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"Centochiodi" di Ermanno Olmi

di Antonangelo Liori

Il film inizia. E dietro di noi è vuoto e silenzio. Come vuota e silenziosa è la vita che viviamo tutti i giorni. Fatta di cose scritte e di documenti, di vanità e indecisione, di false visioni e inutili farse. Tutto, ciò che siamo noi e ciò che è dentro di noi, si dissolve nelle immagini di quel professore – giovane e bello, ricco e vincente- che inchioda i libri sul pavimento, trasformandoli nel sacrificio di Gesù. Un Gesù ucciso e incompreso, metafora di ogni conoscenza, crocifisso sulla croce dell’incomprensione.

L’ultimo film di Ermanno Olmi – ultimo in ordine di tempo ma anche come progetto di lavoro, visto che l’autore ha dichiarato che da oggi filmerà solo la gente fra la gente con la mano del documentarista – chiude la sua parabola artistica andando a cercare nel cuore delle cose la figura del Cristo.

Mai film è stato più complesso, difficile, sofferto. Tanto sofferto da essere di fatto incompiuto, perché parla e racconta di un viaggio non finito, di una ricerca mai spenta.
A leggere le critiche su questo straordinario capolavoro si resta sorpresi. Si va dall’ovazione al dileggio. Famiglia cristiana ne fa il paladino della nuova Chiesa e la Repubblica di Eugenio Scalfari il vellissifero dei Dico. Credo che nessuna di queste due posizioni sia corretta e suppongo che Olmi irrida all’una interpretazione quanto all’altro. Di ben altro livello è il suo dolore, la sua terribile ricerca interiore.
Quel Cristo che tutto sa, che tutto ha visto inchioda al pavimento il sapere dei suoi antenati, così come lo stesso Olmi intende appendere all’ombra dei salici per voto la cetra del profeta che accompagnò col suo canto l’esilio babilonese. Infatti non si può cantare – né fare film – col piede straniero sopra il cuore. Quel piede straniero che viene rappresentato non da un altro da sé, non da un invasore esterno, ma dalla nostra stessa ingordigia, dalla nostra avidità, dalla nostra cecità, dalla nostra ignominia.
E quei libri – amati, dolorosamente ed intensamente amati da Olmi-Degan, dal protagonista filosofo – sono l’apoteosi di Gesù, ne rappresentano oggi il sacrificio, perché il sapere è diventato dolore, la conoscenza sopraffazione.  Quei libri che servivano a dare la luce oggi sono usati per la sopraffazione del potente nei confronti della gente comune.
Il messaggio di Olmi è complesso, difficile. Perché il professore del suo film distrugge il suo sapere per tornare al luogo delle origini, il Po dello stesso Olmi, ma anche il simbolo dell’acqua, cioè di un nuovo battesimo dentro quell’acqua che fu pura e ora è stata avvelenata da una controversa modernità.
Centochiodi non è solo un film. È un gioco di rimandi, di metafore che si incrociano e si inseguono. Banalizzarlo estrapolandone poche frasi è sciocco, riduttivo. Si citano Fellini e Bergman, Kurosawa e Visconti. Ma si cita Jasper e San Tommaso, Sant’Agostino e Averroe. Perché questo film è un insieme di film, una cineteca intera, un’intera biblioteca: la summa di ciò che Olmi è, di ciò che sa, ma anche forse di ciò che sarebbe voluto essere. Ed è un continuo incrociarsi di diverse visioni, di essenze mirabili. E dietro ciascuna di quelle visioni, di quelle essenze, ci siamo noi spettatori, muti testimoni del nulla che ci sovrasta.
C’è un dialogo nel film molto significativo a tal proposito, durante il quale il Professorino dice al Monsignore "Lei ha amato i libri più degli uomini e i libri possono servire qualsiasi padrone". E qui tutto si complica. Perché si comprende la vera essenza di quest’opera immensa e sublime.
Il professore – un Raz Degan ben al di sotto del film, ma forse Olmi ha scelto un attore non bravissimo, certamente meno bravo dei non professionisti che hanno recitato da attori veri.  per mostrare come tutto sia vanità e finzione-  non brucia i libri ma li crocifigge.
E questi libri amati non vengono dati al rogo, ma crocifissi essi stessi, fissati per sempre sul calvario del nostro sentire. Senza pace e senza sereno. Come un San Francesco matto che ripudia i suoi genitori. Ma per salvarli.