Percorso

Letteratura - S. Sanjust

Letteratura e cinema (III parte)

di Stefano Sanjust

Il cinema e la letteratura. (Due modi di raccontare la stessa storia)

''L’arroseur arrosé'' Il cinema racconta delle storie e lo fa fin dalle sue origini: già ""(L’innaffiatore innaffiato), di Louis Lumière (1864-1948), della durata di un minuto, presentato in occasione della prima proiezione per un pubblico pagante al Cinématographe Lumière, il 28 dicembre del 1895, rappresenta, secondo Sara Cortellazzo e Dario Tomasi «una storia con tanto di esordio (il giardiniere che innaffia), intrigo (il monello che schiaccia la pompa, l’innaffiatore che si innaffia e che poi rincorre il ragazzo), scioglimento (l’uomo che punisce il colpevole sculacciandolo) ed epilogo (il giardiniere che riprende indisturbato il suo lavoro)». Una storia dove gli eventi, più che essere raccontati, sono rappresentati, messi in scena, dato che tutto accade davanti agli occhi dello spettatore, in perfetta continuità spaziale (l’inquadratura non cambia mai) e temporale (dall’inizio alla fine senza ellissi): la telecamera è fissa – durante l’inseguimento in giardino i protagonisti finiscono fuori dall’inquadratura – e si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una scena teatrale. Bastarono pochi anni perché il cinema perfezionasse la sua tecnica narrativa: il montaggio rivoluzionava il modo di raccontare, perché, aggiungono Cortellazzo e Tomasi, «regalava alla settima arte la possibilità di una trasformazione dello spazio e del tempo reali in uno spazio e in un tempo propriamente narrativi».
Oggi, grazie alla magia del cinema si può, con uno stacco dell’inquadratura, attraversare lo spazio e il tempo, spostandosi da un luogo all’altro lontani migliaia di chilometri, viaggiare dal presente al futuro (flashforward) e dal presente al passato (flashback), o tra il reale e l’immaginario, passando «dal realismo soggettivo del ricordo, del sogno, della fantasticheria, dell’allucinazione», raccontando in due ore di proiezione una storia che occupa centinaia di pagine di un libro. Ciò ha fatto sì che il cinema, in oltre cento anni di vita, abbia «tratto materia» – come ama dire Vittorio Taviani – da innumerevoli opere letterarie, anche se non si tratta di un rapporto esclusivo tra queste due arti, perché, come afferma il regista Akira Kurosawa, «il cinema racchiude in sé molte altre arti. […] Ha caratteristiche proprie della letteratura, connotati propri del teatro, un aspetto filosofico e attributi improntati alla pittura, alla scultura, alla musica».
 
Akira KurosawaNaturalmente, trasformare un testo letterario in uno filmico non è un procedimento semplice, perché il passaggio da un codice all’altro implica questioni di natura linguistica, estetica, sociologica di grande spessore, dato che l’uso di linguaggi differenti, aventi proprie caratteristiche, permette di raccontare la medesima storia in modo molto diverso. Prendiamo il caso di un film derivato da un romanzo: spesso si va a vederlo perché si è apprezzato il libro da cui è tratto, ma si rimane delusi dalla trasposizione filmica perché – notano ancora Cortellazzo e Tomasi – «i personaggi, gli ambienti e le situazioni sembrano tradire il modo in cui ce li si era immaginati durante la lettura del testo» e questo spiegherebbe la (diffusissima) convinzione che il libro sia meglio del film.
Come è noto, la presunta superiorità del testo letterario su quello filmico è stata una questione annosa e dibattuta e per lungo tempo si è ritenuto il film un semplice adattamento dell’opera letteraria di partenza, quasi in subordine ad essa: a questo proposito Dusi ricorda che Victor Šklovskij, parlando di adattamento usa il termine «riduzione», nelle accezioni di «limitazione» e di «semplificazione». Questo pregiudizio non trovava – naturalmente – d’accordo molti cineasti, pienamente convinti che il film fosse un’opera totalmente autonoma rispetto al libro da cui derivava: come il ventiduenne Françoise Truffaut che, al suo esordio come critico per la famosa rivista Cahiers du cinéma, in un articolo del 1954, intitolato Une certaine tendance du cinéma français polemizzò duramente con gli sceneggiatori Jean Aurenche e Pierre Bost – autori delle riduzioni di romanzi famosi come Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet, Giochi proibiti di Françoise Boyer, La sinfonia pastorale di André Gide e molti altri – i quali sostenevano che il compito dello sceneggiatore fosse di inventare senza tradire, rispettando lo spirito delle opere letterarie, cercando quindi – sono parole di Giacomo Manzoli – «degli equivalenti per quelle scene descritte dall’autore del romanzo che si ritiene impossibile portare nel cinema».
 
Francoise TruffautLo sceneggiatore doveva quindi inventare delle scene equivalenti, cercando di scriverle come lo scrittore le avrebbe scritte per il cinema. Truffaut nel suo articolo respingeva l’equivalenza per due motivi:

In primo luogo non esistono scene infilmabili e in secondo luogo non si può riscrivere la letteratura [poiché] il ricambio dei linguaggi presuppone il loro rispetto ed esclude le forme ibride; […] per questo, io non riesco ad immaginare un adattamento che non sia valido se non è scritto da un uomo di cinema.

Riguardo poi alla questione della fedeltà o meno di un film rispetto all’opera letteraria di partenza, il critico francese pensava che fosse «un falso problema: si può essere fedeli e autonomi e originali, ma anche aderenti al testo e banali», dato che si tratta di due strutture narrative differenti, due modi di raccontare che secondo Tinazzi «si confrontano e, mantenendo la diversità, si arricchiscono». (Lo stesso Truffaut nel suo libro Il cinema secondo Hitchcock riporta questa storiella che il maestro del thriller – di cui era noto lo spiccato sense of umor – gli aveva raccontato: «Due capre in un prato mangiano in silenzio una pellicola cinematografica. Ad un certo punto una dice all’altra: – Beh, ti piace? E quella risponde: – Mah, non so. Preferivo il libro…»)
 
Alfred HitchcockOggi, grazie alla critica cinematografica e alla comparatistica il cinema ha conquistato la piena dignità rispetto alle altre arti e la trasposizione cinematografica di opere letterarie ha acquisito valore di traduzione vera e propria: perciò anche per essa valgano le prospettive contemporanee degli studi sulla traduzione letteraria, che – scrive Marina Guglielmi nel suo saggio La traduzione letteraria (2002) – «concordano nel superamento della concezione dualistica secondo la quale la traduzione dovrebbe essere, rispetto all’originale, fedele o infedele, letterale o libera». A maggior ragione questo vale nel caso specifico del passaggio di codici narrativi, laddove questo è inteso – nota ancora la Guglielmi – come «un processo, un atto dinamico che comporta una serie di conseguenze».
Ciò detto, sappiamo però che nel caso di un film tratto da un libro il lettore-spettatore generalmente preferisce il libro al film, perché aveva immaginato la storia in un modo che poi non ha ritrovato nel film: quello che ha visto sullo schermo era diverso da quello che aveva immaginato e perciò si è sentito tradito dal regista. A questo punto sorge spontaneo chiedersi come possa nascere questo processo immaginativo: Calvino, nella IV delle sue Lezioni Americane, la Visibilità, afferma che «possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immagine visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale». Il primo caso avviene durante la lettura di un libro, quando ci creiamo l’immagine visiva della storia partendo dalle parole del testo che stiamo leggendo. Questo tipo di processo, ovviamente preesistente all’invenzione del cinema, è definito da Calvino un «cinema mentale [che è] sempre in funzione in tutti noi e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore». Antonio Costa, nel suo libro Immagine di un’immagine. Cinema e letteratura (1993), ha così sviluppato questo concetto, passando per le «sceneggiature iconiche» di Umberto Eco:

Umberto EcoIl più scarno ed essenziale degli enunciati narrativi viene dal lettore trasformato in scena. Questo procedimento […] lo si può intendere come attività di cooperazione interpretativa, secondo la definizione di Umberto Eco, che chiama in causa l’insieme delle «sceneggiature iconiche» (o «sceneggiature intertestuali»). Questo significa che, quando leggiamo, tendiamo a sceneggiare, a visualizzare, a collocare in determinati scenari gli eventi narrati, secondo il più o meno ampio repertorio di stereotipi che abbiamo a disposizione e con il quale colmiamo sottintesi, silenzi e lacune del testo narrativo.

Girando un film accade la stessa cosa: le sequenze, le scene nascono da un testo scritto (la sceneggiatura, a sua volta tratta dal libro) che il regista ha ricostruito (materialmente) con le riprese e il montaggio, cercando di rappresentare il suo «cinema mentale»; perciò è logico supporre che lo spettatore che faccia un confronto tra i due testi, 90 volte su 100 veda ‘vincitore’ il libro, perché la sua rappresentazione mentale della storia è – ovviamente – diversa da quella del regista, che è giunto al film dal libro passando attraverso la mediazione della sceneggiatura e che ha potuto utilizzare il testo di partenza privilegiandone alcuni aspetti piuttosto che altri e proponendo la sua interpretazione. (Il romanzo e il film possono avere, per esempio, la stessa fabula, ma non è detto che sul piano dell’intreccio seguano la stessa articolazione temporale). Oltre a ciò, bisogna anche tener presente che la specificità dei diversi linguaggi provoca spesso il mutamento della natura del testo di partenza. Ma allora, si chiedono Cortellazzo e Tomasi se

Nel suo farsi film un racconto originariamente letterario diventa un impasto di immagini e suoni,  come ne modificano la sua natura i diversi codici del linguaggio cinematografico (dal punto di vista della macchina da presa alla dialettica di campo e fuori campo, dai movimenti di macchine alle figure di montaggio, sino ad arrivare alle musiche, alle voci e ai rumori)?

La domanda, pur se lecita, può apparire riduttiva perché non tiene conto di un altro fattore che modifica il testo letterario, ossia la poetica del regista. Si può quindi affermare che la natura del testo letterario d’origine si modifica sempre: in primis perché trattandosi di due codici narrativi diversi, il romanzo e il film possono raccontare la stessa storia in modi diversi e in secundis – e questa è la motivazione più interessante – perché la poetica del regista non è quella dello scrittore: sono due opere distinte, di due autori diversi, spesso vissuti in epoche storiche diverse. Come giustamente sostiene Antioco Floris nel suo libro Le storie del figlio di Bakunín (2001) «il regista cercherà necessariamente nel testo letterario quel qualcosa che possa far diventare la storia raccontata non più espressione della poetica dello scrittore bensì della sua».
Perciò lo ‘spirito di partenza’ del testo scritto, frutto della poetica dello scrittore, cambia perché il regista esprime la sua poetica. Il regista Vittorio Taviani – autore, assieme al fratello Paolo, di numerosi film tratti da opere letterarie, spiegando il legame esistente tra i loro film e la narrativa, ci conferma che lo scopo precipuo di un regista sia lo ‘spirito di arrivo’:

Di un’opera ci può appassionare tutto o solo un personaggio, o un particolare [quando] ti accorgi che attraverso certe storie, certi personaggi, puoi buttare fuori le tue domande… Non per avere le risposte, ma per vedere se per caso, nel buttarle fuori, addosso agli altri, qualcosa torna. A quel punto non ci interessa davvero più la fedeltà all’opera di partenza. [...] D’altra parte tutto questo è assolutamente naturale, perché quando si passa da un linguaggio all’altro, tutto si trasforma, si reinventa.

Gianni Amelio, regista e sceneggiatore, concorda pienamente con Taviani:

I frateli TavianiChe brutta parola quando si dice ‘tratto da’ il tal libro, è una cosa ignobile. Fa pensare ad una estirpazione, ad una cosa ricca che inevitabilmente si impoverisce, perché tu estirpi e forse ne levi solo una parte, e magari non proprio la migliore. Che senso ha discutere se è più bella l’emozione che ho dato io o quella che hai dato tu. […] C’è l’emozione che dà un film e c’è l’emozione che dà un libro. Se qualche volta le due cose si incontrano possono esserci emozioni differenti, possono esserci emozioni più vicine, può esserci un’emozione da una parte, e la negazione di quell’emozione dall’altra. Perciò direi allo scrittore che ha scritto un grande libro: «Bravo, tieniti il tuo grande libro perché mi hai dato un’emozione e questa emozione a me basta, poi io spero di dartene un’altra con un film che farò». […] Per questo, ogni volta che mi sono dovuto ispirare a un’opera letteraria, l’ho trattata esattamente come se fosse un soggetto originale…

Tornando alla domanda di Cortellazzi e Tomasi si potrebbe concludere che i diversi codici del linguaggio cinematografico modificano la natura del testo letterario quanto più la poetica del regista si allontana da quella dello scrittore; ciò detto, il fatto che il film possa essere più o meno convincente rispetto al libro non sembra più una questione fondamentale, ed è fuori luogo cercare la (presunta) superiorità di un mezzo espressivo sull’altro: bisogna invece mettere in risalto le rispettive autonomie, laddove la fedeltà del film al romanzo non è importante perché il regista vuole raccontarci la sua storia e il fatto che prenda lo spunto da una storia raccontata da altri, testimonia anche un ‘risparmio’ di tempo. Tra l’altro, l’idea che si raccontino – seppur in modi diversi – sempre le stesse storie è vecchia quanto l’uomo ed è stata utilizzata sia nella narrativa, come sostiene Joahnn Wolfgang Goethe, che nei suoi Colloqui con Eckermann raccomanda ad un suo discepolo:

Quando devi fare un’opera, non stare a costruire le storie, perché è una perdita di energia… prendi le storie già esistenti, quelle che attraverso il tempo si sono solidificate come grandi strutture narrative, quelle che hanno una loro intelaiatura definita: ebbene, prendile e reinventale.

... che nel cinema, sin dagli albori del muto, come ricorda Karl Brownlow, direttore della fotografia di Griffith: «Quando un soggetto gli piaceva [Griffith] si limitava a cambiare interpreti e costumi e girava un nuovo film sulla vicenda già utilizzata». Anche John Ford, allievo di Griffith, usava girare più volte la stessa storia, come racconta Dudley Nichols, uno dei più noti sceneggiatori dell’epoca:


Il trucco era prendere una storia e girarla in successione in vari studios, con nuovi titoli e attori diversi. Mi pare di ricordare che una volta Ford mi disse di aver girato dieci volte la stessa storia, e nessuno se n’era accorto.

Replicare le stesse storie permise al cinema muto di perfezionare i mezzi tecnici ed espressivi, una esperienza che, portata avanti da registi di grande capacità e ingegno (come Griffith e Ford) produsse – afferma Lucilla Albano nel suo saggio Dalla letteratura al cinema: le impossibili istruzioni per l’uso (1997) – «raffinate sfumature di linguaggio, oltre a quella sintassi della narrazione così perfettamente funzionante e che, dai grandi maestri, passò più tardi anche ai più semplici e onesti artigiani di Hollywood».

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