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Il linguaggio "bastardo": dialogo sul documentario con Paolo Carboni

di Salvatore Pinna

''Cattedrali di sabbia''ALL'INTERNO IL TRAILER DEL DOCUMENTARIO
Pur vantando una pluriennale esperienza in campo audiovisivo  Paolo Carboni si è conquistato solo di recente una meritata notorietà come regista. Tra i suoi corti ricordiamo “Sa Contra” che gli è valso un terzo posto al concorso Cagliari in corto del 2000, “La preda”(2003) e “Il bastardino” (2005), e documentari come “Centottantacinque giorni” (2006) e “Curraggia" (2007). 
Le sue prove più convincenti sono venute con “Circolare notturna” e “Cattedrali di sabbia” che si sono classificati al primo posto nelle due edizioni del concorso “Il cinema racconta il lavoro”. “Cattedrali di sabbia”, in particolare, è, come ha osservato Elisabetta Randaccio “un’opera inusuale nella filmografia del regista” per l’incisività e il coraggio con cui pone mano ad uno dei temi più scottanti della condizione sociale della Sardegna di oggi: la sorte delle migliaia di cassintegrati e disoccupati delle fabbriche di Macchiareddu, Portovesme, Ottana, Macomer e Portotorres.    
Cattedrali di sabbia è un racconto-viaggio che procede a blocchi, con dei “neri” che chiudono un blocco e ne iniziano un altro. E tuttavia è un film corale.  
Effettivamente c’è uno sviluppo nelle cinque storie riconducibile ad un tema di fondo. Che lo sviluppo industriale era drogato, che si sono fatte promesse non mantenute è risaputo, ma ciò che non si sa è la vita delle persone che sono state protagoniste e vittime di quello sviluppo, come si sono organizzati per affrontare il drammatico cambiamento di vita da operai con uno stipendio e un futuro a cassintegrati e disoccupati. E anche quali punti di vista hanno maturato.  
 
''Cattedrali di sabbia''Sarebbe riduttivo dire che il film è riuscito perché  i contenuti sono “giusti”. C’è una grande forza narrativa nel montaggio, e una cura delle inquadrature che, pur pescando da un repertorio di immagini molto belle, vanno sempre al cuore del problema e non permettono distrazioni estetizzanti.  
Io nasco come operatore di ripresa di telegiornali, quindi provengo da un linguaggio molto “bastardo” che è quello della televisione. Però questo andare a vedere le cose in prima persona e con un occhio più legato alle immagini, mi ha dato la possibilità di vedere la realtà in maniera diversa dal giornalismo canonico che ha sempre bisogno del clamore e dell’effetto che finiscono per oscurare il vero senso delle cose. Una crisi industriale, da un punto di vista giornalistico, non verrà mai trattata come io l’ho trattata in “Cattedrale di sabbia” perché… non è un linguaggio che va bene alla politica, non è un linguaggio che va bene ai sindacati, non è un linguaggio che va bene agli operai che si nutrono di politica e di sindacati. E quindi non è un linguaggio che può andare in televisione.  
 
''Cattedrali di sabbia''Infatti le inquadrature sono accurate, come se gli oggetti della realtà volessero dare il meglio di sé, che a volte è il peggio…  
Per quanto è possibile io cerco di star dietro a quelli che sono piccoli accorgimenti naturalmente dentro i limiti di un cinema a bassissimo costo. Certe inquadrature le ho girate con delle fotocamere in time Life che sono assimilabili al concetto di cinepresa più che di telecamera. Quindi hai la possibilità di usare delle ottiche che sono vicine alle focali che ci sono nel cinema. Ad esempio tutti quegli edifici industriali ripresi dal basso sono ripresi con questa fotocamera e dei grandangoli fotografici molto aperti che non distorcono. Uso una fotografia molto essenziale e spartana perché ovviamente giro da solo. Dalla mia ho anni di esperienza come operatore di ripresa quindi conosco lo strumento e ho una consapevolezza delle luci. Cerco ovviamente di curare un po’ l’inquadratura, renderla gradevole nella composizione d’immagine e nei contenuti. Il bacino dei fanghi rossi, detriti della lavorazione della bauxite, è “bello” da un punto di vista strettamente cromatico, ma appare per quello che è: una bomba ecologica.  C’è un’inquadratura  larga, poi un totale dei bacini rossi, poi l’inquadratura si stringe a mostrare questa specie di blob di un rosso vivo che è molto estetico ma di un estetica inquietante e surreale. Quando l’inquadratura dall’alto si allarga al massimo si vede un insieme grottesco dove c’è mischiato tutto: il bello del mare, la ferita al centro del territorio, la fabbrica e le colline coltivate. È come un cancro che ti spunta dalla terra.
 
''Cattedrali di sabbia''Nel film si affaccia l’idea di una strada diversa per lo sviluppo, magari basata sulle risorse locali, ma  l’idea del recupero ambientale è vista con molto pessimismo rispetto ai tempi di smaltimento di tutto il veleno sparso, nell’acqua, nel terreno e nell’aria.  
Nessuno può dire che cosa sia possibile fare realmente oltre la certezza che si sono creati dei disastri. L’operaio di Portoscuso che pensa che bisogna chiudere con l’esperienza dell’industrializzazione riconosce: “se io fossi uno che sente me stesso dire queste cose gli direi ma che cosa stai dicendo?”.  
L’aspetto centrale del film è il fatto che queste persone stanno configurando un modo diverso di ragionare e di pensare il futuro.  
Non si tratta di persone che si piangono addosso. Anzi si propongono con ironia e con una consapevolezza diversa e anche orgogliosa, come l’ex operaio di Ottana che parla con ammirazione del talento di suo figlio nel fare il pastore.  
 
''Cattedrali di sabbia''La colonna musicale è decisiva per dare il tono “morale” del film.  
C’è una musica composita. A volte è spettrale, a volte evoca i rumori della fabbrica, ma dà anche la sensazione di un viaggio pieno di scoperte positive e di ottimismo. Viene fuori la mia passione per il blues perché io trovo il paesaggio della Sardegna molto blues come sonorità. Più che le launeddas io ci sento una chitarra da sola che suona, che fa degli arpeggi che ricordano un po’ la cultura musicale presa dal basso che poi è uguale dappertutto, in ogni parte del mondo. Le tappe del viaggio sono contrassegnate da una musica molto “on the road” perché è un film completamente girato in movimento dove il viaggio, il muoversi è anche psicologico. Le musiche esprimono l’esatta sensazione che si prova quando si vede un paesaggio di un tipo o di un altro.  
Quanto c’è di autobiografico in questa vena di questa sorta di vagabondaggio positivo?  
C’è molto di me stesso del mio modo di pensare. Anche quando le cose sono negative io credo che ci sia sempre una chiave di lettura positiva. Sia “Circolare notturna” che “Cattedrali di sabbia” dicono che  c’è una soluzione a tutto e la soluzione siamo noi e la dobbiamo trovare dentro noi stessi.  In “Cattedrali di sabbia” c’è qualcosa di più: la soluzione è in quello che noi siamo stati e che siamo malgrado ci facciano intendere che non lo siamo stati o che non lo siamo più.   
 
''Cattedrali di sabbia''Come avviene la scelta delle persone da intervistare? 
È un lavoro faticosissimo perché quando si scrive il documentario non si ha idea di che cosa si troverà. Il personaggio viene fuori dopo, di solito è semplicemente quello che ha maggiore disinvoltura nell’esprimersi e che ha un mondo personale in grado di rispecchiare quello di molte altre persone. Ed infatti è frequente nelle persone intervistate in “Cattedrali di sabbia” il riferimento a tutti coloro che non sono presenti ma hanno gli stessi loro problemi e lo stesso modo di sentirli intimamente. 
Che tipo di “protagonisti” cercavi? 
Staccati dal mondo industriale, con un passato più o meno lungo di lavoro in fabbrica, con esperienze professionali e competenze anteriori a quelle della fabbrica e che stessero tentando strade diverse di auto impiego. Poi ho scoperto che queste idee non erano mai fughe personali ma possibili indicazioni di un nuovo sviluppo per molti. 
Il film finisce con una breve animazione in cui il paesaggio subisce un “ritocco” che fa svanire le torri e gli stabilimenti: nell’inquadratura così depurata spicca un albero curvato dal vento ma solido. 
Quella breve animazione ho voluto metterla quasi fosse un augurio: quando crolla tutto, quando ci crolla tutto quello che avevamo costruito più o meno bene, con più o meno consapevolezza di ciò che stavamo facendo, l’unica cosa che resta è ciò che siamo noi veramente. Quell’albero piegato dal vento racconta di un popolo che resiste e che resisterà anche a questo. Che andrà avanti malgrado tutto. 
 
''Cattedrali di sabbia''Tutti i registi subiscono il fascino della pellicola, è anche il suo caso?  
Non è un’esigenza del momento. Oggi ci sono delle cineprese digitali, tipo la RED, che danno risultati eccezionali e che quasi soppiantano il super 16 mm. Quanto ai risultati ogni film ha il suo strumento giusto per essere realizzato. Un documentario d’inchiesta è inutile che lo fai con cineprese. Il documentario deve essere sporco, duro, veloce e avere la possibilità di acchiappare le cose così come ti arrivano. Non puoi fermare la realtà perché devi piazzare una camera, mettere due luci, dire a uno come stare fermo e come muoversi. Più devi stare vicino alla realtà più devi utilizzare degli strumenti che sono di utilizzo immediato. Anche a discapito di una certa qualità. Certo mi piacerebbe fare il prossimo lavoro con una troupe, una cinepresa digitale e girare con tranquillità. Perché lavorare da soli è vero che ti fa dire “caspita ce l’ho fatta”, però è anche tanta fatica a volte inutile. 
 
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