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"13 assassini" di Miike Takashi

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
 
''13 assassini'' locandinaTakashi Miike, nonostante i suoi film siano stati distribuiti col contagocce nel nostro paese (forse il più noto è l’horror “The call” 2003), gode di stima e fama tra fan cinefili, che possono seguirlo principalmente lungo il tour dei festival in giro per il mondo. In questo senso, nella scorsa edizione della Mostra d’Arte Internazionale del Cinema di Venezia, con la direzione di Muller impegnata a dare visibilità ai film provenienti dall’Oriente, addirittura oltre a partecipare in concorso con “13 assassini” (assai gradito al pubblico), il regista giapponese ha avuto anche lo spazio per due sue opere bizzarre come “Zebraman” (2004) e il suo sequel del 2010. Lo si potrebbe definire un “post moderno” fuori tempo, così appassionato e cinefilo nel ricalcare i modelli di genere popolare come l’horror, il gangster movie, persino il western all’italiana che, come in un cerchio magico, partito negli anni sessanta proprio dal Giappone con il “plagio” leoniano del film di Kurosawa “La sfida del samurai” (1961) per il suo “Per un pugno di dollari”(1964), ritorna a casa con “Sukiyaki Western Django” (2007) di Takashi, omaggio al “Django” di Sergio Corbucci,  avvalendosi, tra gli interpreti, diremo quasi simbolicamente a indicare una linea estetica, di Quentin Tarantino.
 
''13 assassini'' Per la sua riflessione sul cinema storico nipponico Takashi, ovviamente, ha in mente “l’imperatore” Akira Kurosawa, piuttosto che Eichi Kudo, già realizzatore di una pellicola sui “13 assassini”. Il suo omaggio è di grande respiro e di perfetta confezione, un’opera senza le trasgressioni eccessive degli altri suoi film, ma con una cura dei particolari legata strettamente sempre a un taglio assai personale.
La storia è tipica: il tiranno cinico, narciso, “decadente”, il desiderio di vendetta, uno scontro impossibile tra 13 guerrieri straordinari e un esercito numeroso. Se la prima parte è cupa, immersa nei colori caldi e ricchi di ombre simboliche (la fotografia splendida è di Nobuyasu Kita) e percorsa da echi shakespeariani, la seconda, ambientata prevalentemente in esterni, è intrigante, avventurosa.
 
''13 assassini'' Quello che si potrebbe definire un vero e proprio “assedio” di un paesino, si scioglie in una battaglia cruenta (ma la violenza non riesce mai ad abbandonare una sottesa vena ironica), realizzata con effetti speciali, ma con notevoli capacità inventive e coreografiche. Non manca l’elemento onirico: la scena finale potrebbe dare adito all’idea di un sogno, o meglio di una rappresentazione, come, in maniera maggiormente scoperta, succedeva con “Zaitoichi” (2003) di Takeshi Kitano.
Takashi, insomma, non avrebbe deluso il maestro Kurosawa e, come tanti registi giapponesi, sembra essere stato sedotto dalla storia e dalle leggende del proprio paese tanto da presentare al Festival di Cannes “Morte di un samurai”, che speriamo sia distribuito anche in Italia.
 
6  luglio 2011