Percorso

Pinna Salvatore

Il doppio mistero de Il canto scaltro

 
Il canto scaltroUn prologo di tre brevi sequenze introduce Il canto scaltro (2009) di Michele Mossa e Michele Trentini. Nella prima un appassionato di poesia improvvisata campidanese avverte che bisogna “essere molto scaltri per capire di cosa sta parlando”, nella seconda il vecchio poeta Pietro Lussu dal palco di una festa dedicata a Santa Maria offre un breve saggio della sua perizia poetica. Una terza sequenza è dedicata alla descrizione del contesto ambientale in cui si svolgono  gli eventi raccontati, mediante inquadrature di case campidanesi sullo sfondo degli svettanti grattacieli del quartiere cagliaritano del Cep,  mentre una larga panoramica mostra aldilà di una cortina di costruzioni urbane, la contiguità con i paesi raccolti in una striscia di territorio verso sud-est. Un didascalia segnala che siamo nell’hinterland cagliaritano, d’estate. L’estate, da giugno a settembre, è la stagione delle sagre e delle gare poetiche in lingua sarda.
Il film vero e proprio inizia con una lunga sequenza dedicata ad un  motofurgoncino che percorre una strada che congiunge i paesi del circondario di  Cagliari. Il mezzo è ripreso in diverse inquadrature e campi come a orientare su di esso l’attenzione dello spettatore. Subito dopo la camera stacca su una mano che infila una cassetta in un mangianastri installato sul cruscotto di un motoveicolo dal cui altoparlante si diffonde una cantata campidanesa.  Quando l’inquadratura si allarga si vede il furgoncino accostato sul lato di una strada con esposte verdure e frutta. Appoggiato sul muro opposto il fruttivendolo aspetta clienti. Lo spettatore incorpora questa sequenza nel tema del film e pensa che voglia indicare nient’altro che uno dei modi di propagazione del canto sardo. Tale lettura è rinforzata dal fatto che,  diverse  sequenze dopo, due donne dichiarano che “oggi i giovani non ci tengono a cantare così, come il disco che ha quel verduraio”. Il verduraio non si vedrà più per tutto il film. Ma il suo furgoncino farà qualche altra apparizione e, soprattutto, ritornerà, in modo significativo, in una sequenza immediatamente successiva alla fine del filmato. Quando avverrà occorrerà domandarsi perché. Prima che ciò accada sarà trascorsa un’ora di proiezione e  lo spettatore sarà stato introdotto dentro i rituali sacri e profani delle feste d’estate e nel mondo delle gara poetica campidanese.
L’evento centrale su cui si basa la narrazione del documentario è la gara di poesia estemporanea che vi svolge all’interno dell’edizione del 2008 della sagra di Sant’Elena patrona di Quartu. La sua descrizione viene centellinata sia per creare l’atmosfera dell’attesa, sia per fornire allo spettatore delle ulteriori informazioni.  Il vecchio poeta Pietro Lussu parla del “mutettu” di una volta e cita alcuni versi del mitico poeta Efisio Loni come modello di esattezza che diventa il vademecum stilistico dello spettatore. Segue la descrizione della parte sacra della sagra con le brevi sequenze dell’accompagnamento della statua di Sant’Elena sul piazzale della. Appena imbrunisce arrivano gli spettatori alla spicciolata con le sedie portate da casa. Gli appassionati si sistemano vicinissimi al palco e preparano i dispositivi di registrazione. Il tempo dell’attesa lo impiegano per scambiarsi cassette registrate di gare alle quali non sono potuti intervenire.  
Il giallo della “cubertanza”

Uno dei “cantadoris”, il poeta di Sinnai Paolo Zedda, introduce lo spettatore del film all’imminente ascolto spiegando in un’intervista  che un tratto caratteristico della gara poetica campidanese è il mistero: “Come lo svolgimento di un film giallo. Si parte da una rima che nasconde in forma sibillina il senso che è conosciuto solo dal poeta che inizia la gara”. La scaltrezza a cui fa riferimento il titolo consiste, per il poeta che conduce, nel saper esporre un tema nascondendolo abilmente in un’allegoria e, per gli altri poeti sul palco, nel saperlo capire esponendo la soluzione sempre in un linguaggio allegorico.  
 
Questa schermaglia di significati avviene in giri di “mutettus”  che si compongono di due parti chiamate “sterrina” e “cubertanza”: “La cubertanza – spiega Paolo Zedda - serve a discutere dialetticamente con gli altri poeti, quindi ad affrontare un tema centrale, mentre la sterrina è una cornice che si ascolta prima e non ha logicamente nessuna continuità con la cubertanza”. Lo sviluppo della gara viene presentato dai registi Mossa e Trentini in modo che non sfugga allo spettatore profano il senso profondo della performance. Ciò avviene sia con una scelta ragionata delle fasi essenziali dell’intero percorso - dalla chiave nascosta alla sua rivelazione - sia con l’illustrazione del modo in cui, tra le due parti della cantata, avviene la combinazione dei versi che si colorano sullo schermo come nel karaoke. Alla didattica visiva si aggiungono le spiegazioni dei “cantadoris” disseminate lungo il film e i commenti del vecchio poeta Pietro Lussu  che confronta le gare di oggi con quelle del passato.

Sin dalle prime cantate incomincia il gioco interpretativo cui partecipano gli spettatori “competenti”, che provano ad arrivare a capo del mistero, ovvero del tema criptato dal primo poeta,”su fundadori”, che la prende giustamente alla lontana. La sua “cubertanza” afferma, infatti, che “esistono buoni motivi se un regno dura nei secoli”.   Di quale regno si parla? E perché dura nei secoli? Se la sua “cubertanza” è oscura l’ipotesi del secondo poeta è scaltra in quanto temporeggia affermando che “la storia di ogni glorioso regno la fanno le gesta degli eroi degni”. L’unico regno che trionfa sino a questa fase è il regno del nonsense. C’è chi azzarda che si parli del regno sardo, altri allude all’Euro, la moneta europea intesa coma sovrana in un regno.

Cantadores sardiQuesto fraseggio è organizzato secondo un’estetica nota agli spettatori che conoscono la combinatoria dei versi, ne sono gratificati quando li trovano “appropriati” e li criticano quando servono solo per “riempire”. Le inquadrature di Mossa e Trentini raccolgono alcune loro ipotesi interpretative che incominciano ad avvicinarsi alla verità al terzo giro di cantate che è quello canonico in cui un buon conduttore della gara incomincia a fornire indizi utili all’interpretazione sia dei colleghi sul palco che degli spettatori competenti. Fino al quarto giro deve essere bravo su “fundadori” nel fare una costruzione lineare che gradualmente aiuti i competenti a decifrare l’argomento criptato. I poeti riconoscono la funzione degli appassionati e, in un certo senso, cantano per loro, per il loro giudizio e in rispetto della loro competenza. Tale riconoscimento è possibile perché esiste un patto, una regola implicita che vieta la confusione dei ruoli. Lo spettatore competente riconosce la superiorità del poeta professionista e quest’ultimo, a sua volta, riconosce al competente la sagacia tecnica e valutativa nell’analisi della cantata.

Sulle modalità di consumo dei “mutettus” campidanesi è utile la visione di In viaggio per la musica (2004) un documentario di venti minuti realizzato da  Marco Lutzu e Valentina Manconi. Gli autori raccontano la passione e la perseveranza dei signori Macis, marito e moglie,  che da decenni, ogni estate che Dio manda, seguono i tour degli improvvisatori nelle diverse località della Sardegna meridionale. Il signori Macis registrano le gare, ne sanno descrivere le modalità stilistiche, costruiscono monumentali archivi personali, conoscono le regole  del rapporto che si istituisce tra i poeti e gli appassionati.

     Il canto scaltro descrive l’evento festivo nella sua globalità. Il “rito” delle “cantadas”, la composizione dei “mutettus” risultano importanti  quanto le molte altre cose che avvengono sullo sfondo come il rapporto tra città e periferia, la parte sacra del rito, la scelta delle occasioni di svago, gli spazi “moderni” della festa. I giovani appaiono in significativi “a parte” del documentario, assorbiti, all’interno dell’evento della festa, nel semplice e passivo consumo di prodotti “giovanili” in cui sono accomunati la disco-dance, l’autoscontro, la giostra e il cantante pop di turno. Come afferma il vecchio Pietro Lussu in un passaggio precedente  “siamo arrivati a un punto che non si capisce più il nostro parlare”.

     È costante nei poeti e negli appassionati i riferimento al passato  quasi a voler trarre dai mitici “cantadoris” di una volta sia conferme stilistiche che testimonianze prestigiose e allettanti per la sopravvivenza e la continuità di un’arte che ha tutti i titoli per proseguire un suo cammino moderno. Intanto ad assicurare la loro persistenza nella memoria restano le raccolte private, davvero imponenti, che si vedono in questo documentario, come in quello di Lutzu e Manconi,  e che gli appassionato hanno costituito in anni di produttiva frequentazione delle gare .

     Lo sforzo di recupero della tradizione appare, nel documentario di Mossa e Trentini,  affidato a sparute  e residuali avanguardie. Tali appaiono gli spettatori non numerosi della piazza di Quartu e della altre località del Sud Sardegna. Più ottimistiche considerazioni suggerisce, al contrario, la piazza affollatissima di Seneghe, nell’ultima sequenza del film, dedicata ad una gara del Settembre dei poeti del 2008.  Viene da pensare che le tradizioni reggono quanto più ci si allontana dalla dimensione urbana e che probabilmente la dimesione organizzativa di Seneghe, specializzata e  non collocata nello spazio residuale di una sagra, è in grado di richiamare un numeroso pubblico sia regionale che nazionale.

     Nel film di Mossa e Trentini non ci sono i quasi-personaggi che spiccano con la loro toccante umanità come in Furriadroxius il loro primo documentario realizzato nel 2005, e tuttavia nella disposizione corale dei protagonisti e degli avvenimenti spicca un valore base che è la ricerca di senso, che va oltre la semplice ed esatta documentazione dei singoli eventi.

     Ma, come in Furriadroxius, non viene meno quella perspicacia, e perfino raffinatezza di sguardo capace conferire vibrazioni di verità a tutto quanto si muove dentro e intorno all’evento. Risultano preziose e funzionali le scene in cui gli appassionati confluiscono alla spicciolata nella piazza del palco, portando da casa le sedie e sistemandosi in posizioni strategiche secondo che debbano registrare, videoriprendere o semplicemente ascoltare.  O quelle che mostrano alcuni spettatori mentre concordano lo scambio di cassette registrate di gare alle quali non sono stati presenti. Preziosa e bellissima è l’inquadratura di uno spettatore che, collocato davanti al palco, “pela” con un temperino “d’ordinanza” il rivestimento di un cassetta nuova con gli stessi gesti prudenti e precisi con cui si affetta il formaggio o il pane o si sbuccia la frutta.   
Ultimo giro

     Nel montaggio operato dagli autori il film si termina con il vecchio “cantadori” Pietro Lussu che dal palco chiude un’esibizione di cui noi sentiamo soltanto l’annuncio finale: “Ultimo giro”. Su questo annuncio il film è chiuso. Ma non è concluso per la verità. C’è un prolungamento inconsueto che sembra non aver a che fare con l’evento della gara e del canto.

     Come si ricorderà dopo un prologo di tre sequenze e dopo la comparsa del titolo, c’erano state le riprese di un moto-furgoncino che attraversava una strada dell’hinterland. La camera aveva indugiato sul moto furgoncino che veniva ad assumere una sua centralità la cui spiegazione lo spettatore ha creduto di poter dare col fatto che quando si ferma una mano armeggia con un mangianastri sistemato nel cruscotto che diffonde attraverso un altoparlante mutettus campidanesi.

Per tutto il film questa inquadratura è stata acquisita, opportunamente, dallo spettatore come la sottolineatura di uno dei temi (impliciti) affrontati dal film: quello della residualità della diffusione di queste forme della cultura popolare emblematizzata dal canale di diffusione marginale rappresentato proprio dal furgoncino. Allo stesso tempo ha tratteggiato la personalità del venditore come persona affabile, non conformista al punto da preferire il canto sardo ad altri mezzi di richiamo per la sua attività di verduraio.

Che il verduraio abbia una sua particolare importanza lo si intuisce dal numero delle inquadrature che gli sono dedicate o in cui è chiamato in causa con modalità diverse. Si ricordano  la lunga sequenza in cui il furgoncino transita in una strada trafficata, prima di sostare in una strada di periferia cittadina dove il fruttivendolo inserisce la cassetta dei cantadoris e attende l’arrivo delle clienti a cui vende insalata e cocomero con lo sconto.  O quella in cui due donne dichiarano che il canto è roba d’altri tempi e che i giovani d’oggi  “non ci tengono a cantare così come sta cantando il disco che ha quel verduraio”. Infine la sequenza in cui vediamo il furgoncino spuntare da un campo lungo, muoversi sotto un cielo di bandierine tese da un lato all’altro di una strada sino ad occupare l’intera inquadratura per poi uscirne alla sinistra.    
Il giallo dalla “cubertanza” alla vita

     A documentario finito, col “the end” decretato dal “cantadori” Pietro Lussu con la semplice frase “ultimo giro”. L’ultimo giro di quella gara, l’ultimo giro di “manovella” del film ma, non l’ultimo giro del furgoncino che ritorna sullo schermo in una sequenza che è la replica di quella iniziale. Questa volta il suo incedere è accompagnato da una canzone inquietante per il contenuto e per la sua “incongruità” extrafilmica. Parla di un verduraio ambulante, perseguitato dai gendarmi di uno dei centri presenti nelle gare che lo spettatore ha visto, costretto ad un ricovero forzato in un’unità psichiatrica e morto dopo pochi giorni dal ricovero. Questa canzone, che si intitola Il signor Giuseppe,  chiede giustizia per un uomo che è stato “gioia festa e allegria” non in nella forma melica del mutettus, ma comunque in un rap in lingua campidanese.

     Dal film abbiamo appreso che bisogna seguire con attenzione “sa cubertanza”, i versi in cui si nasconde il tema centrale. Ed ecco i versi apparire in un extratesto che compare nel silenzio del fotogramma buio, dopo  i  titoli di coda, dopo il marchio del copyright che sancisce la fine dell’avventura produttiva di un film. Questi versi parlano di “un ridere rauco e ricordi tanti e nemmeno un rimpianto”.  È facile accostare questi versi de Il suonatore Jones di Masters/De André a quelli riferiti al signor Giuseppe della canzone rap.

     Questa narrazione documentaria si conclude, quindi, con l’inizio un altro mistero da sciogliere e con un accumulo di indizi che evocano un fatto di buia cronaca su cui gli autori, evidentemente, chiedono allo spettatore un supplemento di attenzione. È come una sollecitazione a proseguire un processo d’indagine che si rapporta, più che non paia, al contenuto specifico del documentario. Se tale contenuto riguarda il modo di ascoltare e di guardare. 
Powered by CoalaWeb

Accesso utenti e associazioni