Isre, la parola cinema non esiste
Un'istituzione simbolo nel campo della cinematografia sarda ma di cui paradossalmente non c'è traccia neppure nella legge regionale. Intervista a Piquereddu, direttore dell'ente: "Ci vuole coraggio e prendersi delle responsabilità". di Salvatore Pinna
Parafrasando lo slogan, coniato dagli stati generali del cinema sardo nell’ormai lontano 2002, si può dire che per l’Isre “la parola cinema non esiste”. E infatti non ce n’è traccia di cinema nel suo atto costitutivo (1972) e non c’è traccia di Isre nella legge regionale del cinema (2006).
Inutile dire che al contrario, l’istituto con sede a Nuoro è il soggetto che ha messo i mattoni più solidi nelle pratiche cinematografiche in Sardegna, che non solo si occupa di cinema ma lo produce da almeno trent’anni. Ascoltando il direttore delI’Isre Paolo Piquereddu, si coglie il senso di un'esperienza concreta, costruita anno dopo anno, con intelligenza strategica, non aliena da un certo pragmatismo, che hanno portato un inverosimile piccolo istituto nuorese ad essere riconosciuto e ad imporsi come un ente regionale.
Nessuno è profeta in patria, s’intende, e quindi l’Isre nella patria sarda ha dovuto penare assai e ancora credo sconterà la tendenza, molto sarda, a rifuggire dall’osservazione di ciò che abbiamo vicino, a evitare di utilizzare gli esempi, quando sono di successo, specie se sono a portata di mano. E poco importa se questa distrazione si traduce in diseconomie, in sprechi di tempo, e quindi di denaro, in duplicati inutili e dispendiosi di strutture, di iniziative insensatamente concorrenziali. È una storia interessante quella che viene fuori dalle parole di Piquereddu e i capitoli più suggestivi della sua narrazione hanno a che fare col cinema. Dal primo convegno su cinema e videotape nella ricerca etnografica, al lavoro con Fiorenzo Serra, sino all’ultimo concorso AVISA (Antropologia Visuale in Sardegna), passando per quell’evento fondamentale che fu, nel 1992, il film “Tempus de baristas” di David Mac Dougall che rappresenta un momento chiave, non solo sardo, di popolarizzazione dell’antropologia visuale, del suo diventare cinema a tutti gli effetti. Per non parlare dei quindici capitoli in cui si è dipanata la vicenda del SIEFF (Ethnografic Film Festival).
Si tratta di realizzazioni pratiche, pazienti, pensate e progettate, esposte sempre al pericolo della delusione, se non del fallimento, come sempre succede quando, tra i sospetti e la pigrizia de “su connotu”, si intraprendono iniziative “mai viste prima” in strade sconosciute e disseminate di insidie. Come quando si richiede una pratica interpretazione di norme e di vincoli burocratici che poi non sono veri e propri vincoli ma dei limiti che si infligge la di pigrizia culturale e amministrativa di singoli soggetti. O come quando l’intuito, e la fortuna, portano a compiere imprese il cui successo diventa un precedente da cui risulta veramente difficile arretrare.
Uno dei rischi dell’Isre fu di esistere, poi fu il cinema stesso. Un altro fu quello di puntare sulla carta “Tempus de baristas” con David MacDougall, che oggi, col tranquillo senno di poi, è per tutti momento cardine del cinema etnografico, un punto fermo nell'analisi della contemporaneità sarda, ma per chi a suo tempo fece questa scelta era una scommessa dai risultati incerti. Ecco se il film di MacDougall, invece di avere quella qualità e quel potere di indicazione, fosse risultato un flop oggi staremmo a raccontare un’altra storia. Non quella di un ente che, nato nuorese, è sentito sempre più come regionale, cioè di tutti.
Partiamo dal fatto che l'Istituto non è mai citato nella legge regionale sul cinema.
È singolare se pensiamo che si siano occupate di questa legge delle persone con un minimo di conoscenza delle cose che abbiamo fatto. Probabilmente si è continuato a vedere l'attività dell'Ente come un'attività di mera documentazione connessa con le feste popolari e meno con il lavoro di antropologia visuale, con il SIEFF, con AVISA che riguardano soprattutto la nostra contemporaneità.
Voi avete chiesto di avere un ruolo all’interno della legge?
Qualche speranza di essere inserito nella legge ce l’avevo. Avevamo proposto che ci fossero assegnati compiti relativi alla produzione di documentari e di corti. Noi non ci candidavamo a chissà quale gestione globale, anche perché personalmente sono abituato ad avanzare delle proposte per attività che ritengo siamo in grado di governare di gestire. Francamente sarebbe stato eccessivo per la nostra struttura occuparci del resto, ad esempio dei lungometraggi. Però nell'ambito dei documentari e dei cortometraggi un nostro ruolo l'avrei visto bene. Questo l'avevamo fatto capire chiaramente. Ora non so come siano andate esattamente le cose, se ci sia stata un'opposizione o che altro. Comunque la nostra disponibilità non è stata accolta.
Si è fatto un'idea?
Sì, forse sì, nel senso che probabilmente questa cosa veniva vista come un ampliamento delle competenze dell'Istituto che avrebbe potuto dare fastidio. In quel momento forse hanno prevalso tendenze che dicevano “l'Istituto continui a occuparsi di musei, a fare i suoi festival, meglio non metterlo dentro questa legge”.
Forse qualcuno, una qualche rappresentanza di interessi, legittimi diciamo, aveva deciso cosa doveva fare l’ISRE e cosa invece bisognava non facesse.
Questo non lo so. Può darsi abbiano prevalso questioni geopolitiche o centralistiche; forse non si è voluto attribuire a questo ente lontano funzioni e responsabilità e si è preferito lasciarle a Cagliari. D'altro canto so che l'Istituto è visto bene dai registi, da chi fa cinema.
Dal suo punto di vista come sta funzionando la legge?
Beh, insomma, esaminano dei progetti… Secondo me ci vuole un rodaggio serio della legge. Il rodaggio è anche quello di prendere atto che bisogna entrare nella materia. In questo senso bisogna cercare di avere più coraggio di assumere decisioni e meno “attenersi”. Questa sembra una bestemmia per chi lavora in un ente pubblico, però "i criteri oggettivi "che sono poi una sorta di forche caudine, alla fine non sempre premiano le cose migliori. Quando io parlo di coraggio intendo dire che bisogna assumersi delle responsabilità. Forse è ingeneroso oggi dire che non funziona. Secondo me ci vuole più tempo perché entri a regime.
Ci vuole più tempo: lo si può comprendere quando c'è un inizio. Qui non c'è un inizio, non c'è l'idea di una politica.
Quando io dico che ci vuole coraggio e prendersi la responsabilità voglio dire che bisognerebbe uscire dalle formule “oggettive” ed entrare in una dimensione più pratica e operativa. Le leggi, alla fine, non funzionano con dei meccanismi automatici. Vanno interpretate, se uno ha in testa un obiettivo riesce a utilizzare anche una normativa che sembra poco adatta. Dico questo perché è un po’ ciò che, in linea generale, è successo per l'Istituto. L’ISRE è un ente regionale che segue tutte le norme di qualsiasi altro ente pubblico regionale o di un assessorato. Non è stato facile occuparci di certe cose, proprio perché nessuno in Regione le aveva fatte prima. Ancor meno, si può immaginare, occuparsi di cinema.
Ecco come ce l'avete fatta?
C'è stato un momento molto importante nei dieci anni in cui c'è stato Giovanni Lilliu. Perché Lilliu per noi, per me devo dire, ha costituito una sorta di ombrello, una garanzia, uno che ha ascoltato con attenzione alcune proposte nuove con grande apertura, con grande curiosità. Ricordo che la chiamata in Sardegna di David MacDougall è avvenuta quando Lilliu era presidente. Quest'iniziativa, che oggi è veramente un riferimento, di fatto deriva da un mio progetto; però il suo parere è stato un viatico, ha aperto una certa strada, ci ha garantito una certa serenità nell’intraprendere un’iniziativa difficile e il cui successo non era scontato in partenza. Quando Lilliu è andato via avevamo rafforzato dunque la nostra presenza attraverso il film “Tempus de baristas”. Chiunque abbia un minimo di consapevolezza di che cosa è, di che cosa era il cinema etnografico, non può non tener conto che si è trattato di un'iniziativa notevole. Una scelta ambiziosa che poi si è rivelata un bell'investimento non solo perché MacDougall ha fatto un buon film ma perché poi è diventato, come dire, un nostro consulente permanente che ha fatto crescere anche il prestigio del festival. Questo ha consolidato la nostra posizione in attività non storicamente individuate anche nell'ambito della Regione. Se il film fosse stato un flop successivamente non mi avrebbero fatto finanziare nulla.
A proposito di finanziamenti veniamo ad AVISA. Le ultime scelte di aumentare il numero dei premiati ampliano le possibilità ma non portano il premiato a misurarsi con macchine produttive più impegnative.
Intanto è già un risultato poter disporre ogni anno di almeno 50.000 euro da destinare a questi lavori. In sé è una cifra modesta, però non è poco se si pensa che è riservata ad autori sardi, che non abbiano superato i 40 anni e che riguarda progetti che attengono al discorso etnoantropologico. Per quanto attiene al numero di premi di AVISA il nostro orientamento è quello di vedere prima che cosa arriva. Per fare un esempio estremo: se arriva solo una proposta che ci piace e su cui scommetteremmo, su quella possiamo anche riversare tutto il budget. Se al contrario noi abbiamo tre o quattro proposte valide, allora cerchiamo di portarle avanti tutte.
Nel 2009 sono state premiate addirittura cinque proposte.
In quel caso siamo arrivati a finanziare cinque lavori proprio perché non volevamo rinunciare a cinque ottimi progetti. Avendo un certo margine di autonomia si è portato il budget da 50.000 a 80.000 euro. Questo non vuol dire che abbiamo diviso in parti uguali. Un lavoro come “Le fiamme di Nule” di Carolina Melis ha avuto di più perché fare un film d'animazione è molto costoso. Tant'è che il nostro finanziamento non ha coperto tutte le spese.
Il fatto che a valutare siano sempre le stesse persone, o quasi, non condiziona un po’ le scelte?
A dire il vero nel corso degli anni c’è stata una rotazione dei giurati. Noi siamo partiti con una scelta che era quella di metterci persone che fanno effettivamente cinema. O registi, o sceneggiatori capaci di valutare se un progetto richiede effettivamente quel budget oppure no. Valutare il progetto è diverso, più complesso che valutare un film. In molti casi c’è stata una grande partecipazione, un interesse perché si dessero delle possibilità a dei giovani, anche una forma di generosità da parte dei registi sardi più conosciuti.
I confini del cinema etnografico sono così elastici che permettono di farci stare tutto. Tanto è vero che voi avete finanziato, si pure in parte, la realizzazione di lungometraggi.
Il nostro scopo è riuscire ad essere utili. Siccome ci siamo occupati e ci stiamo occupando di questo ambito cerchiamo di dare una mano a progetti che ci sembrano interessanti e assolutamente pertinenti alla nostra missione istituzionale. Però siamo al di fuori di una sistematicità che ancora in questo campo non possiamo proporre. Oggi più che mai ci rendiamo conto che c'è una legge regionale che deve occuparsi di questo e che comunque sta iniziando a distribuire delle risorse a livello di 250-400 mila euro. E sono comunque valori che noi non possiamo assolutamente prendere in considerazione.
C’è anche da dire che il vostro intervento non si configura come un semplice contributo.
Il semplice contributo lo deve dare un comune perché in loco gli fanno il film, una camera di commercio, un'azienda turistica. Io ho sempre visto i nostri interventi con una qualità in più che è di coproduzione, di compartecipazione ad un'idea. A volte i nostri sono interventi, magari modesti, che ti sbloccano una situazione. La vicenda di “Ballo a tre passi” è indicativa sotto questo profilo: noi siamo riusciti a finanziare una parte del primo episodio, “Il mare”, e, grazie questo fatto, Salvatore Mereu con una pizza sotto il braccio si è presentato ai produttori e ha fatto vedere già che cosa poteva essere in grado di fare. Lui questo, devo dirlo, lo ha sempre riconosciuto, non è che il giorno dopo si è dimenticato. Ci troviamo in una situazione analoga con Paolo Zucca che vuole sviluppare il progetto de “L'arbitro”. Poi “L' arbitro” ha ricevuto tanti di quei premi che alla fine per un ente che finanzia, un ente pubblico soprattutto, è veramente una consolazione. Nel senso che tu dici abbiamo speso bene questi soldi. Se poi, invece, il giorno dopo non se ne parla più è un po' triste.
Perché non ampliare la formazione strutturata attraverso corsi più lunghi oltre il troppo selettivo workshp estivo con MacDougall?
Siamo d’accordo che il workshop è troppo ristretto. Sono anni che io ho fatto una proposta almeno di una Summer School di Antropologia visuale. Poi non è andata avanti perché bisognava trovare una formula che andasse bene alle Università, qualcuna proponeva un master eccetera, e questa cosa è rimasta aperta. Però c'è da molti anni ormai la consapevolezza che bisognerebbe andare oltre. Magari con una vera e propria scuola, con più docenti e con una durata non di una settimana ma di due mesi.
Un critica che spesso viene rivolta all’Isre riguarda la scarsa circolazione dei suoi materiali.
Quest’anno è stato finanziato un progetto di digitalizzazione. Metteremo il nostro patrimonio a disposizione in diversi modi. Una è una sorta di edizione. Infatti questa attività si chiama “Attività di digitalizzazione e di cura editoriale della produzione dell’Isre”. Troveremo il modo di metterli in circolazione, anche attraverso iniziative editoriali, per renderli noti a un pubblico non specialista, anche quello che non segue i festival.
Riprenderete a trasmettere i vostri film in Infochannel TV?
Si sta pensando a qualcosa di più impegnativo. Stiamo sondando la possibilità di essere compartecipi, in qualche modo, in una rete televisiva che mandi i programmi con le cose che facciamo e che sia anche una sorta di strumento di informazione non solo per le produzioni cinematografiche ma anche per gli altri eventi che facciamo, come ad esempio "Etnu".
Alla fine di questa intervista resta il sapore del paradosso. Il fatto di parlare di cinema realizzato, con il responsabile di un’istituzione per la quale si può dire che, in senso letterale, “la parola cinema non esiste”.
Io continuo a dire che questa presenza dell'Isre nel cinema, impensabile prima, è pur sempre una parte ancorché significativa, dell’attività complessiva dell’istituto che comprende la gestione di tre musei, produzione editoriale, ricerche, convegni ecc. Il cinema è diventato, forse, uno degli aspetti più visibili della nostra attività però è solo una parte.
Quindi non vi sentite spinti dal mondo cinematografico ad avere un ruolo.
No. Percepisco da un lato una soddisfazione per le cose che facciamo e che abbiamo fatto. Questo è un dato di fatto: quando uno oggi in Sardegna pensa di fare cinema sa che l’Istituto può essere un interlocutore. Nello stesso tempo non percepisco spinte ad assumere un ruolo particolare. In generale quando ci sono riunioni in cui si discute del cinema in Sardegna, dei vari problemi ad esso connessi, non veniamo nemmeno invitati. Quindi direi proprio che spinte in questo senso non ce ne sono. Mentre i registi sardi sanno che cos’è l’istituto e non troverebbero strano che venisse indicato a portare avanti compiti più ampi nel campo del cinema. A livello di comuni o di associazioni non c’è questa percezione che l’Istituto possa dire delle cose. Ma se ci invitano a partecipare a un dibattito, per dire la nostra, certo che partecipiamo.
6 aprile 2011