Lirismo, cinema, architettura: pensieri sull’eterno connubio tra arte e civiltà.
di Enrico P. De Plano

Provenendo da una formazione che non ha più la sua matrice solo nella storia dell'arte ma anche nell'architettura, avrei dovuto sentirmi sedotto dal lungometraggio di Ruttmann, e lo sono. Ma inizio attraverso la stesura di appunti mnemonici su pure sensazioni.
Mi viene in mente il gruppo Abstraction Creation, o l’uso cezanniano di riferirsi a quella che definiva “ma petite sensation”. Ecco io ho avuto una vertigine di sensazioni che mi si affastellavano, ero rapito in un’estasi visiva nel turbine affatto barocco ma oltre misura commovente a tratti in modo sub-limines della pellicola “Lichtspiel Opus 1” di Ruttmann.
Mi viene in mente il gruppo Abstraction Creation, o l’uso cezanniano di riferirsi a quella che definiva “ma petite sensation”. Ecco io ho avuto una vertigine di sensazioni che mi si affastellavano, ero rapito in un’estasi visiva nel turbine affatto barocco ma oltre misura commovente a tratti in modo sub-limines della pellicola “Lichtspiel Opus 1” di Ruttmann.

L’inizio, incipit forte del film astratto come una serie di macchie non figurative alla Blaue Reiter, diventa immediatamente lirico e al tempo stesso, nella sua ricerca, dichiaratamente sperimentale. Nel ’21 del XX secolo quelle virgole pennellate sui fotogrammi che si alternano alle forme di luce sferiche, sono certo paragonabili a ricerche di arte visuale successive come quelle presenti in Stanley Kubrick, penso all’uso del colore in “2001 a space odissey”, o ad effetti speciali usati nelle sigle dei primi film di “James Bond”: B movies di culto che peraltro usavano tecniche di op art ma ancora in modi che ci ricordano queste particolari primigenie sfere colorate di Ruttmann le quali nel suo film appaiono, si dilatano e scompaiono in un big bang minimalista. Il fatto che il suo retaggio sia restato fino a effetti speciali in pellicole degli anni ’60 (un film sull’ MK Ultra e la CIA, con un giovanissimo Michael Cain) fa senza dubbio una certa impressione.

Le forme pennellate campite in un pattern nero di seppia, come idee platoniche in un universo vuoto, assumendo la forma di foglie o gocce si reduplicano, mutano colore, diventano infine fisse in una forma stabile e più definita a fiammella che nella tonalità azzurra ricorda esattamente certe stilizzazioni del metano proposte da un grande grafico svizzero negli anni ’80: Folon. Progressivamente la regia non adopera più le primitive riflessioni intorno all’asse (allora d’avanguardia) come effetti di straniamento asimmetrico. La musica aumenta la concordanza con il variare delle immagini, la cui complessità e capacità metamorfica si dilatano esplosivamente.
Forme di cellule occhieggianti rosse entrano in scena e vengono attaccate da una qual sorta di protoplasmatici pseudopodi azzurri cangianti, i quali (pur nella erraticità di ogni attribuzione e proiezione di idee figurative ad opere volutamente astratte) bizzarramente non possono che evocare, a chi conosca tali creature, l’attacco dal basso degli squali, di cui queste macchie cangianti oblunghe che si muovono sinuosamente, affusolate attaccando, hanno la forma, ed alle quali manca solo una mezzaluna a simboleggiare una bocca dentata.
Il colore in questa fase del film muta continuamente. Compaiono triangoli netti che si pongono contro i cerchi, quasi eco e citazione di El Lissitzky, ed infine domina il campo una vera guerra che si scatena tra triangoli di opposti colori: azzurri e rossi.

L’azzurro, come dovrebbe sapere chiunque abbia familiarità con la comunicazione e la semiotica, ma anche nozioni di etologia, richiama il cielo e rasserena, è considerato nobile dall’araldica medievale in quanto sede divina, e compare storicamente come banda di seta in tutte le decorazioni nobiliari dell’ ancien regime compreso quello bismarkiano ammodernato degli junkers prussiani.
La Germania era allora scissa e tutti i valori attorno a cui aveva fatto perno il Primo Reich gugliemino erano crollati, ma erano rimpianti da molti. Si pensava che la Kultur tedesca fosse superiore, ed il crollo bellico era spiegato come pugnalata alla schiena da parte dei traditori di novembre e degli ebrei in accordo con i Rotschild inglesi e francesi. Ciò permetteva di far sopravvivere l’idea di una missione storica della Germania e della necessità di un avvento di una politica in grado di contrastare e arginare il comunismo che avrebbe altrimenti distrutto la Nazione. Ruttman per la piega che prese la sua vita sembra pensarla così.

Si risparmiò almeno di vedere la distruzione della capitale che nel film “Berlin: Die Sinfonie der Grosstadt” immortalò in modo indimenticabile, e di cui rimasero solo macerie.
La visione di questo lungometraggio dopo il corto precedente, anzi, è per un appassionato di architettura e genius loci come me, occasione di sentimenti di orrore e rimpianto, perché è come se avessimo perso Parigi o Londra.
Le immagini aeree sono un documento eccezionale e moltissime inquadrature di manufatti architettonici di pregio del centro, come pure certe periferie non sono difformi da Old Bond Street o da Les Halles (anch’esse perse, in altro modo, facendo posto al centre Pompidou), e i parchi ricordano quelli di Londra o il Bois de Boulogne.

Inoltre, per decenni solo nella vita privata si aveva un barlume di vivacità, mentre finalmente Berlino ha ritrovato il sapore di essere una vera metropoli ed ha riscoperto una nuova vitalità ed effervescenza culturale e mondana paragonabili a quelle del film di Ruttmann del ’21 solo dopo la riunificazione della Germania e il ritrovato ruolo di capitale della nazione tedesca.
Oggi non casualmente molti degli architetti che hanno ricostruito sulle macerie di Potsdammerplatz hanno utilizzato forme e materiali che, seppure in modo aggiornato tecnologicamente, richiamano Mendelsohn, Gropius e in genere le avanguardie storiche.
