Percorso

Su Re: diario di Carlo Rafele (Parte seconda)

di Carlo Rafele

Il set di Su ReIl video di "Su Re": La prima parte   -   La seconda parte

Continua il viaggio di Cinemecum sul set e dietro le quinte del film di Giovanni Columbu sui Vangeli. In attesa di vedere presto la pellicola sul grande schermo, pubblichiamo, a cura di Carlo Rafele, letterato e drammaturgo, la seconda parte del reportage (via Crucis, Golgota, Crocifissione) per vivere in diretta i retroscena più appassionanti del film.

Vai alla prima parte: Nell'attesa di "Su Re"

“Tue no ses su Qristos? Si ses Issu sarvadi tue e nois puru”(sul set del film di Giovanni Columbu)
Parte Seconda: Via Crucis, Golgota, Crocifissione

«E dunque: li faremo interagire questi mondi “separati”… oppure tenteremo di avvicinarli, di renderli contigui, evitando che si guardino con diffidenza, rischiando di vanificare lo stesso seme di cui sono portatori?».
Così mi dicevo arrivando a Lollove, dentro un radioso mattino di sole, osservando il ventaglio di case che si arrampica scomposto e ineguale. I due “mondi” che nella mia testa danzano separati e disuniti, forse opponenti, sono il Cristo della tradizione teologico-filosofica e il Cristo della rivelazione cinematografica, in apparenza due universi “a parte”, nella prova concreta dei fatti due germogli della medesima spiga. 

Ma perché un tale cruccio mi raggiunge proprio oggi, nel giorno in cui insieme alla troupe – e sempre nel ruolo di Narratore sul campo – sto per celebrare i giorni finali, le ultime stazioni della vicenda terrena di Gesù di Nazareth, grazie appunto a quel concerto di meraviglie sincroniche che si chiama Cinema? C’entra forse il fatto che da qui inizia il resoconto cinematografico di quella fatale, sconvolgente ed enigmatica pagina della Storia millenaria incardinata sul tema “Croce e Crocifissione”, quindi necessariamente intrecciata con la cosiddetta “Teologia della Croce”, il cui dibattito non si è mai concluso, mai sopito, dovendo rispondere di questioni che non sono “dicibili” né “comunicabili”?

Il set di Su ReLa risposta che mi concedo è lapidaria, pur sapendo che meriterebbe uno sforzo di analisi ben più articolato: quando il Cinema si occupa del Vangelo, o “dei Vangeli - ovverosia di un tema autorevole e di essenza multiforme, come accade nel caso del Progetto “Su Re” di Giovanni Columbu – inevitabilmente si mette in moto e in campo una macchina culturale di tale potenza da non poter eludere le questioni che essa pone.
Voglio dire che in casi come questo un cineasta, un regista, non si limitano a produrre un film, un’opera cinematografica, o come si diceva un tempo “un’opera di interesse artistico-culturale”: producono, piuttosto, “critica della cultura”, con tutte le implicazioni che da essa si dipartono.
Se si mette in scena una sorta di “opera omnia” della storia millenaria, come il Vangelo, o “i” Vangeli, diviene inevitabile – felicemente inevitabile – attivare un caleidoscopio di luoghi e di “stanze” che hanno a che fare con la cultura “antropologica” di ciascuno di noi: stanze che il cinema sfiora, puntella, procrea con le sue stesse forze e potenzialità ma che a volte sono “altro” dal cinema in senso stretto, crescendo fuori o al riparo da qualsiasi ossessione auto-referenziale.
Meglio, comunque, sospendere, al momento, ulteriori interrogativi e prepararsi ad accogliere la prima tappa del Calvario umano-divino conosciuto come “Via Crucis”, che inizia proprio da qui, da questo paesino fantasma che si chiama Lollove: un borgo che è andato via via privandosi di abitanti, fino a diventare uno stravagante presidio cittadino dentro il quale sono segnati e ospitati “anagraficamente” 26 individui.
“Ventisei”: fantastico di trovarmeli plaudenti e clamanti in questo spiazzo che funge da androne, da dove iniziano le salite, tra scomposte paratie di pietra dietro le quali non è facile capire cosa ci possa essere o cosa si possa nascondere. Ma nessuno degli abitanti è venuto a darci il buongiorno, le stradine appaiono vuote, sull’asfalto vedo piazzati soltanto i due automezzi della troupe che, come al solito, ci precedono negli spostamenti e nei preparativi. A me non resta che mettere mano agli appunti.

Il set di Su ReContrariamente alle prime due tappe del tournage, infatti, la sorte ha provveduto a dotarmi di strumenti adeguati per osservare consapevolmente il territorio. Innanzitutto, ho ricevuto in dono il libro fotografico di Donato Tore: la pubblicazione è del 2005 e segue di pochi mesi la Mostra che in quell’anno ci fu a Nuoro, nella Casa Natale di Grazia Deledda. Lo studio di Tore inizia parecchi anni prima, negli anni ’80, e si concretizza in un’accorta ma ostinata permanenza nel territorio, da cui nascerà una “ricerca fotografica” realizzata tra il ’96 e il ’97. L’intento del lavoro è soprattutto “sociale”, di “documentazione sociale”, che diventa  documentazione “genealogica” se si osserva questa raccolta di foto-ritratti come l’avvicendarsi di generazioni sedute sempre allo stesso desco, incuranti o impartecipi della Storia, che intanto sopra le loro teste muta, cambia, si modifica radicalmente.
Passaggi di tempo che il paese, evidentemente, si rifiuta di registrare, preferendo rappresentarsi come “paesino fantasma”, “villaggio abbandonato”, “piccolo gioiello del Settecento”, insomma intrecciando ironicamente Storia e Fiaba, come del resto si certifica facendo una rapida ricerca sul web. Da cui val la pena riportare qualche utile e curiosa informazione.
Intanto, i chilometri che separano Lollove da Nuoro sono appena 15; la lingua, sebbene imparentata con Nuoro, non è affatto concordante: Lollove vanterebbe un proprio idioma dialettale, mutuato per metà dal “dorgalese”: ciò a causa di un pregresso contatto con una contrada oggi scomparsa, di nome Isalle, secolo XVII. Nel periodo aragonese, Lollove era “Loy”, mentre nella lingua spagnola ufficiale diventerà “Loloy”.
Curioso, poi, che i vecchi di Lollove sostenessero, e sostengano ancora oggi, che il loro paese sia nato prima di Nuoro: si sarebbe chiamato “Lollobe”. Il riferimento, in questo caso, potrebbe essere al periodo medioevale.

Il set di Su ReAttualmente, a Lollove non si trova né un presidio medico né una stazione dei carabinieri o della Polizia di Stato; nessun ufficio postale; niente scuole, niente negozi, e niente bar con le fettucce colorate come mi sarei aspettato. C’è però una trattoria, chiamata “Sa Cartolina”, appartenente a “Tzia Toniedda”, che solitamente apre i battenti quando a Lollove si celebrano manifestazioni religiose o feste patronali, e che in questi giorni, grazie al “contratto” stipulato dal nostro dinamico organizzatore, Antonio Cauterucci, diventerà per la troupe il posto di tregua e di ristoro.
Altro tema interessante riguarda il numero degli abitanti. Nell’anno 1615, pare contasse 25 abitanti, uno in meno di oggi. Nel 1838, erano diventati 180 di cui 25 agricoltori, 20 pastori e due o tre dediti ad altri mestieri. In quello stesso anno, il bestiame prevedeva 600 vacche, 2000 pecore, 500 capre, 150 porci.
Si tramanda anche che nel 1860 Lollove fu colpita da un’epidemia di vaiolo, che fece molte vittime, provocando l’energica protesta del sindaco dell’epoca, Pietro Siotto, che deplorò lo stato di abbandono cui il paese si era trovato per colpa delle autorità di competenza: senza una strada di collegamento per Nuoro e senza un cimitero.
Sul fronte religioso, infine, si contempla l’esistenza di una chiesetta seicentesca detta “della Maddalena”, forgiata in stile tardo-gotico e provvista di “archi a sesto acuto in trachite rossa”; non c’è però un prete stabile, la domenica ne viene uno in trasferta da Nuoro.
Sul fronte “leggende”, val la pena segnalare un’antica maledizione che sarebbe stata “scagliata su Lollove, da alcune suore in fuga dalla borgata”. Si legge: «Scandalizzate dal comportamento delle loro consorelle che avevano preferito i pastori e i piaceri carnali alla vita monastica, si erano fatidicamente pronunciate contro Lollove, con queste parole: Sarai come acqua del mare, non crescerai e non morirai mai».

Il set di Su ReScorrerie leggendarie che probabilmente non erano ignote a Sebastiano Satta, che dedicò a Lollove nell’anno 1896 un breve scritto nel quale si legge: «Lollobe, cinto da poche siepi di leccio, da alcuni mandorli intristiti e da molte agavi e pallidi olivastri, appare giù nella valle, abbandonato, come un morto nella bara. In quel paese nessuna traccia del passaggio dei Re Magi, i bei vegliardi dallo scettro d’oro».
Anch’io non vedo al momento Re Magi, vedo piuttosto scorrere animazione e agitazione tra le “vene” del “morto nella bara”. È arrivato il pulmann che trasporta le comparse, adocchio già le facce e i volti che animeranno il Sacro Corteo, mentre salgono disordinatamente sul camion della sartoria. Vedo anche il regista inerpicarsi insieme alla segretaria di edizione per le stradine del borgo, probabilmente per visionare passo passo quale potrebbe essere il possibile percorso del Corteo. Essendo Lollove attraversata e intersecata da stradine strette, intercalate da costruzioni basse in pietra, c’è da individuare la migliore via di transito, un percorso che consenta di ottenere visivamente gli effetti desiderati.
Intercettando alcune battute di dialogo tra Columbu e Francisco Della Chiesa – direttore della fotografia – ho arguito che la soluzione poetico-operativa prevede una Via Crucis in Corteo e una Via Crucis silenziosa e gravida di sguardi, quest’ultima osservata “in soggettiva”, attraverso buchi e pertugi che la vecchiezza sepolta di quelle abitazioni consente.
L’idea di Giovanni-regista sarebbe di installare occhi, volti e sguardi nel buio dell’interno, mostrare pupille che si dilatano nello stupore o nell’inquietudine davanti all’occhiello dell’uscio, mentre il Corteo avanza rumorosamente, strascicando la strada con catene, ferraglie, zoccoli di cavallo, e le Croci sostenute a fatica dai condannati si impastano di terra e di sassi.
Si cercano perciò porte che abbiano già patito le ferite dell’abbandono: incavi e fessure da dove proiettare lo sguardo, studiando inquadrature che esibiscano occhi e occhielli in primo piano, volti incappucciati di uomini e donne, occhi sospettosi e spaventati per quanto si va compiendo fuori delle loro case.
Francisco ha individuato una porta scheletrita dal tempo e dall’incuria, che mantiene però funzionante lo spioncino semovibile. La propone a Giovanni come possibile soluzione: “Potremmo liberarla dai cardini e trasportarla dove meglio crediamo, così abbiamo l’effetto che ci serve”. Giovanni annuisce: potrebbe andar bene. Preferisce tuttavia continuare la marcia, è attratto soprattutto da alcune costruzioni sbilenche, in pietra annerita e in stato di atavico abbandono. Con discrezione apre l’uscio, dà un’occhiata, poi sceglie due comparse già vestite e incappucciate e domanda loro di sistemarsi all’interno.

''Su Re''Profilo muto, labbra serrate, occhi aperti al timore o allo stupore, le comparse tentano di adeguare lo sguardo a ciò che fuori del loro uscio dovrebbero “sentire accadere”, ovverosia il passaggio del Corteo della Via Crucis. La camera digitale è ferma sulla spalla di Giovanni a registrare l’estensione dello sguardo davanti all’occhiello dello spioncino; l’effetto riesce se la “nota” complessiva di quello sguardo è tenuta bassa, se “con semplicità” si restituisce dentro quegli occhi la sensazione che qualcosa di perturbante sta avvenendo fuori della loro casa. L’occhiata deve essere breve, fugace, poi appena il timore prevale sulla curiosità, lo spioncino deve esser chiuso in fretta.
Columbu chiede più volte alle comparse la ripetizione della scena. Per lui è indispensabile catturare il battito della palpebra oppure la dilatazione della pupilla, in modo da vedere accresciuta o diminuita l’efficacia e la “tonalità” dell’espressione; per gli astanti nascosti dentro le case, quella marcia deve apparire, attraverso i loro sguardi, assurda e incomprensibile. E le comparse, quando raggiungono la credibilità e l’efficacia che Columbu chiede loro, governando caparbiamente i movimenti del volto, somigliano a quelle facce che in un impressionante dipinto di Bosch – “Cristo portacroce” – si cercano con assurdo sgomento.
Il giorno successivo, a Lollove, si rivela ancora più caotico. È arrivata una folta scolaresca, vociante e allegra, che le maestre fanno fatica a contenere, e che disordinatamente si mette in fila davanti al banchetto dove si firmano le “liberatorie”. Anche oggi il sole è autoritario sopra di noi, temperatura di primavera, esigenza di liberarsi in fretta degli indumenti invernali. La sartoria gira come al solito a pieno ritmo. Ci sono da abbigliare con cura due protagonisti, sia della Via Crucis che della Crocifissione: i Ladroni, coloro che divideranno con il Cristo il supplizio finale.
I due volti, attori-non attori scelti dal regista, si chiamano Ignazio e Carlo. Giovanni li ha “presi dalla strada”, togliendoli dalle loro mansioni quotidiane: Carlo gestisce a Cagliari un banchetto di frutta e verdura, Ignazio vive a Uta, dipinge Madonne su strada, con un tocco soave non dissimile, credo, dalla pazienza dell’ascolto, nonché dalla gentilezza e delicatezza dei modi.

''Su Re''Sbirciando nel camion della sartoria, noto che il reparto è impegnato a vestire e truccare i bambini. Benché sia stato ripetuto alle insegnanti e alle madri di abbigliarli con abiti vecchi, dismessi, da cercare nel fondo di qualche vecchio baule, molti di loro sono arrivati con abiti “da cerimonia”, per cui le ragazze della sartoria devono intervenire efficacemente, levare le giacchette della domenica e sostituirli con giacche da pastore, spruzzando polvere nera o finta fuliggine, strapazzando le stoffe… per non dire poi delle scarpe che, al momento dell’arrivo, sembravano tolte dai ricordi della Prima Comunione.
Vediamo spuntare finalmente il camioncino con le Croci, le comparse si vanno assemblando e disponendo in funzione Corteo, sono pronti anche corde e ganci con cui serrare i polsi dei Condannati, mentre i due Ladroni vengono ancora riempiti di premure nel camion della sartoria, sia dalla costumista, Stefania Grilli, che dalla truccatrice, Desirée Palma.
Sono invece già pronti sul campo i “soldati” che governano i cavalli e che faranno da ingresso al Corteo. Si muovono in cerchio, tentando di placare le bestie che scalciano; sono arrivate anche due capre, riottose e rinunciatarie con tanto di sonagli che strepitano, si decide così di legarle al momento nel piazzale, mentre la coppia di asini appare piuttosto indifferente a tutto quel clamore e fuggirebbe volentieri, se non fosse per le bastonature che i ragazzi ripetutamente impongono.
Ci sono, poi, le donne venute da Gavoi, che durante la scena si sistemeranno in fondo al corteo: saranno testimoni silenziosi della Crocifissione, avvolte dentro abiti rigorosamente neri e serrati, come richiede la veste delle penitenti.
Dalle scalette della sartoria scende, pronto e truccato, il Cristo-Protagonista: indossa un saio giallo e sul volto mostra i segni del trucco già predisposti. Legato, costretto ad avanzare tra Soldati, Centurioni e Sacerdoti che lo riconoscono impostore e ingannatore, prostrato dal dolore fisico e dall’umiliazione ricevuta, il Redentore di Fiorenzo Mattu si prepara al lungo Calvario che culminerà nella morte per Crocifissione.
Alle sue spalle, seguirà Simone di Cirene, “portatore della Croce”: Columbu ha scelto un volto duro, intrecciato nella barba nera, che pare scolpito nella pietra bruna e che il tempo ha incupito e reso muto per sempre.
Le stradine di Lollove vedranno dunque spuntare, nell’ordine, i soldati a cavallo, i Sacerdoti avvolti nel “saccu” nero con tanto di “berritta”, quindi gli arrestatori che trascinano i tre Condannati, in ultimo i bambini e le donne raccolte in preghiera.

''Su Re''Finalmente, la scena è pronta per essere girata. Le due macchine digitali sono piazzate, Giovanni ne governa una direttamente, come spesso accade in questi giorni. Si parte… pochi secondi dopo arriva lo “stop”. Il Corteo si ferma. Il regista ordina a tutti di tornare indietro: falsa partenza. Mentre la folla si ricompone, Giovanni affida la camera all’assistente operatore e corre in basso a sistemare le donne all’interno della Processione. Pretende che ci sia maggiore concentrazione nel gruppo delle comparse. Del resto, una scena che prevede così tanta coralità, che si nutre e si ravviva di fremiti collettivi, si espone al rischio di risolversi nell’effetto “carnevale”, che non è quello che si vuole. C’è bisogno di credibilità, piuttosto, nel volto e nei movimenti degli astanti.
Siamo alle prime ore del pomeriggio: diventa necessario ispezionare la “fatuità” della luce. È sufficiente un fugace passaggio di tempo tra lo “stop” e la ripresa, com’è successo or ora, ed ecco l’illuminazione naturale offrirsi già alterata. Sono ore in cui ogni modesta raccolta di minuti sposta l’oscillazione luminosa: occorre quindi esser pronti a riconoscere il mutamento e raccoglierne il vantaggio.
“Motore, Azione!”. Si riparte. Le facce dei due Ladroni - che arrancano, legati, precedendo il Cristo - richiamano l’attenzione: Ignazio, magro e smunto, impreca nel dolore e nell’indignazione, solleva le mani al cielo, i polsi stretti nelle corde-catene, sacramenta contro la mala sorte. Carlo - il secondo Ladrone, il Ladrone cattivo dalla corporatura pesante e imponente - deve mostrarsi incurante del supplizio che patisce, esibire rassegnazione, facendo anche intendere con alcune smorfie del viso di aver fretta: meglio  sbrigare al più presto i preparativi di una condanna stabilita; ciò che lo turba è lo strepito del compare, se avesse la mani libere lo metterebbe a tacere con un pugno.
Tra le donne spicca il volto di colei che Giovanni ha scelto per conferire consistenza terrena a Maria di Nazareth. Si chiama Pietrina Menneas, viene da Orgosolo: donna magra, asciutta, austera, che serba in sé la forza e la costanza di uno sguardo perennemente rivolto alla gratitudine dell’Amore.
La processione sale, tra clangori, cavalli, imprecazioni e scherno, affronta le viuzze del paese, Ignazio-ladrone prega impreca, invoca la mamma che venga a liberarlo, il suo lamento non si placa mai; il secondo Ladrone lo fissa con ripugnanza, i bambini seguono senza capire cosa stia avvenendo, le donne cantano a bassa voce la nenia del perdono e del riscatto. Il cielo per le prime due ore non cambia tinta, è sempre apertamente sereno e azzurro: una luce pesante o che comunque rischia di appesantire.
“Facciamone un’altra”. Gli orologi segnano un’ora tra le quattro e mezza e le cinque: è arrivata la “giusta” luce, il cielo prepara il buio. “Ecco, così va bene, forza!”, grida Columbu, ormai ammaliato da quella luce digradata, che il cinema d’autore riconosceva negli anni ’60 come luce di “destino”.
Francisco grida a Giovanni: “Siamo al limite!” E Giovanni: “Forza, tentiamo, facciamo l’ultima!” Un’occhiata fugace con l’aiuto regista, per spronarlo a risistemare il Corteo, poi imbraccia la camera e la pone davanti al volto del Cristo. “Ripartiamo da qui!”.

''Su Re''Ora è Cristo-Fiorenzo ad avere la Croce sulla spalla, la macchina da presa lo tiene in primo piano, pochi passi e la prostrazione lo annienta, Gesù cade a terra, il soldato fa per alzarlo, non è possibile farlo proseguire, si ordina al Cireneo di fare la sua parte… “Stop! Buona!”.
Una Via Crucis avvolta e “prostrata” nei fasci di luce cangiante: così la immagina, così la cerca e la pretende Giovanni Columbu. Raccogliendo con tenacia, ogni volta che le condizioni lo consentono, motivi di intensità e originalità.
«E, giunti nel luogo detto Golgota, che vuol dire luogo del Cranio, gli dettero da bere vino mescolato con fiele; e, assaggiatolo, non ne volle bere». (Mt, 33-34)
I tre giorni di Lollove sono passati, lo scenario è mutato. Eravamo fermi nell’ora in cui le tenebre schizzano macchie di buio sull’esterno-giorno di Lollove e ci ritroviamo nel chiarore mattutino, alto e sommo, di una località chiamata “Tuones”, circondata dalla corona di vette e monti che da questa parte ha nome “Supramonte di Oliena”. Un’area che i manuali definiscono “forte e selvaggia”, caratterizzata da imponenti bastionate, circoscritta da pinnacoli e vette che superano i 1000 mt di altitudine: la più alta è il Monte Corrasi, che raggiunge quota 1463.
Da qui muoverà la parte “finale” del Corteo, raggiungendo una cima chiamata “Su Pradu”, nella cui vallata sarà fissato il campo del “Golgota”: Tre Croci saranno dunque conficcate nel terreno e la Crocifissione avrà luogo.
Arrivando nel campo-base di Tuones, alle prime ore del mattino, trovo sopra di me le frastagliature imponenti della roccia-calcare; una roccia di marca “dolomitica” che risponde da par suo all’irruzione della luce: la accoglie, la protegge e la custodisce nel volume massimo possibile. Nient’altro che pietra appare all’occhio del visitatore.
La troupe è attestata a circa metà del percorso verso la sommità. Ritrovo i “protagonisti” del Corteo di Lollove più o meno nelle condizioni in cui li avevo lasciati. La truccatrice, distribuisce macchie di colore rosso-sangue sulle mani e sul volto del Cristo-Fiorenzo, gli arrestatori si premurano di legare i polsi dei Ladroni, i cavalli scalciano intolleranti alla sosta, Columbu va avanti e indietro, disponendo insieme all’aiuto regista le numerose comparse che seguiranno la Processione.
Un piccolo trattore con rimorchio, intanto, ha spento i motori e il ragazzo alla guida, aiutato da alcuni volontari, deposita il carico sul terreno: sono le Tre Croci che tra poco verranno sistemate sulle spalle dei Condannati.
Anche in questa parte di mondo dove oggi siamo sospesi, la Via Crucis  nella versione di Luca e di Giovanni mostrerà le caratteristiche che abbiamo visto: Gesù legato e prostrato, gli arrestatori severi e intransigenti, i sacerdoti in corteo muto, quindi le donne cosparse di lamenti, infine i cavalli e gli asini. Con la differenza, del tutto spettacolare, che il Corteo dovrà affrontare salite e tornanti, comporre e modellare facce ed espressioni sulle pareti di roccia.
Si vedrà, quindi, che ogni cosa in questa ulteriore stazione del Calvario -  facce, Croci, urla, cadute - è riflessa nella pietra, che la pietra è “comandamento”, che Gesù Cristo è egli stesso incastonato in questa pietra di calcare, di tufo, mentre il sole scende a picco e i pinnacoli delle rocce si incantano del loro stesso dominio.
Il Corteo muove. Appare Gesù-Fiorenzo incurvato dalla Croce, che sale a fatica il sentiero puntellato di pietre, ancora vediamo quel volto coperto di sangue, il sole lo assedia, lo precede, lo segue («Quanto sole può sopportare il Cristo?», mi verrebbe da gridare), i cavalli lo precedono, fieri. Ma la sua sofferenza si è fatta ancora più angosciosa, tremenda e “finale”: quel peso che non riesce a sopportare con il corpo, già prelude a ciò che lo attende.
Non a caso Fiorenzo-martire volge gli occhi verso il cielo, Giovanni ha incollato la camera digitale davanti al suo volto, ma il volto declina e cede ogni secondo, le gambe si arrotolano, il soldato si ferma, lo riprende con forza, lo costringe a ritrovare il passo… e la troupe si sposta insieme lui, salendo, inciampando sulle pietre.
Il Corteo si ferma: Ignazio, il ladrone “buono”, ha perso una scarpa e piange, impreca, per riaverla subito. Il ladrone “cattivo”, Carlo, non ha cedimenti: si avvia al martirio con ignota espressione. E i due si guardano, si odiano, ghignano, imprecano. Soprattutto il “cattivo” non ci sta a sentire le prediche lamentose del compare, vorrebbe che tutto fosse finito e consumato, che quel capitolo della Scrittura fosse chiuso per sempre. Invece dalle rocce vengono gettati teschi, i cavalli slittano, i soldati fermano il Corteo, scoprendo ragazzi che si arrampicano per le rocce,  dileggiando la Processione, aggiungendo beffa e volgare disprezzo.
L’aiuto regista grida di tornare indietro: Giovanni ha dato lo “stop”, vuole rifare l’ultimo tratto, soprattutto evitare che i riflessi del sole entrino nel campo di ripresa. La processione fa retromarcia. Bisogna sistemarsi lungo l’ultima curva, disporsi sul gomito dei tornanti e ripartire. 
Vedo dall’alto la Processione che discende disordinatamente e frettolosamente, ciascuno pronto a riconquistare la posizione: la Croce che corre all’indietro nuda e traballante, i ragazzi che raccattano dal terreno i teschi e risalgono sulle rocce per riprendere la loro danza di derisione… Finalmente il Corteo è di nuovo configurato, pronto per rimontare.

''Su Re''E io, rimasto fermo poco più in alto, ho modo di vedere, in doppia prospettiva, la marcia delle Croci che risale e la piana intera del paesaggio disteso ai nostri piedi: i paesi di Oliena, Orgosolo, Monte Gonare, Nuoro, tremolanti dentro il velo di nebbia e frementi sotto l’azzurro del cielo.
«Presero dunque Gesù, ed egli, portando da sé la croce, uscì verso il luogo detto del Cranio, chiamato in ebraico Golgota…» (Gv, 16b-17)
Il giorno successivo, appena le jeep ci consegnano alla “cima più bella del mondo” (la definizione è stata attribuita sia a Grazia Deledda che a Sebastiano Satta), appena mettiamo piede sopra quello zoccolo che ha nome “Pradu”, la prima impressione è che si tratti di un territorio davvero “altro”, rispetto a quello che pratichiamo quotidianamente. «Potrebbe trattarsi di un territorio lunare», dico sorridendo ad alcune comparse venute da Oliena, che con queste pietre hanno un’amicizia consolidata.
E loro mi confidano - con la rispettosa soggezione che i sardi mostrano quando parlano della loro terra - che quassù in varie ore del giorno e della notte sostano in solitaria contemplazione specie animali come il muflone, il cervo, il daino, l’avvoltoio monaco, l’avvoltoio grifone e perfino il “gipeto”, uccello che credevo abitante esclusivo delle lande poetiche di Giorgio Caproni.
La Red One, la nostra camera digitale, è stata trasportata in un punto lontano da dove mi trovo. Le comparse affollano già le rocce e nell’attesa del ciak sono distesi a fumare o a chiacchierare. Sul piccolo spiazzo dove sarà di stanza il Golgota – e che affaccia su altri avallamenti, fino a perdersi nella vallata infinita e incommensurabile – le Croci sono adagiate a terra, disadorne e scarne, nell’attesa di essere issate definitivamente, trascinando nel calvario i Tre Protagonisti.
E visto che oggi e nei giorni che seguiranno, l’evento sarà la Crocifissione, da filmare passo passo - fino a udire dentro di noi, fuori di noi e nell’universo intero il gemito finale della morte di Colui che è venuto per redimere - anch’io approfitto dell’intervallo prima dell’azione per dare un’occhiata ai Testi, i Sacri Testi, e metterli al confronto, e “in parallelo”, con ciò che la scena si incaricherà di svelare. Diventa prezioso, in questa circostanza, non trascurare il carattere estetico-culturale delle “corrispondenze” e delle digressioni.
Inizia l’Evangelista Marco: «E lo conducono ne luogo detto Golgota, che tradotto significa: luogo del Cranio. E gli volevano dare vino mirrato, ma non ne prese. E lo crocifiggono e si spartiscono le sue vesti, tirando a sorte quale toccasse a ciascuno. Era l’ora terza e lo crocifissero. E c’era l’iscrizione del motivo della sua condanna: “Il re dei Giudei”. E con lui crocifiggono due banditi, uno a destra e uno a sinistra. E i passanti lo ingiuriavano, scuotendo il capo e dicendo: “Ah, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso, scendi dalla croce”. Allo stesso modo, anche i capi dei sacerdoti, facendosi beffe tra di loro con gli scribi, dicevano: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele! Scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo”. Anche quelli che erano crocifissi con lui lo insultavano».
Matteo, rispetto alla versione di Marco, muta pochissimi elementi: non nomina l’ora esatta della Crocifissione, la “mirra” diventa “fiele”, i particolari dell’iscrizione sono ampliati in “Costui è Gesù, il re dei Giudei”, ma soprattutto le parole di scherno delle autorità assumono maggiore rilevanza: «Ha confidato in Dio, lo liberi ora, se s’interessa a lui! Poiché ha detto: Sono figlio di Dio».
Luca rielabora i materiali di Marco, cucendo una versione di impronta “redazionale”. Rispetto al Primo Evangelista, omette alcuni elementi, come l’offerta iniziale del vino mescolato a mirra, l’ora della Crocifissione, le ingiurie attribuite ai passanti. Riferisce invece di ingiurie da parte dei soldati («Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso»), mentre diventa rilevante la posizione dei due Ladroni, che svolgono una precisa trama narrativa, fino a proporsi come racconto autonomo. Scrive Luca: «Uno dei malfattori appeso alla croce lo ingiuriava, dicendo: “Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi”. Ma l’altro, rispondendo, lo rimproverava, dicendo: “Neppure tu temi Dio, tu che sei sotto la stessa condanna? E noi la riceviamo giustamente, perché essa è la degna pena di ciò che abbiamo fatto, mentre costui non ha fatto niente di male”. E diceva: “Gesù, ricordati di me quando arriverai nel tuo regno”. E Gesù gli disse: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso”».
Il Quarto, Giovanni, presenta motivi di distinzione e originalità, rispetto alla tradizione sinottica. Nella sua versione, Cristo viene innalzato sulla Croce in quanto “re dei Giudei”, e acquista rilevanza particolare il ruolo di Pilato. La tavoletta, con il testo dell’iscrizione, apposta sulla Croce – “titulus”, come veniva chiamata – viene redatta in tre lingue: ebraico, latino e greco. Vi si legge: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Ciò provoca il risentimento delle autorità, seguito da uno scambio di battute: «Non scrivere ‘Il re dei Giudei’, ma che costui ha detto: sono il re dei Giudei». La risposta secca e conclusiva di Pilato, «Quel che ho scritto, ho scritto», potrebbe quindi nascere da una volontà vendicativa. Anche sui cosiddetti “Ladroni”, la versione Giovanni è indipendente dalle altre. Si dice: «Lo crocifissero insieme ad altri due: uno di qua, uno di là, e Gesù in mezzo». Giovanni non precisa se fossero “banditi” o “malfattori”: sono nominati come “altri due”. Così come poche righe sopra è detto che Gesù portò lui stesso la Croce, nessuna menzione di Simone Cirene.

''Su Re''Torniamo al tempo reale del tournage. C‘è da filmare, quindi, la scena dell’arrivo al Golgota, imbastire l’ultimo tratto del Corteo: la Processione che avanza barcollante tra i sassi e i rovi.
Gli elementi non sono mutati, la Processione contempla le stesse figure che abbiamo visto affrontare l’ultimo tratto di salita, ora però è mutato il “contesto”, è mutata la forza visiva della scena, è mutata la prospettiva di ripresa: l’immagine cinematografica si è impossessata del territorio, lo stringe, lo trattiene, lo svela, lo mostra, lo brandisce come proiezione assoluta, limitando l’esercizio dei protagonisti, che paiono macchie in movimento, pulviscolo di ombre che confusamente discende le pareti del monte. In questo conturbante contesto naturale, gli stessi personaggi-protagonisti paiono “trasmigrare”, come se variando i connotati del paesaggio che fa da sfondo al percorso, mutassero i sentimenti degli astanti e degli attori dentro la scena.
C’è da attendere che il “campo lungo” scenda gradatamente verso un “campo ravvicinato”. Ecco la Croce, nuda e sbilenca, sulla spalla del muto Simone di Cirene; ecco i cavalli e gli asini che ostentano il girotondo tra le pietre; ecco il Ladrone “buono”, accanto al compare “cattivo”, entrambi legati e trascinati; segue il Cristo costretto tra il cipiglio arrogante degli arrestatori, vestiti di nero e a capo scoperto.
Il Cristo-Fiorenzo riesce con la sola espressione degli occhi a comunicare l’indicibile sofferenza, il ladrone “buono” non smette neanche un secondo di esibire lo strazio, con le mani ancora allargate in gesto di colpa e di perdono, di disgrazia e sofferenza. In ultimo l’asino, che porta le Croci incollate sui fianchi.
Sono arrivati. Ora è soltanto cielo intorno a loro, cielo che si prepara a mutare di gradazione. Si fanno sdraiare Gesù e i ladroni: c’è da procedere alla spoliazione.
«Qe pigan a Zesu a su Golgota e li davan vinu qin mirra, ma non nd’ad borthiu». (Condussero Gesù al Golgota, che significa Cranio, e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.)
C’è chi si preoccupa di togliere le Croci dal dorso dell’asino. La camera digitale non ha fretta, indugia sui dettagli con mano libera, finché non si ode l’urlo del ladrone “buono”: i soldati vorrebbero strappare le scarpe dai suoi piedi, ma lui non ne vuole sapere, come se volesse arrivare integro al martirio, senza rinunciare a “parti” di sé. Protesta, scalcia, si dimena, invoca la mamma, i soldati lo “graziano”: richiesta esaudita. E l’altro, il ladrone cattivo, gli grida ancora una volta di stare zitto.
Infine lo afferrano e lo distendono sulla Croce. Uguale sorte per il secondo ladrone, mentre il Cristo osserva silenzioso. Ciò che è importante in questi convulsi attimi di preparazione, che vede i corpi distesi sulle croci e le croci distese sulle pietre, è che il mutismo del Cristo rifulga, esploda, oltre la naturale drammatizzazione dei fatti.
La camera fa bene a indugiare sui Ladroni e prendere da loro tutta la concitazione possibile; però, appena l’obiettivo sfiora il volto di Gesù, trafitto da un’angoscia illimitata che lo pervade in ogni piega del corpo mutilato, non è difficile capire per chi e per che cosa quella danza sfrenata e insensata sta “accadendo”! Uguale infinita pena la troviamo serrata e confitta sul volto di Maria, nei fugaci passaggi in cui la camera volge a cercare a distanza le donne che piangono e pregano.
Si passa al rito dei “chiodi”, ai colpi ripetuti sulla carne viva, rimbombanti terrore e pena. Fissare il corpo del Cristo alla Croce e ad ogni colpo scrutare le facce degli astanti, che tralucono e luccicano sotto la potenza del cielo che sta mutando i propri connotati. La luce, infatti, si è fatta “inverosimile”: siamo attestati tra le 15 e le 15 e 30.
Ora, noi spettatori, noi uditori, tratteniamo negli occhi e nello sguardo ciò che Apostoli o Discepoli, in quegli stessi momenti, confusi nella folla, stanno registrando. Anche noi, che contempliamo la scena per la prima volta, ci stiamo preparando, da spettatori ingenui, al punto finale.
«Urin sas nove de manzanu qandu l’an incravau» (Erano le nove del mattino quando lo crocifissero).
Le Croci vengono innalzate, il Cielo le trae a sé, la prospettiva di ripresa si sposta a filo dei legni del “patibulum”. Giovanni Columbu è montato sulla scala e governa la macchina da presa. “Guardate verso l’alto, guardate il cielo!”, chiede ai due Ladroni. E vicendevolmente i due scambiano e patteggiano sguardi, Giovanni indica loro ogni impercettibile gesto da compiere o da rifinire, si vede bene in questi momenti che il Cinema si è impadronito della materia. E Giovanni perfeziona qui il suo metodo: comporre la scena “in macchina”, che vuol dire costruire le inquadrature e i movimenti via via che i Personaggi, gli attori-non attori, si impadroniscono del dettato.
Giovanni vorrebbe che non ci fossero pause, che la scena si costruisse nel tempo indefinito: mentre con un occhio governa il campo di ripresa - trattenendo la macchina sulla spalla - l’altro lo china verso Elena, la segretaria di edizione, per domandare le battute che devono arrivare o seguire. Elena legge dal Copione, porge una versione, poi l’altra, Giovanni ripete la battuta a voce alta, mentre l’occhio attaccato alla camera si incarica di non abbandonare la presa dei volti e del cielo.
Tocca a Ignazio, il ladrone “buono”. Guarda il Cristo alla sua destra e pare ancora non persuadersi che il caso abbia congiunto il proprio destino terreno con quell’uomo sconosciuto che dice di essere Figlio di Dio. No, il ladrone – o il “malfattore” secondo Luca – questo non lo capisce. Riesce soltanto a piangere, proclamandosi per sempre innocente. «Io non c’entro nulla! Ma tuo padre non te l’ha dato il potere? Perché non ti fa scendere?» Esplode la rabbia: «Fammi scendere da questa croce!» E ancora: «Sei un impostore, non sei il Cristo! Sei un imbroglione! Se sei veramente Su Re, liberaci!» E ancora: «Io sono buono, la colpa è tutta dell’altro! Fai un miracolo, liberaci!»
Invece il ladrone “cattivo”, crocifisso anche lui al lato opposto, ne prende inizialmente le parti: «Non ha fatto niente. Lascialo stare… meschinu! Noi abbiamo rubato, noi sì che abbiamo rubato. Io sono ladrone e basta!» Poi, come pentito delle cose che ha appena detto, si rivolge anche lui direttamente a Gesù: «Fallo però questo miracolo!» E poiché Cristo non risponde, anche lui si altera, inveisce, sputa: «Ma che Su Re! Tu sei un impostore! È colpa tua se siamo in croce, tu hai ingannato la gente! Colpa tua!»
Di sotto, intanto, un sacerdote anziano ascolta quelle imprecazioni convulse e scuote la testa. Guarda poi il Cristo, come se attendesse da lui una risposta. Ma il Cristo trema, sbava, soffre, gli occhi sono già ridotti al niente. Ciò che accade “di sotto”, raggiunge a fatica il patimento che si consuma “di sopra”: «L’offendian e naban troqende de gonga: Tu qi su tempiu l’issages e lu aqes in tres dies, sarvadi tue qomo!» (Lo insultavano scuotendo il capo e dicendo: Tu che distruggi il tempio e lo restituisci in tre giorni, salva te stesso!); «Su Qristos, su Re de Israele, a ite non abbassat dae sa Rughe, qa gai vidimus e qredimus!» (Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo!); «Si ses ‘izu de Deus abbassa dae sa rughe!» (Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!)…
«Se tu sei… Se tu sei…». La tiritera si ripete e si rinnova: l’hanno espressa i Ladroni, ora la reclamano i soldati e i centurioni. «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!» Anche uno dei sacerdoti grida: «Perché non rispondi? Se tu sei...». Ma qualcosa è cambiato nelle voci, nei gesti, nei toni anche di coloro che lo hanno voluto sulla Croce.
Cristo sta morendo… sicché anche la baldanza di coloro che l’hanno messo a morte, quella sfrontatezza avvolta di ferocia, si va vanificando. Il Cristo crocifisso, davanti ai fiocchi di luce lattiginosa che si vanno stemperando, ora pare rispondere soltanto al Padre Suo, pare prepararsi all’invocazione finale, cruciale. 
Giovanni-regista muove la camera a mano con precisione, non vuole azzardare movimenti bruschi, non è più il momento di pretendere concitazione, la scena si va “smorzando”, perché quell’Uomo messo in Croce va “estinguendosi”, “eliminandosi”, levandosi dall’oltraggio degli sguardi… e lo dimostra ora un secondo sacerdote anziano, che si avvicina alla Croce, fa cenno di no con la testa, sospira, vorrebbe fare intendere a se stesso e a tutti noi che quell’uomo non può essere il Redentore. Ma la sua - lo si vede bene - è una convinzione scialba, inutile, attorcigliata dentro parole che non hanno più vigore, che non servono più.
Siamo così arrivati al momento cruciale e finale. Sullo sfondo del cielo che si spegne, intriso di sangue, di prostrazione, incoronato di spine, il Cristo di Fiorenzo Mattu, il “Su Re” del film di Giovanni Columbu, guarda verso l’alto e supplica il fatale «Babu meu…» (Padre mio…) «Poite mi q’as lassau solu?» (Perché mi hai abbandonato?). Nulla più, null’altro. Il respiro si ferma e il capo reclina verso terra.
«Qomo totu est qonqruiu» (Ora tutto è compiuto)
Il resto, il “dopo”, ciò che “accade” dopo, inizia per noi dentro un mattino di nebbia. Scrive Giovanni Evangelista: «I Giudei, poiché era la Preparazione, affinché i corpi non restassero sulla croce durante il sabato, domandarono a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e venissero rimossi. I soldati dunque vennero e spezzarono le gambe al primo e poi all’altro che era stato crocifisso con lui. Ma venuti a Gesù, quando videro che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua».
Quando il giorno successivo ci ritroviamo sul “Golgota”, il campo di ripresa è mutato, trasformato dalla nebbia che ha velato e dissimulato ogni porzione di terra e di cielo. Le Croci sono rimaste al loro posto, hanno passato lì la notte, e i “bracci” paiono ancora più scarni e sguarniti, dentro questo velo immobile di indefinitezza. Tra poco i Protagonisti torneranno ad abitarle, quelle Croci: la costumista e la truccatrice sono già all’opera per restituire a Fiorenzo-Cristo e ai due Ladroni le fattezza del martirio perpetuo.
Intanto mi avvicino a Francisco - direttore della fotografia - per ottenere informazioni tecniche su quella luce, che nei giorni precedenti non si era mai rivelata in tale foggia. Mi dice che l’esposizione fotografica seguirà le disposizioni del cielo, per tre quarti custodito nella nebbia e per un quarto intinto nell’azzurro. “Daremo un’apertura che consenta di restituire l’effetto del sole parzialmente oscurato”, conclude indicando l’obiettivo della camera digitale.
Arriva Giovanni: “C’è una luce meravigliosa”. E comincia a preparare la scena del soldato a cavallo che si avvicina alle Croci per spezzare le gambe dei due Ladroni. Istruisce a lungo il ladrone “buono”, descrivendo scrupolosamente il modo con cui dovrà reclinare il capo e lasciarlo penzolare, appena il primo soldato avrà inferto il colpo di mazza sopra di lui. Uguale descrizione, con ulteriori particolari, per il Ladrone “cattivo”.
Anche il Cristo di Fiorenzo Mattu è pronto per tornare sulla Croce. Una ragazza del reparto costumi si prende cura del suo corpo esposto al freddo, premurandosi di coprirlo con un ampio mantello durante le pause. La truccatrice spreme da una siringa strisce color del sangue, rimodellando le “ferite” già predisposte in questi giorni di Martirio e Passione. Appena pronto, con agile guizzo, egli riacquista la posizione del Crocifisso, le braccia allargate, le gambe serrate, il capo reclinato.
Giovanni-regista prende in consegna dall’assistente operatore la Red One digitale. Il suo occhio è ormai avvezzo a ritrovare nel campo dell’inquadratura le facce sconvolte e deformate dei Martiri, così ogni indicazione da dare si è fatta meno problematica, come se gli attori non-attori avessero ben compreso come disporsi all’interno delle sequenze. Il secondo soldato a cavallo, provvisto di lancia, sta preparando il quadrupede a stare in equilibrio sulle pietre... e appena Giovanni gli grida di partire, prima con pacatezza poi con tenacia affonda lo stiletto dentro ciò che rimane del Corpo del Redentore. Una sfoglia d’aria si potrebbe definire ormai quello smilzo fagotto di carni e “colpo di grazia” quel gesto, se l’espressione non suonasse grottesca.
(A tal proposito, accogliamo di buon grado la preziosa sollecitazione di un nostro lettore della Parte Prima, che ci ha fornito la minuziosa descrizione della sofferenza fisica patita da Gesù “nelle ultime, tremende ore di vita”, ricavandola dallo studio di un medico francese.)
«Dae su mesudie vinas a sas tres ad attu isquru in totu su mundu» (Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra).
«Ed era già circa l’ora sesta e si fece buio su tutta la terra fino all’ora nona, perché il sole si era eclissato…» (Lc, 44)
«Dopo questo, Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma in segreto, per timore dei Giudei, domandò a Pilato di poter rimuovere il corpo di Gesù. E Pilato lo concesse. Dunque egli venne e rimosse il suo corpo. Venne anche Nicodemo…» (Gv, 38-39)
Intanto, poco lontano, dall’avallamento delle rocce, un piccolo gruppo di sacerdoti e di donne in preghiera sta scendendo per conquistare finalmente il perimetro della scena. Se i tre Condannati, aiutati dalla nebbia, hanno modo di sparire progressivamente, il gruppo che ora si crea - nel grumo di un’illuminazione opalescente e farinosa - merita di essere accudito.
Riconosciamo Nicodemo, Giuseppe di Arimatea - colui che è stato da Pilato per reclamare il corpo del Cristo – soprattutto notiamo che la Maria con il volto di Pietrina Menneas si va separando dal gruppo delle donne e muove verso la Croce centrale, in parallelo con quattro giovani ragazzi che portano una lettiga.
Ora il gruppo è riunito davanti alle Croci. Delle invocazioni e delle grida precedenti non v’è più traccia o allusione. Piuttosto, c’è da trascinare verso la Terra il Corpo di Gesù di Nazareth… e quel gesto “paradossale” non può che essere di accoglienza e di abbandono nell’amore. Se ne incarica Nicodemo, aiutato da Giuseppe di Arimatea: un catalogo di movenze e di gesti misericordiosi che ormai pare comporsi in armonia, senza sbavature o difficoltà, servito anche dal silenzio totale, profondo che dentro tutti noi è calato.
La braccia di Maria sono pronte, capaci e accoglienti, il corpo “cade” su di lei e lì si deposita per infiniti attimi di silenzio e di eternità: sono forse pochi secondi in tutto, ma il tempo è trasfigurato. Maria chiude gli occhi dal dolore, poi lo bacia, delicatamente. E la luce del cielo, che sta decidendosi tra la nebbia e il chiarore, pare slabbrasi e involtolarsi, invece resiste, forse si sfoca, resiste!
Rimane, nella desolazione dell’ora definitiva, lo sguardo rigido, bloccato, di tutti gli astanti. Ora ogni cosa si è fatta incapace di parola, forse il mondo intero si è tacitato di colpo, troppe cose sono avvenute “nell’Ora Terza”. C’è da stare, quindi, fermi e silenziosi.
«E, preso il corpo, Giuseppe lo avvolse in un panno di lino pulito e lo pose nel suo sepolcro nuovo, che aveva tagliato nella roccia… » (Mt, 59-60)
C’è forse qualcuno che, dopo la muta deposizione del Corpo, avrà l’ardire di muoversi, di alzarsi dal giaciglio di pietre e gridare qualcosa? Ci sarà una voce che a tragedia conclusa pretenderà di sollevarsi e spezzare la quiete finalmente raggiunta?
Dal gruppo sparpagliato di astanti curiosi osservatori, ancora scossi dallo spettacolo di Crocifissione e morte, un volto si separa, un corpo si mette in piedi. Chi è? È un uomo robusto, che ostenta nel volto e nei lineamenti una certa volontà attiva, per niente addolcita dalla barba ispida. L’espressione del viso è dura, compressa nell’inquietudine. Cos’ha intenzione di fare o di dire? Si avvicina ad un altro uomo, seduto poco lontano, che ha lo sguardo perso nelle lontananze dei pensieri, e si china a mormorargli qualcosa.
L’uomo non sente, o comunque non ha voglia di ascoltarlo. Non lo guarda nemmeno, non si volta neppure dalla sua parte, preferisce rimanere assorto.
Allora il primo, rinfocolando una rabbia antica, alza la voce e tenendo un tono a metà tra il grido e l’implorazione, esclama: «Io ero con lui! Io sono un suo seguace!». Il secondo, udendo quella voce, solleva la testa e lo fissa. E l’altro insiste: «Ero con lui, capisci? Sono uno di loro!»
Quest’uomo è l’apostolo Pietro, a lungo rimasto dissimulato, ma ora ritornato nel vigore della presenza. La sua immagine, affiorata d’improvviso, quando sulla scena regnava il mutismo e lo sgomento, appare bellissima: sembra ridare voce, restituire dignità e credibilità a quello spasimo di fede che nella concitazione del dramma pareva soffocato.
 E sull’incedere sdegnato dell’Apostolo prediletto  - Pietro che volta le spalle alla tragedia e all’orrore consumati e si allontana verso l’altura fino a scomparire – cala il sipario sul secondo ciclo di riprese del film.
Così, mentre la troupe, stipata nelle jeep, inizia la discesa, il viaggio a ritroso tra le fosse e i tornanti, per rientrare nel campo-base di Tuones, protetti dentro i primi lembi di oscurità, io mi concedo le ultime occhiate di ricognizione, tentando un compromesso tra la malinconia che il cuore mi detta e la tentazione di accendere un fugace bilancio delle ore e dei giorni fin qui attraversati.
Gli “elementi” di scena sono ancora distesi sul  campo: i Vangeli, la Croce, il Cristo, il Cielo, il territorio di Sardegna, la Lingua sarda, la Natura che è diventata personaggio… e poi il Cinema, la Filosofia, la Pittura, la Narrazione, l’Interpretazione: elementi che  disordinatamente appaiono al mio sentire ma che sono appartenuti e appartengono autorevolmente a questo Progetto.
Una domanda, nella mia testa, ora chiede di essere formulata: siamo davanti a un “evento”, il cinema si è fatto “tramite” in questi giorni di una storia speciale?
Non credo di alterare di molto la realtà se, con voce sommessa, propongo di considerare la “scommessa Su Re” come uno dei fenomeni culturalmente rilevanti che stanno transitando e “accadendo” nel nostro tempo , soprattutto in questo preciso passaggio storico.
Inutile far finta di non vedere che negli ultimi anni, o decenni, la “peste” televisiva ha avuto il sopravvento sul nostro inesausto desiderio di proporre nuove frontiere dell’immaginario e della pratica artistica.
Da qui nasce la voglia di non lasciarsi piegare ai linguaggi televisivi o ai linguaggi “cronachistici” che ovunque ci farfugliano intorno, la necessità di cercare strade maestre o vie di fuga che siano “altro” sia dal linguaggio giornalistico che dalla lingua parlata nelle aule di università… insomma riabilitare con prestigio e decisione quella pratica autorale – leggi anche: cinema d’autore – di cui il nostro tempo ripropone l’assoluto bisogno.
Il tournage di questo film si è palesato a noi tutti come “esperienza”, io stesso ho avuto modo di constatarlo negli intervalli di tempo, quando le pause ci concedevano di commentare collettivamente ciò che stavamo “agendo”.
Ciascuno di noi, benché tenesse gli occhi e i sensi fissi sul movimento delle riprese, finiva necessariamente per spostare i pensieri lungo altre traiettorie: come se quest’opera cinematografica, inconsciamente, dovesse dare risposte a ciò che siamo e a ciò che vorremmo essere… sicché quel Cristo sulla Croce diventava monito, via di transito o via d’accesso per traghettarci verso il tempo del “presente”, della nostra “presenza”, del nostro essere-qui.
Ecco perché ora l’appello è che questo film prosegua presto la sua marcia, componga le altre “stazioni” del percorso: dall’Orto degli Ulivi ai Miracoli, dalla Natività all’Ultima Cena. C’è ancora da vivere, e da condividere, l’emozione di vedere in campo gli Apostoli e gli Evangelisti, ascoltare i loro racconti, intrecciare le “storie parallele”… e definitivamente comprendere che quelle facce ci interrogano oggi come ieri, avvinti dentro quel “mistero” che tante volte abbiamo creduto di conoscere ma che ancora una volta il cinema si incarica di mostrarci, per portarlo alla “luce”, per confermarlo nella sua inesprimibile potenza.
In fondo, non è poca cosa se quell’atavico “Mistero”, grazie al cinema, sia oggi dedicato proprio a noi: anonimi sopravvissuti del secolo Ventunesimo.

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