stabilì che durante il montaggio le varie sequenze dovessero essere composte da inquadrature scelte e ordinate in base alle necessità della drammaturgia scenica rappresentata.
Così Karel Reisz e Gavin Millard, nel loro libro La tecnica del montaggio cinematografico (1983), chiariscono il concetto appena espresso:

Spezzando un avvenimento in brevi frammenti, ciascuno ripreso dalla posizione più adatta, si poteva modificare l’importanza delle singole inquadrature, controllando così l’intensità drammatica dei fatti man mano che la narrazione progrediva.

Griffith e ChaplinGriffith è stato anche l’inventore del montaggio ‘parallelo’, il passaggio improvviso da una scena all’altra, in modo che lo spettatore abbia contemporaneamente davanti agli occhi due narrazioni: salto ottenuto montando una inquadratura di un’altra scena prima che la precedente fosse terminata.
Come detto, agli albori del cinema il punto di vista della macchina da presa doveva coincidere con quello dello spettatore – nella posizione di campo lungo – e prima di iniziare a girare una scena bisognava concludere la ripresa della precedente. Griffith modificò, nel corso della stessa scena, la posizione della macchina da presa, la avvicinò all’attore – passando dal campo lungo al campo intero, fino al primo piano – mostrandone così più chiaramente la mimica facciale. Tornando al montaggio parallelo, è noto che Ejzenstejn, nel saggio Dickens, Griffith e noi (1940), sostenesse che il regista americano, da lui definito «[il] mago del ritmo e del montaggio», avesse tratto la tecnica compositiva del montaggio parallelo dai romanzi del grande autore inglese Charles Dickens:

Griffith lanciò ai suoi produttori la novità di un ‘taglio’ di montaggio parallelo. Per la sua prima versione di Enoch Arden (After Many Years [Dopo molti anni], 1908), ecco la discussione che si svolse, secondo quanto racconta Linda Arvidson Griffith nei suoi ricordi dell’epoca:
Quando Griffith propose che a una scena in cui si vedeva Annie Lee che attendeva il ritorno del marito ne seguisse un’altra in cui si vedeva Enoch [il marito] abbandonato su un’isola deserta, la cosa parve troppo ardita e sconvolgente.
- Come si può raccontare una storia saltando in questo modo? La gente non capirà più nulla.
- Bene, - disse Griffith - forse che Dickens non scrive in questo modo?
- Sì, ma quello è Dickens, quello è un romanzo; è una cosa diversa.
- Oh, non tanto poi. Questi sono racconti per immagini; la cosa non è molto diversa.

L’invenzione rivoluzionava il modo di girare – e di intendere – i film e inizialmente suscitò le perplessità della casa di produzione che temeva le reazioni del pubblico, abituato da anni ad identificare ogni scena con una sola inquadratura. Così testimonia Lewis Jacobs nel suo libro The Rise of the American Film. A critical history (L’avventurosa storia del cinema americano, 1952):

Nell’ambiente della  Biograph [la casa di produzione di Griffith] l’impressione fu vivissima: […] «Ma che dirà la gente? È contro tutte le regole del cinema», questi erano i primi commenti. Ma Griffith non aveva tempo per discutere e […] subito dopo il primo piano di Annie, inserì un fotogramma ritraente l’oggetto dei suoi pensieri, il marito, abbandonato in un’isola deserta. Questo passaggio da una scena all’altra senza che nessuna delle due fosse finita suscitò un vespaio di critiche.

Naturalmente il regista americano difese il proprio esperimento, invocando l’autorità del grande scrittore inglese: era giunto all’«azione parallela» e, conseguentemente, al montaggio moderno, partendo da lui, proprio come sosteneva Ejzenstejn: «Griffith arrivò al montaggio attraverso il metodo dell’azione parallela, e fu portato all’idea dell’azione parallela da… Dickens!»

Il suono e l’immagine

Il cinema nasce muto, privo dell’accompagnamento di un suono registrato, ma sin dai primi anni le proiezioni erano spesso accompagnate da un pianista che suonava dal vivo o, nelle grandi occasioni, da una intera orchestra: come accadde per film di grandissimo successo, come Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone in Italia, o The Birth of a Nation (1915) e Intolerance (1916) negli Stati Uniti. I motivi che portarono a questo accompagnamento musicale sono vari; Rondolino e Tomasi ne citano alcuni:

Il bisogno di vincere la cosiddetta ‘terribilità del silenzio’, quello di coprire il fastidioso rumore della macchina di proiezione, […] il voler aggiungere a quelle immagini così ‘vere’ la dimensione che le mancava, quella sonora.

Si cercò dunque di «aggiungere la dimensione sonora», anche se la realizzazione fu inizialmente frenata dalle logiche di mercato. Ancora Rondolino e Tomasi:

Già agli inizi degli anni dieci i problemi tecnici essenziali inerenti la possibilità di registrare e riprodurre il suono erano in parte risolti. Ma, come spesso accade, il sistema produttivo preferì utilizzare il più a lungo possibile le tecniche già esistenti, evitando il rischio di nuovi e pericolosi investimenti.

''The jazz singer''Così, per avere il primo film con un commento sonoro registrato direttamente sulla pellicola, ma privo ancora di dialoghi – Don Juan (Don Giovanni e Lucrezia Borgia) diretto da Alan Crosland per la Warner Brothers – bisogna aspettare il 1926 e per quello musicato e parlato, The Jazz Singer (Il cantante di Jazz), diretto dallo stesso Crosland sempre per la Warner, l’anno successivo. È così, alla fine degli anni venti nasce la colonna sonora propriamente detta, non più formata dalle sole musiche, ma dai differenti materiali sonori: parole, suoni, rumori. A quel punto il successo internazionale fu tale che in pochi anni il cinema muto fu totalmente abbandonato.
La nuova invenzione provocò un’accesa disputa tra registi, critici e addetti ai lavori che, prendendo posizione a favore o contro il sonoro, dibattevano sul linguaggio cinematografico e sulle sue capacità espressive (a questo proposito è nota la posizione di Luigi Pirandello che vide nell’introduzione del sonoro la morte del cinema stesso).
Il film parlante ha mantenuto, sin dalle sue prime apparizioni, un rapporto strettissimo e fecondissimo con la letteratura, proseguendo ciò che il film muto aveva cominciato e ha raccontato con le immagini, arricchite dalla voce umana degli attori, delle storie già narrate dalla parola scritta. Due modi di raccontare la stessa storia...