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Piredda, da Badesi al Kosovo

Incontro col vincitore del concorso "Storie di emigrati sardi" che ha conquistato il pubblico con "Io Sono Qui", un cortometraggio di venti minuti che per complessità di produzione e realizzazione gli ha praticamente cambiato la vita. Il plauso di Salvatore Mereu: "E' nato un regista". di Salvatore Pinna

Il setMario Piredda è un trentenne originario di Badesi in provincia di Sassari. Laurea al Dams di Bologna, ed esperienze come regista free-lance, operatore e montatore video nonché co-fondatore della la prima televisione di strada italiana che ha dato vita al fenomeno delle Telestreet. Nel 2005 ha vinto il concorso “AVISA” Antropologia Visuale in Sardegna promosso dall’ISRE e ha girato “Il Suono Della Miniera” un corto di 12 minuti. Con la casa di produzione, Elenfant Film, di cui è socio, ha realizzato “Io Sono Qui” (2010) vincitore del concorso “Storie di Emigrati Sardi”. Il corto narra la storia di un giovane sardo in cerca di lavoro che si arruola e parte come volontario in Kosovo. Inseguendo il sogno di un futuro migliore  incontra la  malattia causata dall’uranio impoverito.  Come molti giovani cineasti sardi, arriva alla regia con un bagaglio tecnico accumulato sia nel campo della ripresa che del montaggio.  

"Il primo approccio con questo lavoro è iniziato dal montaggio, credo la migliore palestra per poter imparare ad unire due inquadrature e sviluppare un discorso filmico rispettando la punteggiatura. Questo credo mi abbia aiutato molto anche se spesso è un limite alla fantasia e alla sperimentazione. Mi capita infatti di trovarmi a perdere del tempo con i raccordi, se l’attore sta guardando nel verso giusto, o se la velocità del cameracar è uguale all’inquadratura precedente trascurando l’istinto, la casualità e la magia del momento che spesso sono più importanti. Su queste cose sono troppo rigido e pignolo. Dovrei rilassarmi. Puoi avere tutto il talento che vuoi ma il cinema è un mestiere e qualcuno te lo deve insegnare. Se non hai la possibilità e la fortuna di frequentare qualche ottima scuola devi “rubare”. Quando inizi sui primi set come runner, assistente, devi tenere l’occhio puntato su ciò che ti interessa, rischiando spesso di venire cacciato".

Sul setPer “Il suono della miniera” ha lavorato in 16 mm, cioè con un formato quasi professionale. Come si è sei trovato?
“Il suono della miniera” è stata un’occasione unica; mi è stata data l’opportunità di confrontarmi seriamente con una troupe e mettermi alla prova su una sceneggiatura che, solo dopo aver vinto il premio al concorso AVISA, ho capito quanto fosse difficile da realizzare. Dovevo ricostruire uno spazio/tempo (gli anni '20), con scenografie, ambientazioni, costumi e  un modo di vivere che avevo solamente idealizzato in altri film e nei libri.
E’ stato un massacro, c’era un problema al giorno, il cortometraggio era stato ribattezzato Lost in Montevecchio, ricordando Lost in La Mancha di Terry Gilliam.
L’idea di girare in pellicola è nata insieme al direttore della fotografia Antonio Veracini. Mi disse in un toscano stretto: - Mario un tu li trovi dei soldi per girare in pelliola? Un ti capiterà più! –
Ricordo che la pellicola arrivò  a Montevecchio ma il corriere non trovando nessuno la riportò  indietro e la cercai per giorni in tutto il Campidano.
Comprammo 15 rulli di 16mm, costava troppo e di più non potevamo permetterci. Sul set al terzo ciak purtroppo ti dovevi accontentare, se finisce la pellicola e ti trovi in un posto sperduto nelle miniere di Montevecchio puoi anche mandare tutti a casa. Questo comporta che non puoi girare tanto, sperimentare, rubare immagini o fare dei recuperi. Il risultato è un cortometraggio molto classico dal punto di vista grammaticale e strutturale, un buon esercizio ma non un lavoro da far girare nei festival, forse è per questo che non ho nemmeno provato a distribuirlo. Oggi, a distanza di 5 anni sono felice di averci provato, ma non lo rifarei, o meglio sono un po’ più maturo per capire che in determinate condizioni è meglio rimandare.

Come è stato girato “Io sono qui”?
L’ho scritto insieme ad un’altra sceneggiatrice Carola Maspes e al montaggio mi autocacciavo: l’autarchia non aiuta in questo lavoro. Per quanto riguarda il formato è girato in digitale: abbiamo usato la Red a 4k con ottiche cinematografiche senza risparmiarci. Una camera paragonabile ad una 35 ma con il vantaggio che il materiale lo rivedi subito senza aspettare il telecinema e puoi girare tanto. La prima stesura del corto in montaggio arrivava a quasi 40 minuti. Purtroppo un cortometraggio sopra i venti minuti è già lungo, e ti limita nella distribuzione per cui ho dovuto sacrificare un po’ di scene. All’inizio è stata dura tagliare, poi mi sono abituato.

Sul setÈ chiaro che ad un regista bisogna chiedere soltanto di  fare dei buoni film. Resta il fatto che in Sardegna il tema dell’identità, del riconoscersi attraverso le immagini cinematografiche, è molto sentito. C’è anche una certa diffidenza per gli sguardi “esterni”.
Lontano dalla Sardegna inizia a maturare quel senso di appartenenza alla tua terra, quella sorta di “effetto elastico del cordone ombelicale”, come se ad un certo punto, quando te ne sei andato, sei “scappato” dal paese e dalle dinamiche rurali, qualcosa inizia a tirare e a riportarti sull’isola. Le spiagge e i paesaggi sono bellissimi e tu non te n’eri mai accorto, il cibo è più buono e non ci avevi fatto caso, persino le persone che prima ti annoiavano ora sono interessanti. Come se guardando le cose da una certa distanza ne apprezzassi veramente l’essenza, la qualità. Questo sguardo dall’esterno credo sia utile e funzionale al raccontare, al descrivere. Può anche venirne fuori  uno sguardo deformante, ma questo per me non è un difetto, specie se deformazione è ri-creazione.  

Un certa “ricreazione” dei nostri caratteri identitari forse è salutare a parte il fatto che non esiste un’identità unica…
Infatti. Non sono molto in sintonia con chi dice che il cinema deve raccontare sempre la verità e rappresentare in modo corretto un popolo, senza deformarne i caratteri culturali, altrimenti molti generi cinematografici non esisterebbero. Poi a mio avviso il sentirsi o no rappresentati sul grande schermo è soggettivo. Qualcuno a Cagliari dopo la proiezione mi ha detto: “è strano il vostro dialetto, sembra siciliano o calabrese…”. La Sardegna è grande e diversa. Io sono nato sul mare in Gallura e vivo la mia “sardità” in modo differente rispetto ad uno che è nato e vissuto in città a Cagliari o in un paese dell’interno.
Credo che esistano buoni film o cattivi film al di la della loro capacità di rispettare i canoni estetici e i comportamenti sociali di una realtà. Affascinato da “Ballo a tre passi” di Salvatore Mereu per tre volte in una settimana andai al cinema a vederlo. All’uscita c’era sempre qualcuno che si lamentava in quanto sardo di non sentirsi rappresentato dai personaggi. Un signore disse: “non siamo mica nella preistoria… mi vuoi far credere che ci sono ancora persone che non sanno scoparsi una donna, così si rovina l’immagine della Sardegna” o qualcosa del genere…

Sul setIn “Io sono qui” l’idea di assimilare i soldati in missione all’estero agli emigrati è efficace anche se può sembrare provocatoria e dissacrante. 
L’arruolamento volontario è un tipo di emigrazione dalla mia generazione. Ne ho sentiti molti come il protagonista Giovanni dire: “Almeno lì 3 milioni al mese me li danno”. L’altro tema importante è quello delle contaminazioni da materiale radioattivo che ha causato centinaia di morti e migliaia di malati che però non fanno notizia. Già in sceneggiatura insieme a Carola Maspes abbiamo cercato di raccontare questa vicenda con leggerezza, evitando un discorso politico o di denuncia, più adatto ad un documentario di inchiesta, concentrandoci sugli aspetti umani e provando a raccontare per immagini l’amicizia e la mancanza, veri temi del cortometraggio.

Aldilà  dei contenuti espliciti nel suo corto opera la qualità essenziale del cinema che è quella di fabbricare emozioni.  
Cerco di lavorare per esclusione e per sottrazione o almeno ci provo. La sfida è quella di emozionare riuscendo a mostrare il dramma senza farlo vedere. Quando vado al cinema non voglio che il film mi racconti tutto, mi piace che siano alcuni elementi visivi a darmi degli input affinché io possa ricostruire il mio film e le inquadrature mancanti.
Nel suono della miniera ci ho provato con il fuori campo della sirena, in “Io sono qui” con l’amico solo al biliardino. Se avessi avuto un po’ più coraggio avrei potuto togliere in montaggio anche carrello del funerale. La paura è che il film non si capisca allora ci vai cauto.
Soprattutto quando percorri la strada del montaggio alternato, rischi di creare troppa confusione. Per “Io sono qui” per esempio in 20 minuti devi gestire, 4 attori, 2 luoghi lontani come la Sardegna e il Kosovo e il tempo in cui si sviluppa la storia. Non è stato facile, se poi dai retta a tutto quello che ti passa in testa… rischi di fare un minestrone. In realtà ho molto rispetto della sceneggiatura, della storia e soprattutto di chi lo guarderà.

Sul setIl tema della morte, presente in “Il suono della miniera ritorna” anche in “Io sono qui”.  Anzi è, si può dire, il tema centrale insieme a quello dell’amicizia. È un caso?
Il ritorno del tema della morte è un caso, anche se è un argomento che mi attrae. Fin da piccolo ho sempre avuto un’attrazione verso quei film che trattano la mancanza, il vuoto, e descrivono i comportamenti di chi rimane, siano essi drammatici che comici, purché lascino un filo di speranza. Per speranza non intendo necessariamente un lieto fine, ma qualcosa che ti permetta di guardare lontano, l’orizzonte. Per questo l’uso dei movimenti di macchina a scoprire il mare, o l’omino del biliardino che pur rappresentando la morte, nell’acqua, col movimento, riprende vita.
Ho cercato di dare al cortometraggio  un taglio di  regia diverso in Kosovo rispetto alla Sardegna per una serie di motivi. In Sardegna per cercare di sottolineare il senso di un tempo fermo, quasi morto. Tutto è più pulito, i movimenti sono fluidi rispetto al Kosovo dove la camera a spalla, quasi a spiare i personaggi, cerca di dare un senso di estraneità. Anche con la fotografia, Fabrizio La Palombara, ha cercato di distinguere i due ambienti: dei colori più caldi da una parte in contrapposizione ad un ambiente Balcanico più freddo e cupo. Questo è stato uno dei motivi per cui si è deciso di girare in periodi diversi.  

La recitazione degli attori ha colpito, particolarmente, tutti quelli che l’hanno visto.  
Gli attori sono stati capaci di restituire sullo schermo le sensazioni come se le avessero vissute davvero. Non sono stati fatti dei casting. Alcuni caratteri dei personaggi sono stati scritti pensando a loro. Federico Saba per esempio è un amico che conosco da anni e quando l’ho chiamato per proporgli il ruolo di Totore non avevo dubbi sulla sua interpretazione, perché gli era stata cucita addosso. Poi ha una fisicità e “una gran faccia da culo” (posso dirlo) che potrebbe interpretare qualsiasi ruolo. Anche Enrico Steri (Gianfranco), che comunque aveva una parte secondaria è uno che, diretto da un buon regista può dare tanto, a teatro è da pelle d’oca. Fabio Ferro invece è un produttore, attore e regista dei sui lavori: cortometraggi di commedia molto divertenti. Devo essere sincero l’unica persona che mi preoccupava era Enrico Sotgiu (Giovanni), anche lui un amico, perché non era mai stato davanti ad una telecamera e il suo personaggio  era importantissimo. Ero terrorizzato perché non l’avevo nemmeno provato, ma la sua faccia si era appiccicata a quella del protagonista già in fase di scrittura. Gliel’ho proposto e vedendo il suo entusiasmo e la serietà con cui ha aderito al progetto ho capito che si poteva lavorare bene.  

Sul setNei titoli di coda si contano un centinaio di persone che hanno partecipato in vario modo alla realizzazione del film. Basta questo a farsi un’idea della complessità organizzativa ed economica della macchina produttiva anche per una fiction di 20 minuti.   
Pensa che abbiamo iniziato a l’anno scorso a luglio a preparare e Michele Innocente e Fabio Battistin, organizzatori del corto, stanno ancora terminando la rendicontazione delle spese.  Posso dire che sono stati due cortometraggi perché a settembre 2009 abbiamo girato in Sardegna e a novembre a Bologna. Quindi due produzioni con due troupe, molte maestranze sono rimaste le stesse altre sono cambiate.
L’Elenfant Film, la nostra piccola casa di produzione si è imbarcata in questo progetto solo con il premio del concorso “Storie di emigrati sardi” con la coscienza di chi è incosciente, confidando che prima o poi qualche altro soldino saltava fuori. Insomma è stata una scommessa. Poi sono arrivati dei contributo dalla Provincia di Olbia-Tempio, dell’Unione dei Comuni dell’Alta Gallura, dal Comune di Badesi e dal Comune di Bortigiadas. Claudio Gorrieri è entrato in produzione e anche l’Arci Bologna ha deciso di sostenere economicamente il progetto. Realtà come la film commission sono fondamentali per garantire e risolvere tutta una serie di ostacoli che vengono fuori nel percorso produttivo. Un esempio: in Sardegna per poter fare delle riprese in spiaggia il Demanio ci avrebbe concesso il permesso solo dopo aver pagato una tassa di quasi 600 euro. A me sembrava assurdo che dovevo pagare l’affitto della spiaggia dove sono cresciuto. L’intervento della Sardegna Film Commission è stato provvidenziale. La stessa cosa è successa a Bologna. Non saremmo mai riusciti ad effettuare le riprese dentro la Caserma Sani senza l’intervento della Film Commission Bologna.

C’è una cosa di cui si parla poco e che invece è decisiva: la distribuzione che limita il contatto tra gli spettatori e i film. Se i sardi, soprattutto i giovani, non vedono i vostri film anche la possibilità di espandervi produttivamente e artisticamente ne soffre.
Ha assolutamente ragione, la voce distribuzione è la più sottovalutata nell’ambio della produzione di un film indipendente. Forse si arriva troppo stanchi e nauseati alla fine del film e si abbandona  la gara prima del traguardo o spesso non si pianifica un budget distributivo e tutto finisce con il dvd sul comodino. Spero che il mio corto riesca a seguire un suo percorso per lo meno nei festival, affinché lo sforzo produttivo di tutti venga ripagato almeno da qualche applauso.  

Ho chiesto a Salvatore Mereu un giudizio su “Io sono qui”. Ecco la risposta: “La prima impressione è che sia nato un regista. Si sente un piglio, una certezza nella conduzione che è propria di chi il cinema lo padroneggia.” Vale un applauso?
Sono commosso. È più  di un applauso, è una piccola palma d’oro.
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3 giugno 2010