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"Colazione da Tiffany" di Blake Edwards

Il consiglio di Elisabetta Randaccio
 
''Colazione da Tiffany''Un giovedì di novembre, quando non ti aspetti che alla multisala vicino a casa ci sia movimento, o meglio vi sia il solito confondersi di chi, senza soldi, ancora si fa un giro per osservare vetrine contenenti oggetti inutili dai prezzi impossibili o giovani in cerca di tranquillità o di caos, insomma la solita antropologia da centro commerciale, chiedi al gentile bigliettaio di poter entrare per “Colazione da Tiffany”, anno di produzione, 1961. Per celebrare l’anniversario di questa delizia cinematografica, l’hanno restaurato e proiettato al “Festival di Roma” 2011 e, dunque, gli hanno trovato uno spazio nella programmazione, ricca di pessimi prodotti, di inizio stagione. Siccome il film lo si conosce a memoria, ma vederlo su un grande schermo, seduti comodi e con un audio perfetto, attira la curiosità, si va alla multisala pensando di trovare il solito gruppo di cinefili. Invece, non c’è posto! Ambedue le proiezioni sono sold out! Ci sono solo due poltroncine in seconda fila, le più scomode, ma si accettano. E l’altra sorpresa è osservare come la sala sia affollata di giovani.
Dunque, alcune considerazioni, prima di parlare del capolavoro di Blake Edwards (anche lui, purtroppo, scomparso recentemente). Non è vero che i film belli non interessano; non è vero che i giovani vanno al cinema solo per blockbuster o commedie patetiche o cinepanettoni nauseanti; non è vero che, se il biglietto cala (in questo caso 4 euro) la gente non va, comunque, al cinema.
 
''Colazione da Tiffany''E’ vero, invece, quanto la distribuzione imponga titoli orrendi e umili quelli autoriali; che i classici, non considerati più dalle televisioni, diventate ostili a una decente programmazione  cinematografica, mostrati in una veste curata, attirano il pubblico; e il biglietto può e deve essere contenuto, per non far diventare il cinema un ennesimo bene di lusso, da non potersi permettere in un periodo di crisi economica spaventosa.

Non crediamo, infatti, che “Colazione da Tiffany” sia un miracolo nel deserto. I 50 anni, l’opera maggiormente famosa di Blake Edwars, non li dimostra per niente. New York, per esempio, è la stessa del nostro immaginario europeo, anche se la vetrina di “Tiffany”, nel quartiere di Wall Street non è più così attraente come quando Holly-Audrey Hepburn (meravigliosa) vi andava a mangiare la brioche e bere l’orribile caffè americano, osservando le composizioni dei gioielli creati dalla ditta statunitense (infatti i diamanti, in questo caso, non sono, come diceva la famosa canzone “ciò che desiderano le donne”, ma una composizione artistica.
 
''Colazione da Tiffany''Esclama Holly, in una scena “Non mi interessano i gioielli, ma Tiffany!”).  Il film è estremamente attuale sia nei contenuti quanto nella forma, con quel bel montaggio antiteatrale, con la musica meravigliosa di Henry Mancini, i vestiti di Givency.
Tratto da una novella inusuale di Truman Capote, lo scrittore, in quegli anni, maggior conoscitore della società e cultura newyorkese, è sceneggiata con perizia da George Axerold, il quale sorvola su qualche situazione ambigua, allude a prostituzione e promiscuità, ma con la giusta leggerezza e non con la pesantezza del taglio censorio.  Così, le parole di Capote, grazie all’autore dello script e a tutta la squadra del film, diventano mito. Pensate alla toccante scena in cui Paul, il quale ha appena ritrovato la dignità del suo essere scrittore, sente dalla finestra Holly cantare. Si affaccia e c’è Audrey-Holly con una gamba fuori dalla finestra, appoggiata nella scala antincendio con la chitarra tra le braccia, un asciugamano turbante in testa che canta dolcemente “Moon river”.
 
''Colazione da Tiffany''Nel racconto capotiano suonava così: “La signorina aveva un gatto e suonava la chitarra. Nei giorni in cui il sole picchiava forte si lavava i capelli, poi, assieme al gatto, un maschio rosso tigrato, si metteva a sedere nella scala di soccorso a pizzicare la chitarra mentre i capelli asciugavano. Ogni volta che sentivo la musica, andavo a mettermi in silenzio alla finestra. Suonava molto bene e qualche volta cantava. Cantava con il timbro rauco dell’adolescente…” Si capisce come il lavoro di regia e di sceneggiatura abbia reso perfettamente il senso della fantasia di Capote.
Il film provoca risate e lacrime come ogni capolavoro. E se la squadra è perfetta, ovviamente chi domina un personaggio così bello, è la giovane Audrey Hepburn, emblema di donna già proiettata negli anni a venire, nei cambiamenti fisici e culturali delle ragazze  degli anni sessanta e settanta.
 
''Colazione da Tiffany''Sentirla recitare in lingua originale è fantastico, ma il vecchio doppiaggio mantiene, comunque, la freschezza e le sfaccettature dell’interpretazione. Anche il suo partner, George Peppard sembra il migliore attore possibile, per quanto la sua carriera sarà caratterizzata dalla mediocrità delle scelte future. Un altro elemento da tener conto per capire come nascano i capolavori è la genesi. Il ruolo di Holly era stato pensato per Marilyn Monroe, anzi scritto da Capote per lei. La produzione, poi, si strutturò in altro modo e se la Monroe perse un’occasione unica, la Hepburn rimarrà sempre nel nostro cuore molle di amanti del cinema.
 
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