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Ebraismo - A. Matta

"Am ende kommen den tousisten" di Robert Thalheim

 
''Am ende kommen den tousisten'' locandinaCuriosa pellicola del 2007, “"Am ende kommen den tousisten" del regista Robert Thalheim è  l’ unico film  sulla gestione dei luoghi della memoria, o meglio,come oggi i luoghi della memori, quali Auschwitz, siano mantenuti, custoditi, preservati per la memoria storica. Attraverso la storia di Svein, Giovane Tedesco che si ritrova a svolgere il servizio civile a Oswiecim (località  polacca del lager di Auschwitz Birkenau) proprio nel museo Auschwitz, viene aperta una  finestra sulla Polonia di oggi e su come essa si ritrovi quotidianamente ad affrontare il terribile buco nero della Shoah.
Inedito in Italia ed acquisibile in dvd  solo in Germania e Francia, il film è stato da poco sottotitolato in italiano grazie alla mediateca toscana, verrà  presentato   il prossimo 25 febbraio a Rimini  e a Carpi poi, grazie alla Professoressa Laura Fontana.
L’iniziativa vedrà   ospite anche il corrispondente per la Polonia del Memorial de la Shoah,  Jean-Yves Potel, che presenterà  il suo interessante libro: “La fin de la innocence -  La pologne facà a son passà  juif” sulla Polonia e il suo complesso rapporto con la memoria storica dello sterminio degli ebrei.
Laura Fontana è Direttrice dell’ Istituto storico della resistenza di Rimini, responsabile del progetto “Educazione alla memoria” del Comune di Rimini,  da anni si occupa di didattica della Shoah e delle tematiche legate alla memoria della Shoah nelle scuole,   di cui l’ iniziativa della presentazione del film è parte integrante. E’ la corrispondente per l’ Italia del “Memorial de la Shoah” di Parigi. L’intervista.  
 
''Am ende kommen den tousisten''La Polonia davanti al suo passato ebraico è  questo il tema delle due serate di presentazione del film di Thalheim e del lavoro di Potel. Proprio la Polonia che ha visto sviluppare al suo interno la macchina dello sterminio degli ebrei, coi suoi sei campi di sterminio di Chelmno, Belzec, Sobibor,Treblinka,Birkenau e Majdanek. Possiamo dire che la Polonia dopo quasi 70 anni da quei tragici avvenimenti stia aprendo gli occhi sul suo passato terribile? O  c’è da fare ancora molto perchè la Polonia riconosca le sue colpe su quanto accaduto?
Indubbiamente, a 20 dal crollo del regime comunista, la Polonia oggi sta lavorando attivamente per riappropriarsi in maniera più consapevole e onesta della propria storia, assumendosi anche responsabilità  e contraddizioni laceranti riguardo alla memoria della Shoah. Se il genocidio degli ebrei è attualmente al centro dell’ attenzione della storiografia e della ricerca e soprattutto è finalmente oggetto di studio in tutte le scuole, più in generale va detto che è la memoria della presenza ebraica in Polonia a tornare alla luce dopo anni di oblio. Tuttavia, non credo che sia possibile valutare in pieno la portata di questa svolta senza tenere a mente che questa nazione ha avuto uno statuto del tutto particolare: devastata e smembrata dalla doppia occupazione nazista e sovietica nel periodo 1939-1941, la Polonia è stata una nazione martire, vittima di una feroce politica repressiva e pagando un prezzo molto alto in termini di distruzione fisica, economica e morale. Basti ricordare che in poco più di un mese, tra settembre e ottobre 1939, il regime nazista lancia l’operazione detta Tannenberg, con la quale vengono assassinati in centinaia di esecuzioni di massa almeno 20.000 fra i più illustri e autorevoli cittadini polacchi, mentre nella primavera 1940, la Nkvd (polizia politica di Mosca), eseguendo gli ordini di Stalin, massacra circa 22.000 ufficiali polacchi prigionieri dei sovietici, di cui oltre 4.000 nella foresta di Katyn. La Polonia è stata anche testimone del genocidio, poiché  è sul suo territorio che sono stati istituiti i campi dell’ ™Aktion Reinhard ove in meno di due anni sono stati assassinati col gas 3 milioni di ebrei polacchi, la più grande comunità ebraica in Europa. Infine, la Polonia deve fare i conti anche con il suo tenace antisemitismo e con il suo essere stata, per diversi aspetti, complice o corresponsabile della Shoah, spesso prendendo l’iniziativa per massacrare gli ebrei. Un aspetto, quest’ultimo, che incrina profondamente il mito nazionale dell’ innocenza.
 
''Am ende kommen den tousisten''Per molti anni si è minimizzata la gravità  della Shoah, soprattutto in Polonia, gli ebrei son stati messi in secondo piano, ridotti  a una piccola parte della resistenza antinazista polacca, confusi con categorie di deportati civili nei Kz  verso cui non era stato  programmato alcuno sterminio su base biologica. La Polonia di oggi insiste ancora su questa visione di nazione  martire cercando di banalizzare la Shoah o lavori come quello di Potel hanno portato i giovani polacchi a una dimensione diversa dell’ accaduto?
In questo senso, la Polonia ha vissuto come i Paesi dell’ ex Urss sotto una pesante cortina comunista che ha imposto il tabù  sulla specificità  del genocidio ebraico, seppellendo la memoria della Shoah sotto un discorso omogeneo, manipolato dal nuovo regime, all’insegna di un popolo compatto, antifascista ed eroico, vittima del nazional-socialismo. Sugli ebrei polacchi ha pesato a lungo l’accusa di tradimento durante l’aggressione nazista, cioè di aver scelto il campo di Stalin a quello di Hitler. Un esempio lampante di questa cancellazione della memoria del genocidio degli ebrei ci viene dalla stessa segnaletica all’interno del complesso concentrazionario di Auschwitz-Birkenau, dove fino a solamente una decina di anni fa non compariva mai la parola Judenâ vicino al numero di vittime. Certamente la svolta è stata segnata dal 1989, anno del crollo del muro di Berlino, poichè è dagli inizi degli anni Novanta che in Polonia, un gruppo di ricercatori dell’Istituto storico ebraico di Varsavia inizia un’ indagine dei manuali di testo in uso nelle scuole e dà impulso alla riforma del sistema scolastico. Possiamo dire, in un certo senso, che la riscoperta della cultura ebraica ha accompagnato la trasformazione democratica della Polonia e che oggi - come ha dimostrato con grande ricchezza di esempi lo storico Jean Yves Potel nel suo libro “La fin de lâ innocence. La Pologne face à son passé juif” - la ricerca storica è libera e molto ricca. Non che la riflessione e il dibattito sulla Shoah fossero totalmente inesistenti prima degli anni Novanta, ma erano relegati ad ambiti molto ristretti.Certo, fare i conti con un passato molto diverso da quello tramandato dalla storiografia di regime, è un processo complicato e doloroso: come conciliare le due memorie, quella di popolazione martire e vittima del nazismo con quella di popolazione complice del crimine?
Anche qui vorrei fare  un esempio, il pogrom di Jedwabne che, nel luglio 1941, vide la popolazione polacca del villaggio massacrare di propria iniziativa tutti gli ebrei della zona (salvo 7 sopravissuti), con una crudeltà inaudita. Si tratta di un crimine attribuito per 60 anni ai nazisti e solo nel 2001, con la pubblicazione dell’ indagine di Jan Gross, “Neighbors” (tradotto l’anno dopo in italiano con il titolo “I carnefici della porta accanto”) è stato possibile riportare a galla i fatti e attribuirne l’intera responsabilità  alla Polonia. E’ un libro che ha scosso violentemente la coscienza dell’opinione pubblica e che ha avuto il merito di dare avvio a un immenso dibattito, incrinando il mito dell’innocenza polacca e spingendo il presidente Kwasniewski, in occasione del sessantesimo anniversario dell’eccidio,  a chiedere pubblicamente perdono agli ebrei a nome della nazione polacca. Oggi, il pogrom di Jedwabne è citato in tutti i manuali scolastici, l’Istituto per la memoria nazionale lavora con quello  di storia ebraica per migliorare la formazione dei professori nell’insegnamento della Shoah, ma restano tanti problemi.

''Am ende kommen den tousisten''Anni fa la costruzione di un enorme centro commerciale , poi la inaugurazione di una discoteca in un capannone adiacente a Birkenau, più grande cimitero ebraico del mondo, che hanno provocato battaglie da parte del centro Wiesenthal e non solo in favore di una immediata chiusura,  poi  le proteste del sindaco di Oswiecim in occasione del 60° anniversario della liberazione di Auschwitz,  secondo cui la presenza del museo di Auschwitz non permetterebbe alla cittadina di vivere serenamente. Eppure un anno fa, la testimone della Shoah, Ida Marcheria, ai microfoni di Roberto Olla lamentava in lacrime di come ci si stesse approfittando della presenza del museo per far soldi. La Marcheria denunciava il business delle librerie, dei bookshop del museo che vendono libri cartoline e dvd sulla shoah, dei ristoranti e degli alberghi che approfittano della massiccia presenza turistica nel lager. Come può essere gestito  dal punto di vista storico, memorialistico, museale, religioso Auschwitz Birkenau? Come possiamo preservare il luogo e la memoria storica di un luogo sacro come quello senza inciampare in un facile business? Un luogo dove a lungo si è dibattuto se mettere sotto vetro o meno le rovine dei 4 Krematorium, ma ciò non è stato possibile in quanto molti esponenti dell’ Ebraismo ortodosso non vogliono che di quel luogo si tocchi nulla,  in quanto sacro. Come fare?
Si tratta di una domanda  complessa che pone vari interrogativi. In primis, la destinazione del luogo che oggi sembra essere diventato la meta prediletta di quello che Alain Finkielkraut definisce polemicamente come turismo concentrazionario, una categoria di visitatori che arriva, guarda, fotografa e se ne va nel giro di poche ore, che è rappresentata in maniera molto efficace dal film “Am Ende kommen Touristen di Thalheim”, a mia conoscenza l’unico lavoro cinematografico che pone il problema di che cosa sia Auschwitz oggi e di come il peso simbolico del luogo stia prevalendo sulla conoscenza storica. Secondo Piotr M.A. CywiÅ„ski, direttore del Museo di Auschwitz, sono almeno un milione e trecentomila i visitatori che ogni anno giungono sul posto da ogni parte del mondo, inclusi paesi come la Cina, la Corea il Giappone che non hanno un legame diretto con la storia della Shoah. Dovremmo chiederci cosa cercano queste persone, cosa si aspettano di vedere, ma soprattutto perché assistiamo a un’esplosione incontrollata di pellegrinaggi in questi luoghi quando invece per i seminari di formazione storica si fa fatica a trovare risorse e pubblico? Condivido pienamente l’opinione di Georges Bensoussan, grande storico francese, quando sostiene che l’ossessione per Auschwitz non ci aiuta a comprendere come ci siamo arrivati. Inoltre, su questa insistenza del vedere sta, a mio avviso, l’ altro grande problema. Che cosa è lecito far vedere del genocidio? L’immagine dell’ orrore serve davvero per farci comprendere come si è arrivati allo sterminio? E se quell’immagine serve, come e a chi mostrarla? Il Museo di Auschwitz presenta infiniti problemi di esposizione, soprattutto non aiuta a comprendere che cosa è accaduto a Birkenau perchè induce confusione nel visitatore. Infine, c’è  il problema della conservazione dei luoghi, sottoposti all’usura del tempo. Non è solo un mero problema di fondi, è un problema etico: se il tempo logora e distrugge inesorabilmente, ad esempio, i capelli delle vittime, o i denti, o le ossa, è lecito manipolarli e, dunque, imbalsamarli per tenerli esposti nelle teche?
Di altra natura, ma ugualmente delicata, è la questione della difficile convivenza tra la società  polacca odierna e il peso ingombrante del passato. Visitare Auschwitz e vedere come la popolazione della città  viva praticamente dentro al campo è sconvolgente, ma l’indotto economico che il luogo ha provocato è solo la punta dell’iceberg.

''Am ende kommen den tousisten''La Polonia fa i conti col suo passato, ha iniziato a farli tardi , possiamo dire oggi che fino agli inizi degli anni ‘90 in Polonia , anche per motivi politici, non vi era una memoria e una memorialistica effettiva sulla Shoah. Inoltre ci si scontra con la dura realtà  di luoghi deserti, nei quali non c’è più nulla: di Belzec e sobibor (campi di sterminio tout court) non resta nulla, mentre Birkenau rimane nella sua parte di Kz (non i crematori) ma le stesse strutture cadono a pezzi anno dopo anno e a poco a poco ci avviciniamo al momento in cui i testimoni ci lasciano. Proprio in un paese come la Polonia, riusciremo a mandare avanti la memoria anche dopo la scomparsa dell’ultimo testimone?
Bisogna partire da una considerazione fondamentale: la Shoah non è stato solo un genocidio, ma è stata anche la cancellazione sistematica da parte degli stessi esecutori delle tracce del crimine. Fin dal giugno 1942, con l’operazione Aktion 1005 i nazisti danno ordine ai prigionieri di svuotare le fosse comuni di Chelmo e degli altri campi dell’Aktion Reinhard, bruciare i cadaveri disintegrando le ossa, smantellare le camere a gas e le strutture dei centri e infine ripiantare alberi e vegetazione per mascherare completamente quanto accaduto. Tra l’altro è proprio da questa occultazione delle prove che trae forza il negazionismo. Ora, va riconosciuto al governo polacco il merito di aver moltiplicato gli sforzi, almeno nell’ultimo ventennio, per ricostruire quanto è stato cancellato, restaurare sinagoghe e cimiteri devastati, restituire i beni spogliati alle comunità ebraiche, tener viva la memoria soprattutto della vita ebraica, per secoli così¬ presente nel tessuto culturale, sociale ed economico del paese. Lo sforzo di tramandare la memoria di una presenza scomparsa, ma soprattutto di integrarla nella società  contemporanea è visibile, ad esempio, nel grande festival di cultura ebraica che si svolge ogni anno a Kazimierz, forse il più importante al mondo. Tutto questo impegno, indubbiamente encomiabile, e questa sorta di rinascita anche delle piccolissime comunità ebraiche rimaste in vita, si scontra con un dato di fatto: in Polonia non ci sono praticamente più ebrei. In un Paese che ha circa 38 milioni di abitanti, gli ebrei sono forse 20.000/25.000, è anche difficile stabilire questa cifra perchè c’è  tutto un discorso di identità delle nuove generazioni che andrebbe fatto: quanti si sentono veramente ebrei? Quanti sono a conoscenza delle proprie origini? Secondo Andrej Zozula, presidente dell’Unione delle comunità  ebraiche religiose della Polonia, sarebbero molto frequenti i casi di persone anziane che in punto di morte confessano ai propri figli di essere ebrei e di averli battezzati alla nascita per paura. Varsavia, che prima della guerra, ospitava la più grande comunità  ebraica al mondo, dopo quella di New York, oggi conta appena 400 ebrei. Lublino  ha una sinagoga restaurata ma da lustri non celebra più matrimoni ebraici o bar mitzva. Nel dopoguerra, la Polonia ha vissute ondate fortissime di antisemitismo.
E’ un pò come resuscitare un fantasma, idealizzando un mondo scomparso o ricostruire in vitro una specie scomparsa nella vita reale. Bisognerebbe porsi due domande: dei non ebrei possono, da soli, riportare in vita una cultura quasi totalmente cancellata? E quanto, invece, la popolazione polacca non ebrea sente davvero l’esigenza di arricchire la propria identità  con il recupero dell’Ebraismo?
Credo che per garantirci una maggiore efficacia della trasmissione della memoria della presenza ebraica prima, durante e dopo la Shoah, occorra compiere lo sforzo di andare oltre il racconto dei testimoni, innanzitutto potenziando la ricerca storiografica e l’insegnamento, ma anche sostenendo la creatività letteraria e artistica. Perché come sostiene Aharon Appelfeld, uno dei massimi scrittori israeliani contemporanei,è solo l’arte ha il potere di far uscire la sofferenza dall’abisso.

''Am ende kommen den tousisten''Come giudica il generale risveglio di interesse da parte della terza generazione di molte famiglie ebraiche superstiti della Shoah (ovvero la generazione dei nipoti) per un ritorno ai paesi di origine della propria famiglia? Città  come Cracovia e Varsavia, stando ad alcune statistiche, starebbero conoscendo un risveglio della presenza ebraica proprio grazie ai nipoti dei superstiti, che vogliono tornare a vivere nel paese di origine dei nonni. E’ positivo? Anche in questo modo la Polonia farà  i conti col suo passato?
Quello che molti ancora non sanno è che la fine del conflitto e la scoperta dell’orrore della Shoah non ha purtroppo fermato l’antisemitismo e la persecuzione degli ebrei in molti paesi dell’ Est europeo come la Polonia, che negli 1945-1947 è stata teatro di violenze e pogrom, come quello di Kielce del 1946. Gli ebrei polacchi scampati al genocidio e rientrati in patria, trovano una situazione ostile, pericolosa, che diventerà  nel giro di pochi anni, a seguito delle violente campagne antisemite del 1957, invivibile tanto da costringere quasi tutti i sopravvissuti ad abbandonare la Polonia.
E’ vero, oggi si assiste a un nuovo fervore attorno alle piccole comunità  ancora attive sul territorio, una nuova generazione di studiosi, artisti, ricercatori ebrei riscoprono il proprio ebraismo attraverso il recupero e la rilettura delle tradizioni bibliche e rituali, persino la lingua yiddish viene riportata in vita. A Varsavia si attende l’apertura di un grande museo ebraico, mentre a Cracovia funziona già un centro di cultura ebraica.  Israele ha sviluppato la memoria della Shoah legandola alla memoria dell’ Ebraismo polacco e dunque la Polonia, soprattutto Auschwitz, è la destinazione di centinaia di migliaia di ebrei israeliani alla ricerca di quella yiddishkeit distrutta per sempre. A tutto questo si aggiungono quelli che Gad Lerner chiama i turisti della memoria, ovvero quella terza generazione di ebrei, spesso totalmente assimilati e residenti in Occidente, che nella Polonia cercano non solo le tracce di un proprio passato famigliare, in una nostalgia di luoghi e sapori mai conosciuti prima, ma anche il senso del proprio attaccamento all’Ebraismo.
Credo che la risposta alla sua domanda stia nelle stesse parole di Lerner, Pericolosa e illegittima è la tendenza a ergersi portavoce degli sterminati, quasi che lo status di vittima (sia) ereditario. La memoria ebraica e soprattutto l’identità ebraica contemporanea non può essere costruita ossessivamente sulla Shoah. Significherebbe cancellare un’altra volta tutto quello che c’è stato prima.