Stampa

C'è Dessì dietro la cinepresa

L'autore di "Paese d'ombre" protagonista a Cagliari della rassegna cinematografica "Immagini e narrazioni". Incontri, proiezioni, reading e seminari in occasione dei 101 anni dalla nascita del Proust sardo. di Salvatore Pinna
 
Nella riflessione che coinvolse molti intellettuali sulle prospettive del Piano di rinascita lo scrittore Giuseppe Dessì inserisce la sua voce di sardo autorevole, che può permettersi di mostrare con affettuosa severità le discrepanze esistenti nel tessuto civile della Sardegna, e non teme di esprimere, sia pure con rispetto e dignità, un severo giudizio su aspetti della tradizione che frenano, oggettivamente, lo sviluppo moderno di cui l’Isola ha bisogno. In "La Sardegna, un itinerario nel tempo" (1963), un documentario-inchiesta in forma di viaggio realizzato con la regia di Libero Bizzarri, il futuro autore di "Paese d’Ombre" conduce lo spettatore attraverso gli universi lontani e antitetici di cui è composto quel paradosso vivente che è la Sardegna di quegli anni in cui coesistono tracce di medioevo e pezzi modernità. In essa convivono città come Cagliari, prima tappa del suo itinerario, in cui la modernità è entrata di prepotenza nei suoi grandi palazzi e negli stili di vita delle persone e piccoli centri di disperante povertà e arretratezza. Paesi abbandonati e privi dei servizi essenziali conducono una vita stentata a pochi chilometri dalle imponenti dighe che imbrigliano l’acqua e dovrebbero dare benessere alle campagne. Avveniristici stabilimenti industriali, come quelli della petrolchimica, vivono nella stessa Isola dove i baroni feudali dominano i pescosi stagni di Cabras. È una Sardegna in preda ad agitazioni e irrequietezze quella che egli incontra e che non si perita di mostrare. Non ci sono segni di rinascita a Carbonia, che soffre un dura crisi causata dalla concorrenza del carbone d’importazione. Non ce ne sono nel bacino metallifero dove i minatori difendono con dure lotte il posto di lavoro minacciato dall’esaurimento dei filoni.
 
Giuseppe DessìIn Barbagia, ma soprattutto ad Orgosolo, che è un laboratorio vivente dei mali di cui soffre l’Isola, si concentra la quasi totalità delle notazioni negative di Itinerario nel tempo. Dessì comprende la difficile condizione di vita dei pastori, tuttavia prende severamente le distanze da quel mondo chiuso, dalle leggi arcaiche che lo governano e che sono il vero freno allo sviluppo moderno della Sardegna. Quando la macchina da presa inquadra i vecchi che sul sagrato della chiesa giocano a carte, personificazioni dell’immobilità della tradizione, l’osservazione di Dessì è perentoria. “Questi vecchietti certamente la sanno lunga. Sono depositari di segreti conturbanti. Sono gli archivisti di Orgosolo. Sul loro silenzio si regge l’equilibrio di questo piccolo mondo e loro ne sono consapevoli.” Egli vede in questi vecchi una decadenza che non è soltanto quella dell’età. Crede, o spera, che non sono più considerati degli eroi e che non hanno più l’ammirazione dei giovani, certo non di quelli che in una scuola professionale di Orgosolo intervista mentre studiano per diventare dei tecnici meccanici.
L’ultima tappa del viaggio, nel nord del paese, contiene la maggior quantità di indizi di progresso come nella zona della Nurra, tra Sassari e il mare, dove è in pieno svolgimento la bonifica dell’Etfas. Dessì affida alla testimonianza delle immagini la dimostrazione della trasformazione di una distesa di pietroni e di macchia selvatica in terreno produttivo. Bei campi lunghi danno un’idea generale del paesaggio. Lunghi zoom “rintracciano” un trattore cingolato che smuove le zolle con i vomeri mentre un potente bulldozer che sposta enormi macigni e spiana il terreno. Una “discreta” distanza della macchina da presa consente di vedere gli uomini che frantumano le pietre che le macchine hanno spostato. A Dessì sta a cuore rimarcare, insieme al lavoro della macchine, la fatica dell’uomo perché tutto il suo ragionamento è centrato sull’uomo come risorsa fondamentale su cui fare leva. L’attività degli uomini ha reso possibile la nascita in una zona vicina di un allevamento modello dove basta premere un bottone per riempie le mangiatoie “automaticamente”, e dove “un solo addetto può accudire a 160 capi vaccini”.
 
Scenari della BarbagiaL’entusiasmo per l’automazione è giustificato perché dà sviluppo e forza al lavoro umano, dell’uomo sardo, e perché rimarca nettamente il passaggio dal vecchio al nuovo. La Sir di Portotorres è descritta minutamente nei suoi macchinari e nella sua linea produttiva. La stessa imponenza e modernità degli impianti fa fede sul fatto che le promesse saranno mantenute. Il ciclo produttivo da un grezzo di nafta ai filati, alle gomme delle auto, ai coloranti: tutto “fa comprendere la linea di possibile sviluppo delle industrie medie  e piccole che sono il risultato terminale del processo di industrializzazione”, dice Dessì. Mentre la cinepresa inquadra operai a lavoro su altissime torri è con orgoglio che il commento afferma che: “questi che vediamo manovrare a sessanta metri d’altezza non soffrono certo di vertigini… Sono ex marinai di Portotorres assunti dalla direzione dei cantieri proprio per queste attitudini professionali. Fanno parte del primo nucleo di operai della Sir che comprende anche ex agricoltori, artigiani, che non sono stati costretti a cercare lavoro altrove come la maggior parte dei giovani sardi”. I quali, sottolinea il commento, con legittimo compiacimento: “si sono impadroniti in breve tempo di queste tecniche sino a ieri per loro sconosciute”. Lo stesso commento assicura che “Il numero degli operai occupati crescerà ancora… Già si lavora alla costruzione di altri impianti”.
Con l’esperienza di oggi sappiamo, lo sappiamo drammaticamente, che le cose non sono andate così. Ma diciamolo chiaramente: poteva Dessì, potevamo noi, dubitare che tutto questo non fosse un bene? Che cosa poteva metterci sull’avviso se avevamo fame, se conquistavamo dignità nel lavoro e nell’organizzazione sindacale…? Era forse meglio patire in campagna, essere inseguiti in montagna dai carabinieri o da vendette dimenticate, essere perseguitati dalle nostre stesse paure e dai nostri difetti? Era meglio subire le umiliazioni insopportabile dei baroni e dei palamitai di Cabras? Il disegno era chiaro, lo poteva tracciare anche un bambino: qui e qui e qui le industrie di base, centri di produzione e di propulsione. Lì e lì e ancora lì le medie e piccole industrie che lavorano i materiali prodotti dalle prime o offrono loro servizi. Insomma tutto funzionava  a pennello sulla carta. Tutti avevano, avevamo, un atteggiamento fiducioso, talvolta fideistico, nell’industrializzazione come opzione secca per la modernizzazione della Sardegna. Lo pensavano i governi nazionali, il fondo monetario internazionale e le altre agenzie internazionali per lo sviluppo.
 
Giuseppe DessìPoteva forse la Sardegna scegliere essa su quali settori puntare? No che non era in grado. E non solo per la scarsa cultura industriale e politica dei suoi governanti. Per scegliere bisogna dare. E cosa avevamo noi da dare? “Solamente” spazi, spazi vuoti a non finire, spazi che l’Europa continentale aveva esaurito. Spazi, soprattutto, sulle coste per facilitare il flusso dei trasporti marittimi di materie prime. Quindi disponibilità massima ad essere inquinati, una specie di tolleranza mille. Bisognava vedere gli uffici dell’emigrazione, nei documentari di Fiorenzo Serra e di Luca Pinna per capire che quelle industrie di base erano le meno adatte a indurre le famose iniziative a valle. Ma potevamo resistere alla visione di grandi capannoni pieni di moduli di montaggio? Potevamo non entusiasmarci nel vedere “operai sardi” manovrare con disinvoltura sui quadri di comando di macchine sofisticate e sentire che “i sardi si adattano con estrema facilità se li porti fuori dal loro ambiente. Incantava persino una parvenza di allevamento razionale, nelle misere campagne sarde, dove i bovini si mostravano agli obiettivi felici di esser allevati metà alla sarda e metà all’americana, indifferenti al fatto che quella razionalità consentiva ad un addetto di gestire 160 vacche e, quindi, creava disoccupazione ed emigrazione. Laddove c’è modernità e investimento culturale in nuove capacità professionali dei sardi, si concentra l’attenzione onesta di Dessì in un documentario ricco di informazioni e di  conoscenza vera dove il retaggio della tradizione è oggetto di giudizi severi quando è frenante, ma è considerata positivamente laddove non ostacola una più moderna formazione della ricchezza e una più accettabile dimensione umana.
In Itinerario nel tempo ha un grande rilievo la musica, di Egisto Macchi. Essa racconta con i suoi specifici strumenti le cose che la macchina da presa inquadra, ma da un altro punto di vista. Talvolta integra ciò che non può essere detto dalle immagini. Il tema iniziale del documentario, con il quale iniziano le tre puntate, fa pensare ad  un  (volutamente ambiguo e problematico) idillio campestre. Lo stesso tema è usato tutte le volte in cui viene descritta la campagna, o meglio il lavoro agricolo e le dighe. La campagna in quanto luogo di vita dei pastori ha tutt’altro tema. È un sospeso e interrogativo vibrato di violino che si alterna con suoni dei tasti gravi del pianoforte. Le tre piste – immagine, commento parlato, musica – cooperano a creare una tessitura narrativa e a mantenere il racconto sul filo di un interesse che talvolta è vera e propria suspense, curiosità per la problematicità delle situazioni presentate.
Dessì  desiderava lavorare per il cinema e aveva, come scrisse, “molto fantasticato di documentari sulla Sardegna”. Soprattutto di documentari. “Se fossi ricco vorrei, per mio conto, fare un esperimento. Ma soltanto la possibilità di impiegare a mio modo i mezzi cinematografici, mi darebbe modo di esprimere ciò che sento cinematograficamente della Sardegna. Bisognerebbe che dei bravi documentaristi lavorassero la Sardegna prima che continuino a rovinarla i registi improvvisati che la considerano come un facile diversivo”. 
 
19 maggio 2010