"La trilogia del dollaro" di Sergio Leone
di Filippo Primo
In una rubrica come questa in cui la nostalgia è l’humus ispiratore, era un obbligo morale dedicare una review alla “trilogia del dollaro” del grande artigiano (barocco) del cinema nostrano: Sergio Leone. Gli anni ’60 - con l’ondata di rinnovamento dei nuovi autori del cinema americano ed europeo- segnano una battuta d’arresto per il western “classico”.
E’ a questo punto che Sergio Leone nel 1964 – all’epoca si firmò Bob Robertson, in omaggio al padre regista Roberti - con il rivoluzionario film “Per un pugno di dollari”, diventò come un bounty killer di quel genere - il western all’americana appunto - ancora amato dai critici. La stessa critica italiana più blasonata, con la solita pedanteria e moralismo cieco, diede a Leone del manierista e dell’esaltatore della violenza, abituata com’era a giudicare la qualità di un film in funzione del suo quoziente di realismo. Non si era accorta, come forse neanche Leone all’inizio, che il western all’italiana si stava innalzando alla dignità di un sottogenere di tutto rispetto che influenzerà gli stessi registi americani, primo fra tutti Sam Peckinpah, riscattando la definizione di “spaghetti-western” dalla sua connotazione negativa per elevarla a sinonimo di pellicola di qualità.

E’ a questo punto che Sergio Leone nel 1964 – all’epoca si firmò Bob Robertson, in omaggio al padre regista Roberti - con il rivoluzionario film “Per un pugno di dollari”, diventò come un bounty killer di quel genere - il western all’americana appunto - ancora amato dai critici. La stessa critica italiana più blasonata, con la solita pedanteria e moralismo cieco, diede a Leone del manierista e dell’esaltatore della violenza, abituata com’era a giudicare la qualità di un film in funzione del suo quoziente di realismo. Non si era accorta, come forse neanche Leone all’inizio, che il western all’italiana si stava innalzando alla dignità di un sottogenere di tutto rispetto che influenzerà gli stessi registi americani, primo fra tutti Sam Peckinpah, riscattando la definizione di “spaghetti-western” dalla sua connotazione negativa per elevarla a sinonimo di pellicola di qualità.




L’idea era di rifare “La grande guerra” in western. E’ durante la guerra di Secessione che i tre avventurieri sono alla ricerca di un carico d’oro scomparso e oltre a cercare di eliminarsi a vicenda, devono affrontare le insidie e gli orrori del conflitto civile cambiando frettolosamente divisa e bandiera. Un film, come anche i precedenti, tutto al maschile e che mescola l’epica western con la comicità latina (grazie anche alla sceneggiatura di Age & Scarpelli). Ormai è pienamente consolidata la nuova concezione del tempo in cui consiste l’essenza del genio Leone, e che è fondata sulla dilatazione, in un genere d’azione e western dove la rapidità è sovrana.

Tarantino, grande fan di Sergio Leone, lo ha omaggiato in tanti suoi film, a iniziare proprio dal finale de “Le Iene” dove mette in scena un incredibile “mexican standoff” che ha avuto origine proprio dal triello finale de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo”. Lo stesso Tarantino inizialmente, non conoscendo ancora tutti i termini tecnici cinematografici, era solito chiedere ai propri cameraman “give me a Leone”, ovvero “datemi un Leone”, per avere uno di quei suggestivi primissimi piani sui dettagli, marchi di fabbrica del regista romano.
E se, per tornare al passato, John Ford era riuscito a far sognare gli adulti con i suoi eroi buoni e senza macchia, Leone ha fatto sognare il bambino che è in ogni adulto con i suoi eroi cinici e beffardi.