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Su Re: diario di Carlo Rafele (Parte prima)

di Carlo Rafele

''Su Re'', backstage. Foto di Luca CrippaContinua il viaggio di Cinemecum sul set e dietro le quinte del film di Giovanni Columbu sui Vangeli. Il 12 dicembre, alle 18, Enrica Anedda terrà un incontro-dibattito con il regista Giovanni Columbu, un prezioso approfondimento sul suo ultimo lavoro. Siete tutti invitati alla Libreria Vertigo, in via San Lucifero a Cagliari. E in attesa del faccia a faccia con Columbu pubblichiamo, a cura di Carlo Rafele, letterato e drammaturgo,  la prima parte del reportage  per vivere in diretta i retroscena misteriosi del film. Vi diamo appuntamento alla prossima settimana per la seconda parte del video girato sul  set da  Cinemecum.
 
Custu es'omine (Sul set del film di Giovanni Columbu)
Parte prima: Il Pretorio.
Facile dire “Vangeli Sardegna Cinema Su Re”, facile credere che mettendo insieme questi elementi, e adornandoli adeguatamente con un’oncia di immaginazione, il risultato non possa che essere favorevole.
È proprio ciò che da oggi avrò modo di sperimentare direttamente, nel ruolo insolito, inedito, di “Narratore sul campo”. Così, il primo scrupolo che mi muove è tentare di capire come questi elementi “interagiscano”, in che modo si dispongano e si tengano insieme già nelle prime fasi del tournage: se si rivelino tra di loro affini e compatibili, e in che modo il cinema sappia stringerli e avvincerli nel medesimo afflato.
Già le linee-guida del Progetto, così come le avevo apprese un anno addietro, tradivano senza infingimenti la complessità dell’operazione: “La Passione di Gesù viene raccontata seguendo i quattro testi del Vangelo. Le scene corrono parallele, convergono e divergono, rinviano ai raccontatori e alle loro diverse memorie”. Una soluzione drammaturgica che tendeva quindi ad escludere “il punto di vista di”, com’era stato il modulo pasoliniano, e che si esaltava nella confluenza-distanza dell’uno nell’altro o dell’uno dall’altro. Ovvero il “convergere o divergere” delle forze in campo.
Più giù, poi, si leggeva: “Accanto ai grandi temi morali e sociali del Vangelo, emerge la visione dei raccontatori, così la narrazione filmica si fa ancora più coinvolgente  La storia è trasposta in Sardegna sulla scorta della grandiosa esperienza degli artisti europei rinascimentali Il tempo dell’ambientazione è quello indefinito di una Sardegna rurale e arcaica Sullo sfondo campeggiano rovine e ruderi di antic
hi monumenti” .
 
Giovanni Columbu, foto di Luca CrippaCe n’era abbastanza per sollecitare e mettere alla prova una vigilata curiosità di stimoli e di punti di osservazione. In particolare, tornavo più volte sulle riga che evoca la “visione dei raccontatori”, come se cercassi rassicurazioni nella “visio” di suggestione medievale, con tutto ciò che poteva conseguirne in termini di trasposizione onirica e indefinita. Mi venivano in soccorso altre righe del Progetto: “La recitazione è affidata a non attori estranei ai moduli recitativi del cinema e della liturgia religiosa, che pronunciano le parole del Vangelo come parole nuove. Questi interpreti si avvalgono della propria lingua nativa, il sardo, che interviene come un suggestivo filtro vivificante”.
E ancora: “Quando Maria e Giovanni sono raccolti ai piedi di Gesù morente, dove ora incombe un cielo grigio, come in un sogno, Maria rivede la cometa che splende nel cielo stellato e, chinando lo sguardo, torna col ricordo, al Bambino neonato che quella notte cullava tra le braccia. Seguono reiterate e paurose le immagini dell’ombra buia che invade la collina, mentre la gente ammutolisce e fugge. Anche la morte è reiterata e ogni volta le ultime parole di Gesù differiscono. Alla fine il grande miracolo che precede la resurrezione”.
Ora è il set, sono i giorni concreti e aspri della lavorazione a pretendere il “grande miracolo”: tenere insieme gli innumerevoli elementi che fondano e attraversano idea e struttura del Progetto. Alcuni li vedo confusamente disposti davanti a me, in questo Mattino Uno di riprese, nella piana di Martis, dove sorge in solitaria ascesi un illustre rudere di pietra bianca, conosciuto come “Basilica di San Pantaleo”. Difficile al momento distinguere, nella folla ignota di individui che animano il set, chi accudisce la parte tecnica e chi passeggia in tono di comparsa, in attesa di indossare gli abiti che calpesteranno il perimetro della scena.
 
Stefania Grilli, foto di Luca CrippaIl camion che funge da sartoria mobile - il primo ad avere acceso le insegne - raccoglie una piccola processione di figuranti pronti a tramutarsi in attori-non attori, ciò che mi consente di osservare e classificare immediatamente le facce, i volti, di esclusivo dominio territoriale, che animeranno la scena quotidiana.
Importante sottolineare fin da ora il valore primario di questa scelta, che fonda e costituisce uno dei motivi di originalità del film: da una parte i Vangeli si fanno occasione di “sardità”, con l’iconografia che ne consegue; dall’altra l’utilizzo esclusivo di attori non professionisti, attori-non attori, incide potentemente sulla riuscita del Progetto-Film, stabilendo anche una sorta di “punto-limite” di ciò che il cinema può rischiare quando pretende di trasfigurare un testo storicamente predeterminato. Non si tratterà soltanto di abituarsi alle facce scolpite dal tempo, ai volti duri suscitati dalla pietra, o alla severità immota degli sguardi: si tratterà, piuttosto, di assegnare all’intera parabola evangelica un diverso grado di “avvicinamento” e di giudizio.
Tuttavia, prima di smarrirmi nella foresta dei concetti che meriteranno da qui in avanti accurate riflessioni, muovo alla ricerca del maestro-concertatore del film, colui che il film lo ha immaginato e tenacemente voluto tra mille difficoltà, alcune presumibili altre no:
Giovanni Columbu. Gli appunti da lui vergati, a proposito della genesi del Progetto, confermano e rilanciano la felice strategia di approccio:
“L’idea di questo film risale a circa quindici anni fa, un giorno in cui mi trovavo a Roma nella chiesa di Santa Maria in via Lata dove era stata allestita una mostra sulla Sacra Sindone. Allora fui colpito da una grande tavola che riportava su quattro colonne i brani dei quattro Vangeli che descrivono i patimenti inflitti a Gesù di cui si trova traccia nella Sindone. Quelle descrizioni mi fecero pensare a diversi testimoni che avessero visto e poi raccontato lo stesso fatto come in base alla propria soggettiva percezione e alla propria sensibilità Lo stile apparentemente impersonale dei singoli testi, per effetto del loro affiancamento, sembrava trasformarsi e rinviare ai raccontatori e rivelare il tono incerto ma ancora più verosimile e coinvolgente di un ricordo.
 
Stefania Grilli ai costumi. Foto di Luca CrippaProvai nei giorni successivi a leggere il Vangelo trasversalmente, passando da un testo all’altro, e scoprii che il racconto assumeva un’imprevista e straordinaria forza drammatica Fu allora che pensai a un film che raccontasse i ‘passi paralleli’ del Vangelo, reiterando e intrecciandone le scene, in cui quattro testimoni ricordano e raccontano lo stesso delitto ogni volta in modo diverso”.
La proposta dei “passi paralleli” svela la tentazione dell’approccio problematico - che riflette la molteplicità dei punti di vista - nonché la pluralità dello sguardo cinematografico, quindi la “scommessa” che il cinema mette in atto esaltando lo specifico di cui dispone. Vedremo via via come l’operazione filmica di Giovanni Columbu si attesti e si risolva proprio su questa linea: da una parte non limitandosi a una sola voce testimoniale, dall’altra offrendo all’occhio dello spettatore la possibilità di acquisire e di distinguere.
Da decenni la bibliografia evangelica si compone e si ricompone a partire dalle asserite contraddizioni che i “passi paralleli” evidenziano, insistendo di volta in volta sulla credibilità dell’una o dell’altra, fissandosi sulle minuzie dei passaggi, alterando possibili itinerari di ricerca, in sostanza cavalcando fino allo stremo la domanda ‘Com’è possibile la versione di questo evangelista, se è anche vero che’ eccetera eccetera.
 
Il cast ai costumi. Foto di Luca CrippaLungo sarebbe, insomma, il percorso attraverso le discordanze storiche ed esegetiche, i rovi di incongruenze e di anomalie che le quattro versioni offrono e dispiegano. Ma una delle felici risorse del cinema sta proprio nel mantenersi, al pari di quell’occhio naturale che lo distingue, fuori dall’agone delle interpretazioni e di farsi oggettivo - “obiectivus”, appunto - a volte “arrendevole” nel suo tentativo di ricerca, quasi fosse pronto a consentire, se non proprio a esibire, la “contraddizione”.
Preceduto da queste riflessioni, giungo davanti all’ingresso della Basilica, in procinto di trasformarsi nel luogo del Pretorio. Mi precede il reparto “luci”, facilmente riconoscibile per gli oggetti che trasporta: oltre alle due Macchine - la camera digitale Red One, in formato A e B - le “mascherine”, le lampade, i cavi elettrici e una congerie di piccoli-grandi oggetti che soltanto chi li usa e li manovra da vicino sa riconoscere. Li accompagna la segretaria di edizione (Elena Pietroboni), colei che nei giorni si rivelerà un occhio perennemente addestrato sul divenire delle riprese, in grado di monitorare ogni situazione del set, oltre ad essere la figura che accompagna il regista ad ogni passo.
Le scene all’interno del Pretorio prevedono che Gesù arrivi legato, trascinato dai soldati in assetto condanna, quindi condotto davanti a Pilato. Dentro questo reticolo di eventi, si inserisce la fustigazione, l’irrisione del Nazareno, la corona di spine messa sul capo, le minacce, gli insulti, l’accusa di blasfemia, con le differenze e le discordanze che ciascuna delle versioni presenta rispetto all’altra. Insomma, la macchina del giudizio, della condanna e dell‘oppressione terrena accesa in tutte le sue componenti.
 
Campo base. Foto di Luca Crippa“Cominciarono a irriderlo e sputargli in faccia”
“Gli venivano davanti e gli dicevano: Salve, re dei Giudei! E gli davano schiaffi”.
Il Cristo con il volto di Sardegna, il Cristo Re che si esprime unicamente in lingua sarda, ha gli occhi e lo sguardo incollati davanti alla macchina da presa. Le mani legate, la corona di spine intorno al capo, lo sguardo dolente ma fiero, il cipiglio irriducibile di chi sa di essere al primo gradino di un martirio crudele e inesorabile.
Appena Giovanni-regista ordina lo “stop”, Fiorenzo Mattu - questo il suo nome nella vita reale - solleva gli occhi quel minimo indispensabile per riprendere fiato; sa che non deve disperdere la concentrazione, che tra pochi secondi dovrà tornare Cristo. Sorride con timidezza a chi intorno a lui lo incoraggia e lo sprona, ma è naturale ed evidente che in queste prime prove sia soverchiato dalla responsabilità.
“Sei tu il Re dei Giudei?”
Giovanni-regista vuole che gli insultatori i calunniatori i fustigatori si facciano intorno all’obiettivo, che il sensore della Red One sia invaso delle loro smorfie, dei primi piani grondanti rabbia, disprezzo, che si riproduca per intero la follia del male e che sia soltanto l’obiettivo a raccogliere l’odio dei calunniatori e dei blasfemi. Così, i servi i romani i sacerdoti si spintonano l’un l’altro per conquistare una postazione davanti alla camera e con la forza violenta dello scherno pronunciano gli epiteti, le accuse, facendo palpitare nei loro volti il desiderio che quell’uomo venga presto giustiziato. E quando i frustatori iniziano l’opera, il sangue delle ferite sembra un prodotto della violenza verbale più che dei colpi subiti. Pochi secondi ed ecco l’immagine del Cristo tramutarsi in un’icona di sangue e di offerta al dolore. A quel punto, Giovanni chiede alle donne di entrare in scena e muovere verso il suppliziato, trascinando nelle labbra una nenia, un canto cupo, un lamento straziante. Ciascuna di loro tocca il corpo del Cristo per trattenere sulle dita una striscia del suo sangue, e la mostra alle altre, come per sancire in quel gesto la confluenza di umano e divino che si sta celebrando.
 
Carlo Rafele. Sulla Jeep verso il set. Foto di Luca CrippaTra i frustatori, inizialmente, non si è trovato chi sapesse interpretare con piena partecipazione e preciso realismo la parte. Giovanni pretende che ci sia rabbia, violenza esibita, colpi inferti con forza e credibilità. In parecchi si danno il cambio, prima che si trovi colui che senza esitazioni assolva pienamente l’incarico.
Curioso, poi, che in quei minuti di sofferta concitazione,  un rigo di sole tenti pervicacemente di insinuarsi attraverso le tante aperture del rudere romano: una corrente pulviscolare che si intromette nella scena, come un motivo musicale trovato per caso.
“Riempire lo schermo, dovete riempire lo schermo!”: anche il giorno successivo, ripetendo le scene della fustigazione e dell’incoronazione nelle versioni di Matteo e Giovanni, il regista Columbu richiama gli attori-non attori a raggrupparsi attorno all’obiettivo e a spiaccicare ancora una volta, e con sempre maggiore forza, l’indignazione e la rabbia feroce contro il “falso” profeta.
“Est nande qi est su Cristu Re!” (Dice di essere il Cristo Re!)
“Est unu imbustiqadore!” (È un sobillatore!)
E Pilato: “Non respondes? A l’intendes ite ti sun totu ghettande?” (“Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano?”)
Gesù non risponde.
Pilato: “È Pasqua, ora è per voi consuetudine che vi rilasci uno per la Pasqua; volete dunque che vi rilasci il re dei Giudei?”
I sacerdoti: “Barabba Nazi Barabba Barabba!”
Mentre le grida si levano e si disperdono, mi soffermo a osservare più da vicino coloro che tra gli attori-non attori rivestono un ruolo da protagonista, attraversando le stazioni del Pretorio con maggiore presenza. Mi colpisce inizialmente il volto austero e immobile di colui che di Pilato è il consigliere-suggeritore: una figura imponente a cui il mantello e la tunica di soldato offrono ancora maggiore rilevanza. Offrendosi a questo ruolo “indiretto” ma efficace, da angelo custode che osserva e vigila nei fuochi della tempesta, il consigliere-suggeritore possiede cinematograficamente il dono di distendere intorno a Pilato una zona d’ombra e di raccoglimento, una sorta di  spartiacque tra la violenza assordante della folla e la quiete ponderata dell’incerto decisore.
 
Foto di Luca CrippaChe sulla scelta di volti particolari o di personaggi tipici del contesto sardo, si imbastisca una delle scommesse più intriganti del film di Columbu, si fa evidente già in queste prime occasioni del Pretorio. Paolo Pillonca -  professione giornalista nonché studioso della poesia sarda e autore egli stesso di composizioni poetiche -  assume le sembianze di Pilato con disinvolta naturalezza, come se quell’assillo di mediazione appartenesse alla sua vita e alla sua formazione. Ho modo di scrutare il suo tono interpretativo in un vano-spelonca della Basilica di San Pantaleo, dove Giovanni ha voluto che si girasse una scena che lo vede interlocutore di Giuseppe d’Arimatea: indossa una tunica sobria, priva di fronzoli e ornamenti, che pare un reperto di epoche remote, il capo scoperto, i lineamenti distesi, le parole essenziali. Conclude, in sardo: “Su chi es fattu es fattu“ (Quel che è fatto è fatto), e lo afferma con la sobria gravità che merita quel passaggio, per poi voltare gli occhi verso la finestrella e osservare il quadrato di cielo e di mondo che al di là di quella tragedia ormai consumata va disponendosi. Sono poche battute, intercalate da una fuggevole corona di sguardi, ma è su questo diapason che Giovanni-regista vuole che si celebri la solitudine del personaggio Pilato.
Un discorso a parte, più articolato, merita poi l’attore-non attore che impersona Caifa, il capo dei Sacerdoti. Si tratta di Gavino Ledda, una delle personalità più note dell’Isola, il fu “Padre padrone” chiamato da Giovanni su questo set in una veste inconsueta, che potrebbe però risultare preziosa ed efficace. Seguendo le appassionate diatribe che si accendono tra i due, si nota soprattutto lo sforzo di Giovanni per fare apparire Gavino nelle vesti di Caifa e non Caifa nei panni di Gavino. Giovanni lo esorta ad apparire come egli è “naturalmente”, a non forzare i toni o le aspettative dello sguardo: vorrebbe che Gavino scivolasse nel film con quel “se stesso” che rappresenta comunque da quando ebbe il coraggio e la ventura di narrare la sua sconcertante storia biografica.
La veste che lo copre - una veste che trabocca nel verde rassicurante di magniloquenza e distinzione - lo isola comunque dal resto dei sacerdoti, gli conferisce lo statuto di nobiltà che poi, nella recitazione compassata e asciutta, egli tenta di restituire. Nella precisione delle parole da pronunciare in lingua sarda, si nota la sua vocazione di glottologo: in quei momenti la sua voce e la sua faccia si fanno più stringenti e autorevoli.
“A frastimau! A frastimau!” (Ha bestemmiato, ha bestemmiato!), griderà Caifa nel Sinedrio, a conclusione di una scena provata un anno fa nella Chiesetta di San Giovanni di Sinis.
Si sta ora preparando la scena del “sogno della moglie di Pilato”, che compare nella versione Matteo con questa descrizione: “Mentre Pilato sedeva nel tribunale, arrivò un biglietto della moglie: Non ci sia niente tra te e quel giusto, perché oggi ho sofferto molto in sogno a causa tua”.
 
Monte Maccione. Foto di Luca CrippaGiovanni ha scelto per la parte una donna sui trentacinque anni, un soave volto connotato da due grandi occhi verdi. “Un mezzo primo piano”, chiede Giovanni all’operatore, studiando l’inquadratura in macchina. Chiede che la camera venga sistemata nell’intercapedine di una scala, per cogliere così dall’alto il piano ravvicinato del volto della donna. Si tratta di distendere su quel volto la luce adeguata.
La donna prova la scena più volte e durante le interruzioni mostra di subire il disagio del freddo; la tunica turchese di stoffa leggera che la cinge non è sufficiente a difenderla dalle lame del vento, eppure quando il “si gira” ricomincia ed ella si distende sull’improvvisato giaciglio, riacquista subito la placidezza del sonno che il profilo del volto sa bene accentuare. Quindi Giovanni le dice: “Ora devi passare dal sonno al panico del risveglio, facendo intendere che sei stata colta da un brutto sogno, un sogno premonitore”.
Si gira il piano ravvicinato del volto appena uscito dal sogno. Nelle linee del viso e nei movimenti del corpo permane una pacatezza che non è arrendevolezza; una volta venuta a capo dell’inquietante risveglio, la donna arrotolerà su un biglietto alcune parole e ordinerà a un servo di consegnare il rotolo a Pilato. Lo scritto dice: “Non ti qe mestures qin cusco’ominee zustu. Oje apo patiu meda in bisione po Issu” (Non avere a che fare con quell’uomo giusto, perché questa notte mi è comparso in sogno e ho sofferto molto per Lui).
Intanto, nell’ala grande della Basilica le comparse hanno acceso un fuoco, qualcuno ha portato delle castagne e ci si trastulla nell’attesa. Curioso vedere soldati, pretoriani, frustatori e servi romani stringersi attorno al fascio di fuoco improvvisato, poi scoprire in un angolo Fiorenzo-Cristo con il manto purpureo sulle spalle e la sigaretta tra le labbra o l’assistente operatore che preso da improvviso zelo misura la corona di spine attorno all’obiettivo della camera, come per accertarne le dimensioni in vista di un dettaglio ravvicinato.
Sono i momenti del set in cui è veramente difficile capire cosa stia accadendo. Anche le scene che si preparano e che poi si girano, sovente non hanno continuità di sceneggiatura, ma sono determinati dalla casualità di ispirazione del regista che, in una determinata situazione, e vedendo le comparse a disposizione o magari infiacchite dalle lunghe attese, realizza che cosa sia meglio fare.
 
Il cast sul Monte Maccione. Foto di Luca CrippaAllo stesso modo capita che una comparsa, intenta fino a un minuto prima a levare castagne dal fuoco, si accorga che qualcosa di rilevante si va generando nel perimetro della scena e decida di parteciparvi, dopo aver chiesto al vicino di inquadratura “Cos’è successo?”. È accaduto per la lunga scena delle offese e della fustigazione: alcune comparse venivano catturate d’improvviso dallo sguardo di Giovanni e sospinte davanti all’obiettivo, quindi esortate a sputare la loro rabbia. E si è poi scoperto che questa soluzione “all’improvviso” si era rivelata più riuscita di altre.
Siamo giunti così al quarto giorno di lavorazione e dalla Basilica di San Pantaleo, la troupe si è spostata nell’esterno-interno della Chiesa di San Sebastiano, località Orani: da un rudere ad un altro rudere. San Sebastiano è una chiesa mai finita, mai ultimata, i cui primi lavori sono stati avviati presumibilmente nell’anno 1100. Anche qui si apparecchierà la scena tra Pilato e i Sacerdoti, nella versione “secondo Giovanni”. È una giornata di sole e si prevedono molti arrivi di comparse e figuranti. Sono attesi anche alcuni animali, cavalli e asini. La sartoria è già parecchio affollata, sono le 8 e 30 del mattino.
Sotto lo sguardo accorto della costumista Stefania Grilli e dei suoi puntuali assistenti al reparto, si comincia a vestire gli improvvisati attori, oggi confluiti in buona parte da Orani. Val la pena soffermarsi su questi costumi, che costituiscono e costituiranno una importante chiave figurativa del film. I bozzetti, disegnati da Elisabetta Montalto, sono stati realizzati nella sartoria del Teatro Lirico di Cagliari, grazie all’abile contributo di Mino Fadda, capo sartoria del Teatro. Appena pronti, gli abiti sono stati colorati e “invecchiati”, raggiungendo il livello di vetustà con cui oggi li vediamo indossati.
Entrando nella Chiesa di San Sebastiano, mi imbatto in  Francisco Della Chiesa, il direttore della fotografia che spesso in questi giorni ho visto all’opera e di cui ho  apprezzato l’umore pacato e comprensivo, nonché la vigilanza silenziosa sulle incerte gradazioni di luce e di colore che i cieli di Sardegna offrono ai viandanti. A volte ho udito la sua voce “dare i numeri”, riferita ai suoi assistenti, ma si tratta di cifre in codice che servono a designare gli obiettivi da utilizzare per quella determinata inquadratura. Ora sento che sta chiedendo ad uno degli assistenti di controllare la pulizia degli obiettivi: pare che l’umidità abbia temporaneamente bloccato l’accensione della camera.
 
Comparse. Foto di Luca CrippaNon va mai trascurato, nel discorso complessivo sul tournage e sulla lavorazione di un film, che gli operatori e gli assistenti lottano quotidianamente con i “fuochi”, le peripezie della luce naturale, la pesantezza della camera da trasportare o da tenere in spalla quando si gira (malgrado su questo punto sia spesso Giovanni-regista a prendere su di sé l’incombenza della macchina a mano): insomma, il lavoro di precisione che grava sulla cosiddetta “parte tecnica” del set costituisce in assoluto, nel risultato complessivo di un film da fare, una questione centrale.
In una zona della Chiesa, intanto, Columbu spiega alle comparse già in costume le due scene che vorrebbe girare subito insieme a loro: arrivo al Pretorio, nella versione Giovanni, più la scena di Pilato che lava le mani nel catino. Fuori del rudere, il cielo si è fatto livido e plumbeo, una tinta forse adeguata alla scena del corteo che da lì a poco dovrebbe muovere. In effetti, vedo il gruppo al completo già predisposto, che si accinge ad avanzare dal fondo valle verso la Chiesa. Ormai ho imparato a riconoscere come sono disposti: Gesù, Pilato con il suo Consigliere, gli Ufficiali di Pilato al seguito, i Consiglieri di Caifa, i soldati romani, i servi romani e i frustatori, infine gli arrestatori che trascinano il Redentore e che ostentano quella grinta che ho già visto in azione.
Vedo il gruppo procedere dal fondo valle, due sacerdoti scortano Gesù legato, preceduti da un soldato a cavallo. Seguono, in rigorosa sequenza, i Sacerdoti e le donne di Galilea. Una volta giunti all’interno, si tratta di dare corso all’interrogatorio di Pilato a Cristo. Il faccia a faccia tra i due è uno dei momenti delicati dell’intero percorso che riguarda il Pretorio. Giovanni incoraggia Gesù-Fiorenzo a trovare sul volto la giusta intensità di espressione e sofferenza interiore. È uno sguardo da costruire: Fiorenzo sta cercando in questi primi giorni di riprese la giusta “misura” espressiva con cui edificare lentamente l’interpretazione e l’immagine del suo personaggio. Al momento, carica soprattutto la “parte dolente” e cupa del Cristo sardo, ma si nota nei suoi movimenti anche la ricerca di nuove variazioni.
Pilato: “Ego bos che lo torro poitte no l’aqatto curpa peruna” (Ecco, lo conduco fuori perché non trovo in lui nessuna colpa!)
Si levano, forti e minacciose, le voci di protesta della folla. Scortato dai soldati, esce Gesù sanguinante, con la corona di spine e il manto rosso sulle spalle.
Pilato: “Custu es’omine” (Ecco l’uomo, Ecce homo)
Voci: “A sa rughe! (Alla croce!)
Pilato: “Piqaebollu e incrabaebollu visatros, pro mene non tene curpa peruna” (Prendetelo e crocifiggetelo voi, io non trovo in lui nessuna colpa)
Giudeo: “A sa leze nostra, unu qi si aqet’izu ‘e Deus voled mortu” (Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio).
Ora, Gesù sanguinante, incoronato di spine, e Pilato sono di nuovo faccia a faccia, l’uno di fronte all’altro.
Pilato: “Da ube ser beninde tue? Poite no allegas? No l’lische qi est in podere meu de t’illiberare o de ti mandare a sa rughe? (Da dove arrivi tu? Non vuoi parlare? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?)
Gesù: “Su podere lu tenes ca ti l’an dau, ma a qie m’ad postu in manos tuas tenet prus curpa” (Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande)
 
Foto di Luca CrippaÈ un Cristo sconvolto e spiritato quello che ora, con il motore della camera in azione, si offre, ed è lo stesso Giovanni a girare la scena, a governare la “macchina a mano”. La camera transita dal volto di Pilato al volto di Gesù, così come da un volto dei Sacerdoti all’altro. La scena viene ripetuta più volte.
“Sei tu il re dei Giudei?”
“Tu dici che sono re!”
Controllo l’espressione facciale del Cristo, mentre risponde a Pilato. Un solo occhio rimane aperto, l’altro è offeso, annichilito. Pilato continua a provocarlo. La camera lavora sugli sguardi, sulle tensioni tra i personaggi. Il triangolo espressivo e figurativo si muove da Pilato a Cristo e da Cristo ai Sacerdoti. Soltanto parole e sguardi, dove ancora una volta si accerta che sono gli sguardi ad avere il sopravvento.
La scena è difficile da risolvere; dopo alcuni tentativi, appare ancora debole, manchevole di grinta e compattezza stilistica. Giovanni propende per uno stile più “sardo”, ossia impostare la dialettica unicamente sui primi piani e sui dettagli stretti, addossati all‘obiettivo della camera.
Pilato, rivolto alla folla: “It’est a faqere de qustu Zesusu qi li mutini Cristu? (Cosa volete che faccia di questo Gesù che chiamano Cristo?)
Voci: A sa rughe! (Alla croce!)
Pilato: “A sa rughe? Ma ita ad’attu? (Alla croce? Ma cosa ha fatto?)
Voci: A sa rughe!
“Tu sei il Re dei Giudei?”
“Da te stesso tu dici questo o altri hanno detto a te di me?”
“Sono forse io giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti hanno consegnato te a me. Che cosa hai fatto?”
“Il mio regno non viene da questo mondo non viene da quaggiù. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei discepoli avrebbero combattuto perché io non fossi consegnato ai Giudei, ma il mio Regno non è di quaggiù”.
Disse dunque a lui Pilato: “Dunque, Re tu sei?”
Gli rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono Re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.
E Pilato: “Che cos’è la verità?”
E detto questo uscì di nuovo verso i giudei e disse loro: “Io non trovo in lui nessuna colpa. Vi è tra voi l’usanza che io vi liberi uno per la Pasqua: volete dunque che io vi liberi il re dei Giudei?”
Allora essi gridarono di nuovo: “Non costui ma Barabba!”
Si è sottolineato spesso, in sede di commento, come il “Vangelo secondo Giovanni”, la versione fornita dall’evangelista Giovanni, sia sotto alcuni aspetti quella più “spettacolare”, più disponibile ad essere inserita in un contesto artistico-narrativo, e come essa sia stata in parecchie occasioni fonte ispirativa dell’estro dei poeti e degli artisti. Curioso, quindi, che della famosa scena di Pilato che lava le mani, proprio l’evangelista Giovanni non faccia alcun cenno; lo stesso vale per Luca e per Marco: anche loro tacciono quel gesto che nell’immaginazione popolare attecchì nei secoli successivi con particolare dominanza simbolica. Chi ne parla, per breve cenno, è Matteo, con queste parole: “Pilato prese dell’acqua, si lavò le mani davanti alla folla. ‘Sono innocente di questo sangue’. E la folla gridò: ‘Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figlioli’.
 
Fiorenzo Mattu, il gesù sardo. Foto di Luca CrippaPer la scena del catino e di Pilato che immerge le mani, Giovanni-regista sceglie una modalità indiretta: vuole che il focus dell’inquadratura si concentri sul bacile, che da esso sorga il volto dello stesso Pilato, come fosse il catino a suscitarlo e a fornirgli adeguato significato.  L’acqua che oscilla e vacilla dovrebbe così alludere all’ondeggiamento manifesto e inconscio dello stesso personaggio. Si cerca quindi un catino che sia funzionale. Nell’attesa Giovanni indossa per scherzo, e per allentare le tensioni, uno degli ampi mantelli che rivestono le comparse e chiede a Rosi Giua - fotografa di scena del film, in alternanza con Donato Tore, Marina Anedda, Uliano Lucas e Pablo Volta - di scattare una foto.
     Intanto, sullo spiazzo della radura che contorna la Chiesa, gli asini - sono cinque - stanno affrontando un loro personale girotondo in piena libertà. Alcuni della troupe interrompono il lavoro per seguire divertiti la corsa dei ciuchi selvatici, mentre il cavallo che è servito per le scene del corteo, ora legato all’albero e abbandonato senza padrone, volge la testa con indifferenza verso il frastuono, facendo intendere di non condividerne alcun interesse.
Anch’io, uscito fuori dal rudere-Chiesa, guardo lo spiazzo intorno, cosparso di querce da sughero, di piante come la “Roverella” e il “Perastro”, oltre che di accurati “rovi” che una comparsa di Orani mi svela essere di due tipi, “femmina e maschio”. L’uomo mi parla anche del luogo dove siamo e che abbiamo raggiunto da Nuoro: mi racconta con brevi cenni della cosiddetta Strada della Transumanza o Via della Transumanza, mi narra della “Fontana dei due Mari”, di cui un braccio fugge verso Oliena, Orosei, Dorgali - quindi raggiungendo il mare - l’altro si rinserra nella piana di Oristano.
Un altro figurante, che ha ascoltato il racconto, mi fornisce spunti per una trama favolistica circa la Chiesa di San Sebastiano, del perché la sacra costruzione nei secoli non fosse mai stata portata a compimento: leggenda vuole che ogni volta che si tentava di concluderne i lavori, un operaio morisse misteriosamente. 
È tutto pronto, ora, per la scena di Pilato. È stato trovato un catino che il regista approva. Anche per questa scena Columbu ha deciso di lavorare sui piani ravvicinati: in questo caso il catino, l’acqua che tremola, il volto di Pilato che si riflette in questo specchio, quindi la potente “accensione” drammaturgica che hanno le parole conclusive: “Ego de questu sambene no respondo. Aqie totu visatros! Piqaechelu e incrabaebollu qumente volies!” (Io non rispondo di questo sangue. Fate tutto voi! Prendetelo e crocifiggetevelo voi come volete!). La scena viene ripetuta parecchie volte, sebbene i primi tentativi fossero già risultati buoni.
 
Catering alle Croci. Foto di Luca CrippaOgni volta che una scena viene conclusa, appena Giovanni concede lo “stop” definitivo, erompe evidente la gioia e l’esaltazione per lo sforzo compiuto. Le comparse, i figuranti, gli attori-non attori, rispondono con una sorta di “rompete le righe” istantaneo. Corrono a rintanarsi nella pausa, spesso ricongiungendosi al gruppo originario di cui fanno parte: Ovodda con Ovodda, Orani con Orani e così di seguito.
Un personaggio della troupe tecnica che attende di concedersi di tanto in tanto una pausa salutare, uscendo temporaneamente dalla tensione spasmodica e dalla concitazione delle riprese, è l’aiuto regista, Mario Raoli, vero professionista nel suo operato, colui cui sono affidati i compiti preparatori più faticosi e che nei momenti cruciali del “si gira” deve garantire la compattezza di ogni piccola cosa si muova in campo e fuori campo. E’ un sollievo, quindi, vedere che anche lui può di tanto in tanto sollevarsi dalla fatica, togliere il berretto d’ordinanza e passare le dita tra i capelli.  
Del resto, quando si lavora con attori che non sono attori, quando si sceglie, e si predilige, il modulo di una recitazione “presa dalla strada”, come si diceva un tempo, non è facile addestrare le comparse a compiti recitativi di questa entità. Eppure c’è sempre, miracolosamente, un momento in cui l’intensità o la giusta misura di questi tentativi si compie. Allora si vede Giovanni-regista sorridere, divertirsi egli stesso, abbracciare le comparse e cercare da loro la battuta che smorza la tensione.
A piccoli passi, e per vie non dirette, mi sto avvicinando a trattare il tema forse più delicato e problematico che questa film presenta e presenterà, ovvero la scelta dell’attore-non attore che interpreta il ruolo di Gesù Cristo Redentore e Redento. Tuttavia, prima di addentrarmi in considerazioni circa la “sostanzialità” del volto di questo Cristo nato in terra di Sardegna, mi viene da fantasticare su come una scelta del genere potrebbe essere accolta e ospitata nell’immaginario del futuro spettatore. Mi viene addirittura da pensare che questo Cristo episodico, territoriale, nato nell’humus della pietra sarda, potrebbe prendere il posto del Cristo universale, forte di nuove fattezze e nuovi significati.
Del tema dei volti e dei primi piani offerti con cura meticolosa allo spettatore del film, si parlerà a lungo, e se ne parlerà come di un elemento chiave dell’idea e della modalità espressiva con cui quest’opera è stata concepita. Che il film poggi e si nutri di volti accostati e svelati, manifesti o dissimulati, lo dimostra l’utile accanimento con cui Giovanni Columbu guida e accarezza quelle facce, la cura estrema con cui le acconcia al proprio immaginario, sottolineando l’importanza e l’unicità dell’approccio. Nei giorni del tournage l’ho visto rincorrere con tenacia ogni minuscolo dettaglio riguardasse le modalità dell’espressione, spesso con il rammarico che quei volti non potessero essere attraversati fino in fondo, che la camera non potesse avere accesso al rifugio segreto del loro essere, per arrivare a scoprire le altre cose che si potrebbero dire e mostrare attraverso quel dettaglio.
 
Foto di Luca CrippaAnche l’occhio di un fotografo esperto come Uliano Lucas, riconoscendo le caratteristiche spettacolari di questi volti-archetipi, manifestava il timore che tra dieci anni, nel passaggio delle generazioni, essi possano perdere definitivamente l’impronta selettiva.
Volti, come si dice e si è scritto, connotati dal “silenzio”: scelta necessaria, se si pensa che il “silenzio” è una delle modalità espressive su cui questo film è costruito.  Conviene andarlo a vedere da vicino, ora, questo “silenzio”, queste ampie zone di silenzio consegnate agli sguardi, alle facce, ai volti immoti e impassibili, insomma ai codici di un linguaggio non verbale che qui, proprio qui, in Sardegna, trovano opportuna residenza.
Anche il Cristo di Fiorenzo Mattu si avvale di parole mormorate o sussurrate; di un sottotono che non è un nascondere ma un dire con maggiore forza, poggiando sulla filiera di parole che nascono e si cibano di interiorità, fin quando - è il caso di Giovanni Columbu e di questo film - qualcuno non decida risolutamente e pervicacemente di farlo “parlare” quel silenzio, di fare uscire quella immobilità dalla palude del tempo. Se vista in questa luce, che è poi la “luce” del cinema, la stessa scena del Pretorio diventa un affare di sguardi e di allusioni inquietanti; si fronteggi Cristo con Caifa o Cristo con Pilato, ciò che conta o quel che resta è la minacciosa tensione del silenzio e dei silenzi. E il sensore ottico della camera pare in tal senso far propria la direttiva del regista: tenere in primo piano i volti muti, le facce e le parole non pronunciate, scoprendo sorprendentemente la qualità e la complessità di quella relazione.
Anche per le donne in scena vale questo criterio. Ci si accorge che quando le donne gridano, il loro gridare stride con l’impostazione generale, alterando eccessivamente un codice linguistico che non prevede scatti improvvisi o uscite eclatanti. Giovanni arriva a dire che il grido di quelle donne tradisce “gesti da commedianti”, quindi non serve. “Niente finti tumulti”. Serve, piuttosto, il silenzio immobile.
Puntualmente, nella pausa di una scena, Paolo Pillonca rammenta a Giovanni che nel codice sardo il silenzio è motivo fondamentale. “C’è un proverbio in Sardegna che dice: Devi tacere in gioventù, per dire qualcosa di rilevante nell’età adulta”. E un altro recita: “Nel silenzio noi siamo vissuti!”
 
Foto di Luca CrippaÈ nel codice del silenzio che Giovanni-regista cerca di ottenere la giusta “tonalità” della scena tra Pilato e i sacerdoti. Dopo alcuni tentativi, si nota che la scena è ancora debole, manchevole di qualcosa: forse quella folla di uomini e donne asserragliati davanti a Pilato è troppo numerosa, conviene che venga decimata. Giovanni dice che basterebbero cinque persone, che non è il caso di far troppo rumore allestendo una piazza turbolenta, che insomma ci vuole un indirizzo più sobrio, “più sardo”, come dice l’aiuto regista. Soltanto primi piani, insomma, che mostrino la complessità della relazione tra Pilato e i Sacerdoti e, naturalmente, “silenzi”, sguardi persi nel silenzio.
Ma il silenzio, aggiungeremmo noi, è anche “mistero”, è una precisa modalità di esercizio e di pratica del mistero,  e questo film di “mistero” e di misteri si nutre.
Spesso il cinema si è cimentato con i grandi “silenzi”, silenzi scultorei; per un certo cinema d’autore, il silenzio è diventato il tramite narrativo di una poesia intensa e altrimenti “inesprimibile”, connotando così alcune stagioni felicissime e feconde della cinematografia europea. Allora come oggi, un certo cinema chiede ai “silenzi” di volgere nel loro contrario: che siano pieni di “calpestio”, di “presenza”. Il cinema di poesia ha preteso che i silenzi fossero gravi, maestosi, che a volte fossero ebbri di “rumore”, proprio per meglio catturare il cigolio dell’anima, quando questa fosse presente.
In “Su Re”, inutile ribadirlo, i silenzi hanno una loro naturale alcova, con una variante non da poco: si nutrono del paesaggio circostante, fanno tutt’uno con lo sconcertante scenario naturale dentro cui sono rinserrati o svelati: la natura pare accoppiarsi con loro e quindi sono silenzi che hanno il coraggio e l’ardire di rappresentarsi come tali.
In conclusione, mentre i camion caricano a tarda sera il materiale per trasportarlo da domani sul nuovo territorio  delle riprese, rifletto sommessamente sul nodo cruciale  e problematico che questo film esibisce e su cui finora ho potuto trasferire qualche frettolosa riflessione: la scelta dell’attore che impersona Gesù Cristo, forse la scommessa più affascinante e delicata dell’intero progetto. L’attore-non attore si chiama Fiorenzo Mattu, come ho già detto, e nella realtà quotidiana esercita il mestiere di guardia giurata. Giovanni Columbu lo ha scoperto e utilizzato nel primo suo lungometraggio, datato 2001, intitolato “Arcipelaghi”. In quell’opera che riguardava un efferato caso di omicidio, sempre sullo sfondo di una Sardegna muta e ostinata, Fiorenzo era uno dei “cattivi”, dei portatori del Male, mentre l’assassino materiale aveva le fattezze di Carlo Sannais, altro volto marcato, che Columbu non ha trascurato nemmeno per questa prova, affidandogli, come vedremo nella parte seconda di queste Note, il ruolo del ladrone cattivo.
 
Foto di Luca CrippaLa scelta di Fiorenzo Mattu, quindi, comportava in primo luogo la riproposizione di un volto “indimenticabile”, nato sulla sperimentazione di un canovaccio come “Arcipelaghi” e trasportato dentro un film come “Su Re”. Scelta non immediata, da parte di Columbu: scelta sofferta, maturata dopo un’opzione iniziale di totale antitesi a questa; insomma, un’improvvisa decisione che si impone nella mente del regista in un secondo tempo, scavalcando dubbi, perplessità e tentazioni di altro indirizzo, quindi una scelta che si staglia infine con tali caratteristiche “autoritarie” da trascinare con sé l’intero significato del film.
Chi è dunque il Gesù Cristo nella versione Columbu? Quali caratteristiche ha rispetto alle scelte operate dal cinema in precedenti tentativi? Soprattutto: che cosa comporta e a quali rischi si espone la preferenza accordata a un attore-non attore con le caratteristiche di Fiorenzo Mattu?
 Non essendo mia intenzione chiamare all’appello le numerose varianti che il cinema ha offerto nei decenni a proposito del volto e della figura di Cristo, mi preme accostare alla scelta di Giovanni Columbu soltanto uno di questi “tentativi”, ossia il film di Pasolini, datato 1964. Molti ricorderanno il clamore che quell’opera produsse, in particolare negli addetti ai lavori. Sfidando regole e convenzioni narrative, l’opera di Pasolini indicava per la prima volta al cinema italiano che i Vangeli potessero esseri affrancati, cinematograficamente, dal metodo parabola o racconto morale, e consegnati ad un realismo crudo e potente, cercando proprio nei volti improvvisati di attori-non attori una delle novità e delle possibili soluzioni (Pasolini aveva reclutato e convinto amici letterati, amici scrittori, amici poeti a offrire il loro volto e la loro collaborazione). Una forte suggestione era poi venuta, come si ricorderà, dall’ambientazione del film: quella Lucania e quella Matera che di colpo assumevano veste universale, esibendosi come il territorio della venuta e della discesa del Cristo Re sulla terra.
Soltanto su un punto Pasolini era incappato in una scelta “sorprendente”, se la si osserva oggi, dopo le prove prodotte e dopo che l’aggettivo “pasoliniano” ha assunto una precisa verità nei nostri anni. E questo punto era proprio la scelta dell’attore che avrebbe dato volto al Cristo. Si chiamava Enrique Irazoqui e pare fosse stato scelto da Pasolini pochi giorni prima dell’inizio.
Un volto leggiadro e apollineo, imparentato con un incedere ieratico e solenne, che rimanevano tali anche quando erano chiamati a dare un’impronta nuda e cruda alla “Passione” di Nostro Signore. Su quel volto aleggiava, infine, la voce fuori campo di Enrico Maria Salerno, imprimendogli le cadenze dei tempi remoti. 
 
Foto di Luca CrippaRitrovando e rivedendo il film parecchi anni più tardi, mi venne da pensare che il Cristo di Irazoqui fosse un Cristo anti-pasoliniano. Forse perché suggestionato dal “modello” Stracci, che Pasolini crea un anno prima del “Vangelo”, in quel gioiello di esperimento allegorico intitolato “La ricotta” oppure perché coinvolto nelle scelte che opererà successivamente sia nel modo di fare cinema che nel modo di fare cultura, di colpo dentro di me si fece strada la convinzione che l’autore del “Vangelo secondo Matteo” si fosse fermato un gradino più basso rispetto alla sua stessa ispirazione. E che la scelta di un attore, di un volto, di una figura come Irazoqui significasse anche concordare un tenero compromesso con le scelte dirompenti che quel film prefigurava.
Non che Irazoqui non fosse “giusto”: lo era, se mai, fin troppo, ubbidendo tuttavia a un modulo rappresentativo tradizionale, di fatto non scavalcando quella frontiera che nei presupposti e nei valori dirompenti dell’idea originaria sarebbe stato oltremodo lecito.
Giovanni Columbu, nella scelta e nella figurazione di un Cristo “altro”, fattosi “sardo” nella lingua nella voce e nella fisionomia - oltre a calcare, come abbiamo visto, un’arena naturale che non teme confronti - scavalca così di fatto le precedenti narrazioni, sceglie di rompere definitivamente le frontiere fin qui raggiunte e assesta alla storia del cinema d’autore una materia inedita con cui venire a patti.
Chi sarà, dunque, il Cristo del film “Su Re”? Sarà, presumibilmente, il Cristo della sofferenza senza redenzione, sarà un Cristo già malato dei fardelli della Storia, piegato dal tempo avverso e piagato dalle insolubili contraddizioni del suo e del nostro tempo, a cui questa ultima prova cinematografica aggiungerà nuove ferite, ulteriori strisce di sangue e di dolore. Sarà l’epilogo di un mondo al tramonto, di cui non potremo più disconoscere la Caduta, sarà l’ansimare muto della Storia, la sofferenza titanica che probabilmente si ferma, si arresta, là dove il possibile riscatto è tutto da conquistare.
Un Cristo che ha tutte le caratteristiche del Cristo perentorio e intransigente, che conserva nel buio degli occhi e nella cupa, straziante smorfia di dolore sulle labbra pietrificate dalla sofferenza, il motivo e i motivi della sua nuova venuta sulla terra.
Fiorenzo Mattu irromperà sullo schermo portandosi dietro le innumerevoli varianti che il Cristo ha introdotto e prodotto nella Storia dell’Arte, non solo cinematografica. Sarà forse vicino al Cristo di Holbein, così potentemente evocato e temuto da Dostojevskij, ma sarà comunque “altro”, per tutto ciò che da quel volto si leva e si proclama.
Avremo presto modo di confermare o smentire queste percezioni, ogni riflessione attende di essere ulteriormente verificata e avvalorata dal tournage che seguirà, a cominciare dalla prossima tappa: Lollove, un paesino fantasma abitato da 26 anime, dove prenderà avvio la Via Crucis, e poi in alto in alto, nella cima del Su Corrasi, dove saranno conficcate Tre Croci e dove ciò che è stato scritto e testimoniato più di duemila anni addietro dovrebbe trovare naturale, definitiva espressione.