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Viaggio nel cuore industriale (e cinematografico) dell'isola

 
''Cattedrali di sabbia'' di Paolo CarboniUna formula giornalistica di successo, ma assolutamente fuorviante, chiama, ancora oggi, “cattedrali nel deserto” gli insediamenti industriali sorti nel centro e nel nord Sardegna allo scopo di assorbire la disoccupazione agricola e di suscitare nel territorio circostante altre “spontanee” iniziative economiche. Il presupposto di questa definizione è che intorno a tali industrie ci sia il nulla assoluto.
I cinegiornali e i documentari  dei primi anni Sessanta mostrano a profusione vaste pianure deserte, punteggiate di rari lentischi e di pecore sperse che vengono poste in antitesi con le strutture ultratecnologiche della nascente industria petrolchimica. La bellezza persuasiva del macchinismo industriale è mobilitata a pieno sguardo come garanzia della sua capacità di produrre sviluppo effettivo e duraturo. Nel documentario di Carlo Fuscagni “Un’altra Sardegna” (1967) belle riprese di stabilimenti industriali, che alternano vedute aeree, campi lunghi e particolari degli stabilimenti da sud a nord della Sardegna, danno l’impressione di un’Isola tutta concentrata sul proprio sviluppo industriale. Le risorse naturali dell’Isola, afferma il commento, non sono soltanto quelle del “mare più trasparente che ci sia” ma anche gli ampi spazi, la posizione geografica e la manodopera disponibile. Migliaia e migliaia di sardi, si assicura, saranno impiegati nei “giganteschi stabilimenti” di Macchiareddu, Portotorres e Ottana.

Deserto di pecore e lentischioLo sforzo, particolarmente insistito nei documentari degli anni cinquanta, di far coesistere la dichiarata staticità delle tradizioni col dinamismo della modernità trova la sua espressione più organica nel documentario di Romolo Marcellini “Civiltà dei pastori” (1969) che con paternalistica pensosità si domanda: “Che cosa dobbiamo farne di questa società pastorale?” La struttura pastorale, risponde, dovrà coesistere accanto alla struttura industriale e potrà assumere un ruolo decisivo “nella storia nuova della Sardegna”.
Tributati gli onori puramente verbali alla civiltà tradizionale, Marcellini gira “Sardegna industria e civiltà” (1969) in cui il progresso si identifica, senza mediazioni, con l’industria e questa con la petrolchimica. Non c’è più traccia dell’approccio culturale alla civiltà dei pastori, ridotta ormai all’attrattiva totemica dei negozi di artigianato tipico lungo la via Roma, ripresa nel traffico indaffarato dell’ora di punta.
 
Sinfonie industrialiLo schema della propaganda mobilita ogni realizzazione che possa dare un’idea moderna della Sardegna. La squadra di calcio di Cagliari, ripresa mentre si allena, conclama l’insidiosa ideologia dello scudetto calcistico come un fatto identitario. Il commento musicale assume le risonanze alacri del lavoro industriale nella descrizione degli impianti della lavorazione della bauxite a Portovesme, “i più potenti in Europa”. Ingannevoli eufemismi chiamano “riequilibrio del settore” l’abbandono delle miniere. Accenni alle industrie di lavorazione “inserite intimamente nel contesto sociale” non sono più che dei tic verbali. “Sardegna industria e civiltà” è il documentario dove più esplicite e nette appaiono le scelte industriali del Piano di rinascita rivolte ad un unico settore, quello della petrolchimica e della chimica di base, che il documentario spaccia come conquista dei sardi che hanno “l’opportunità di provvedere a se stessi”.
Luminarie tra cielo e mareAnche Libero Bizzarri in “Un’isola si industrializza” (1964), si lascia andare all’esaltazione di maniera “dell’eccezionale sviluppo economico dell’Isola dovuto soprattutto all’industrializzazione e al potenziamento dell’agricoltura”. L’industrializzazione della Sardegna è raccontata in “Sardegna sulla rotta del petrolio” (1970), un filmato di propaganda che celebra la costruzione della raffineria di Sarroch. La retorica ampollosa esalta la fiducia nel progresso che porterà ad un “cambiamento delle prospettive economiche della Sardegna”. L’estetizzazione degli impianti usata come persuasione subliminale  sui valori dell’industrializzazione ha una ragguardevole espressione in “L’industrializzazione: il futuro è già incominciato” (1972) del sardo Antonio Cara. Riprese notturne fanno apparire la raffineria come un fantasioso lunapark nel baluginare della distesa marina.
Nelle immagini della suggestiva notte punteggiata di luminarie tra cielo e mare, l’industrializzazione si rivela per quello che è: una pura astrazione accompagnata da una rassicurante musica di carillon.
 
EnergiaNon c’è analisi né ricerca che sfoci in un sincero programma visivo. Il futuro è già terminato. Ma il documentario sardo sembra non rendersene conto.
 Solo con alcune grandi inchieste, realizzate per conto della Rai, tra il 1963 e il 1968, si incominciano a palesare i limiti e le contraddizioni del cammino della rinascita sarda. Ne sono autori Giuseppe Dessì e Libero Bizzarri (“Itinerario nel tempo”, 1963), Luca Pinna (“Sardegna” 1965), Giuseppe Lisi (“Dentro la Sardegna”, 1968). Accanto a queste produzioni, realizzate da una Rai più libera e ricca di professionalità di quanto non lo sia oggi, spicca “L’ultimo pugno di terra” (1964), del sassarese Fiorenzo Serra, che racconta soprattutto gli alti costi sociali e culturali che la Sardegna soffre per uno sviluppo diretto dall’esterno ed estraneo alle sue vocazioni territoriali.
 
Tecnologia avanzatissimaQueste grandi inchieste rimandano l’immagine di una Sardegna stressata, tormentata dal malessere delle zone interne, dall’emigrazione e dalla disoccupazione che convivono bellamente con la modernità di impianti avveniristici che, col tempo, si riveleranno incapaci di dare lavoro.
La società appare scossa, soprattutto nei giovani, dai fermenti della modernità che però non deriva da meccanismi ad essa interni ma dalle suggestione del mercato che importa nuovi modi di pensare insieme ai frigoriferi e ai televisori.
Il documentario di Giuseppe Lisi mostra i magazzini di Piazza Carmine e Viale Trieste pieni di roba. Arriva tutto dal Continente.
 
Il vecchio e il nuovoNon solo sapone liquido e frigoriferi ma persino il formaggio e il grano. Da Cagliari ripartono salari e pensioni insieme ai profitti industriali. La formazione di un capitale sardo sembra impossibile con questo capillare dispendio verso il Continente. Luca Pinna trova motivi di speranza nella cultura e nell’istruzione. Giuseppe Dessì osserva con un certo turbamento lo sviluppo della Costa Smeralda, ma si rassicura pensando “che nessuno può essere così ricco da comprare e nessuno così povero da vendere”  le sue bellezze. E invece l’Isola le sta offrendo in dote a un principe.
 Quarant’anni di “sviluppo”, di mancati correttivi e di penuria di iniziative lungimiranti hanno prodotto un logoramento che è sotto gli occhi di tutti. F
Il Cagliari testimonial del progressoorse il rimedio, non ancora tentato, è che ne parlino i sardi e si provino loro a cercare soluzioni che sopperiscano alla mancanza di fantasia delle classi dirigenti. È per questo motivo che va accolto con soddisfazione e con speranza il documentario di Paolo Carboni “Cattedrali di sabbia” (2010) vincitore, qualche settimana fa, del concorso “Il cinema racconta il lavoro”.  Carboni fa parlare i sardi in un viaggio nel cuore stesso delle crisi più acute della Sardegna. Esse vengono da lontano  e provengono, si può dire, da una incubazione lunga e metodica. Sono quelle di Macchiareddu, Portovesme, Ottana, Portotorres e Macomer. Già nel titolo Carboni incomincia a fare piazza pulita della definizione canonica di “cattedrali nel deserto”.
 
''Cattedrali di sabbia'' di Paolo Carboni: muffaAltro che deserto. Intorno a quelle fabbriche c’erano donne e uomini che avevano terreni, bestie, barche e competenze che, a suo tempo, hanno mollato perché erano stati lusingati da uno sviluppo illimitato, o almeno che li portasse all’età della pensione. Il deserto, semmai, è quello delle fabbriche che si sono esaurite nel breve volgere di un ciclo produttivo. “Cattedrali di sabbia” è una definizione coniata da uno degli operai intervistati che, ancora giovane, valuta, da cassintegrato e futuro disoccupato,  lo sbriciolamento di imponenti infrastrutture industriali insieme alla speranza di migliaia di persone. Le cinque tappe del viaggio di Carboni non intendono semplicemente ripetere concetti ormai ampiamente risaputi: che lo sviluppo era drogato, che sono state fate promesse non mantenute, che si sono sperperate ingenti risorse finanziarie, che la classe dirigente si è dimostrata inadeguata.
 
''Cattedrali di sabbia'' di Paolo Carboni: il nuovo desertoL’interesse del regista è rivolto a ciò che non si sa: come si svolge la vita delle persone che sono state protagoniste e vittime di quello sviluppo; come si sono organizzati per affrontare il drammatico cambiamento di vita da operai e tecnici con uno stipendio sicuro a cassintegrati e disoccupati; quali suggerimenti si sentono di dare per sé e per le migliaia di persone come loro, in definitiva per il futuro sviluppo della Sardegna.
Incanta e sorprende l’ottimismo  e la vitalità che le persone esprimono, nei gesti, nelle fisionomie, nelle azioni concrete riuscendo a offrirsi alla macchina da presa come personaggi dotati di credibilità e carisma. Solo per questo varrebbe la pena di vederlo questo documentario. Ma “Cattedrali di sabbia” è soprattutto un documentario bello, intenso, molto “cinematografico”.
 
''Cattedrali di sabbia'' di Paolo Carboni: imprenditore licenziatoCi ripromettiamo di parlarne più analiticamente in un prossimo articolo. Vale la pena, intanto, di sottolineare un elemento di grande interesse. Il film di Carboni ha un sottotitolo che recita: “Cronache apocrife di un sogno industriale”. Secondo il dizionario Zanichelli apocrifo “è detto di libro non riconosciuto come canonico nelle religioni che hanno stabilito un canone delle Scritture rivelate”. È quasi una dichiarazione di poetica da parte del regista. Implica modalità lontane dai canoni politici e sindacali e dalle immagini televisive.
Questa volta parlano i protagonisti. E dovrebbe rispondere il pubblico che lo vedrà, si spera, numeroso.
 
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