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Per Atzeni il sole è sempre nero

"I  morti di Alos" evento speciale al Babel Festival racconta in 30 minuti il salto di un paese immaginario nell'avventura dell'industrializzazione. Un'illusione che si è trasformata in incubo e che  ha conquistato anche Daniele Segre. L'intervista al regista. di Salvatore Pinna
 
''I morti di Alos''Daniele Atzeni si è diplomato in regia alla "Nuova Università del Cinema e della Televisione" di Roma. Ha realizzato nel 2002 il documentario “Racconti dal sottosuolo” (menzione speciale della giuria al Premio Libero Bizzarri), storie di vita in miniera e di lotte operaie narrate da tre vecchi minatori e un’anziana cernitrice che lavoravano nelle miniere del Sulcis-Iglesiente. Nel 2005 ha prodotto e diretto il documentario “La leggenda dei santi pescatori”, racconto di una giornata di lavoro dei pescatori di tonno sulcitani, col quale ha ottenuto riconoscimenti in rassegne nazionali e internazionali. Nel 2010 ha girato “Sole nero” (secondo premio nel concorso Il cinema racconta il lavoro), documentario sui danni sanitari e ambientali causati nel territorio dal petrolchimico di Porto Torres. Ha appena finito di montare “I morti di Alos”. Si tratta di un mockumentary, o falso documentario, che racconta la storia di Alos, paese immaginario del centro della Sardegna che fra gli anni ‘50 e ’60 compie il fatale salto nella modernità industriale e che nel 1964 viene distrutto da una catastrofe chimica. Antonio Gairo, l’unico sopravvissuto, ritrovata all’improvviso la memoria perduta, racconta la vita del paese prima della tragedia e le circostanze che la determinarono.

Perché questo bisogno di riprendere l’argomento di “Sole nero” proponendolo in una nuova forma che fonde finzione e documentario, cinema e letteratura?
Con “Sole Nero” ho avuto un problema per quanto riguarda l’approccio alla realtà. In un documentario che si basa su testimonianze bisogna porsi il problema del filtro che c’è tra l’autore e la realtà che vuole raccontare. Se tu fai raccontare una cosa a una persona che intervisti, molto spesso la tua visione della realtà non coincide con quella che va a raccontare invece l’intervistato.

Vuol dire che la sua lettura della realtà non era la stessa dei soggetti che ha incontrato?
Io avevo una mia idea ben precisa, che non nasce da convinzioni astratte, ma da un’evidenza dei fatti – collina dei veleni scoperta da irs, elevatissima incidenza di tumori nella popolazione e soprattutto negli ex operai, inchiesta della magistratura, rinvio a giudizio e condanna (questo è accaduto dopo che ho terminato il film) dei vertici dello stabilimento per disastro ambientale, ecc. – ogni testimonianza doveva essere funzionale al mio racconto. Attraverso il mio documentario volevo schierarmi nettamente e denunciare i danni ambientali, sanitari e sociali creati dallo stabilimento che doveva “salvare” quel territorio dalla disoccupazione degli anni ’50. Il mio punto di vista non coincideva col pensiero dei lavoratori, i quali erano preoccupati solamente della salvaguardia del loro posto di lavoro e per fare questo erano costretti a evitare l’argomento inquinamento e malattie professionali. I sindacalisti additavano come nemici della chimica e dei lavoratori chiunque sollevasse il problema. E poi il progetto iniziale prevedeva anche il racconto della lotta dei lavoratori, ma mi sono reso conto che ormai qualsiasi manifestazione di protesta non è altro che una rappresentazione ad uso e consumo dei media, fatta per conquistare la ribalta mediatica, come se comparire ogni giorno in tv potesse risolvere i problemi. Non sono d’accordo con questo tipo di rappresentazione e per questo non mi sono voluto prestare al gioco e ho tenuto ai margini quest’aspetto. Quando ho scritto il progetto pensavo che la lotta degli operai e quella dei parenti delle vittime del Petrolchimico trovassero un punto di contatto, invece questo non è accaduto.

''I morti di Alos''“Sole nero” è stato premiato da una commissione presieduta da Daniele Segre e che è stato accolto con favore dagli spettatori. Vuol dire che il film ha funzionato.
Il documentario cattura l’attenzione perché  fa emergere  una realtà importante, e offre delle testimonianze sofferte, vere, riprese con onestà. Mi soddisfa l’approccio che ho avuto con le persone che hanno subito dei lutti in famiglia che inizialmente non avevano nessuna intenzione di comparire in un documento filmato. Però, ecco, non sono riuscito a esprimermi al meglio.  Le riprese delle interviste non sono il top dal punto di vista fotografico, di questo ne sono consapevole. Ho studiato cinema e per me l’immagine conta molto. Ma non potevo trasformare le abitazioni di persone che mi dovevano raccontare una realtà così sofferta in un set televisivo con troupe al seguito, faretti e quant’altro. Doveva essere una cosa intima, tra me e loro, quindi dovevo occuparmi sia delle riprese, rigorosamente con luce naturale, e al contempo interloquire con loro. Per questo è stato difficile curare l’immagine come avrei voluto. Nel documentario bisogna trovare un buon compromesso tra forma estetica e contenuto. Ecco "Sole nero" è sbilanciato verso il contenuto.

Torniamo a “I morti di Alos”. Alla luce di quanto ha detto è come se sia voluto tornare sull’argomento per rimediare a un’insoddisfazione.
Sì, è proprio così nel senso che comunque la storia dell’industrializzazione è una storia che mi interessa e che ho raccontato con “Sole nero” in parte. E quindi ho avuto questa esigenza di ritornarci  per rimediare a questa insoddisfazione e questa volta credo di aver fatto emergere il mio punto di vista (e la mia visione poetica) proprio perché il film l’ho costruito io, senza filtri. Quindi non ho intervistato persone, non ci sono degli elementi che si sono frapposti tra me e l’oggetto che volevo raccontare.

''I morti di Alos''Qual è stato il procedimento creativo?
Ho costruito un soggetto e poi una scaletta dove ho inserito i vari punti che volevo affrontare attraverso il testo e poi ho scritto una traccia. Man mano che trovavo le immagini di repertorio correggevo il testo in base a quello che riuscivo ad avere per poter supportare la narrazione e quindi renderla verosimile, veritiera.  Quindi ho lavorato in parallelo sia sulla parte visiva, sia sulla parte del testo.

Questo film impiega diversi tipi di materiali visivi. Ci sono documentari, fotografie e riprese fatte  ad hoc. Come ha lavorato con queste immagini?
Per la prima parte ho utilizzato delle immagini dei documentari di Fiorenzo Serra e ho cercato, anche documentandomi sulla società pastorale, di creare  un racconto veritiero di quella  società. Una società che viveva in un certo qual modo in armonia con la natura, con l’ambiente, una società che aveva anche dei problemi. Questo l’ho voluto sottolineare, perché era comunque una società chiusa, fatalista, senza la volontà di cambiare, di migliorarsi. E non è stata aiutata dalle istituzioni a portare avanti uno sviluppo sostenibile. Questo aspetto ci ho tenuto a sottolinearlo.  

Nella seconda parte irrompe il cambiamento, rappresentato dai filmati degli anni Sessanta e Settanta, che producono un contrasto visivo stridente.
Le immagini della seconda parte appartengono perlopiù a documentari di propaganda, prodotti dalla regione, a favore dell’industrializzazione e del piano di rinascita. Nel mio corto invece le stesse immagini vengono utilizzate per sovvertire questa tesi propagandistica. Nel farlo ho voluto compiere un gesto politico, rivoluzionario, per riaffermare la verità, la mia verità, sull’ipocrisia di chi ha spacciato il modello di vita occidentale, basato sul consumismo, come la soluzione ai problemi della Sardegna del dopoguerra. È di questo che parla il narratore quando dice “che le immagini del passato gli fanno provare l’ebbrezza sovversiva della verità”.      

''I morti di Alos''Questo film, che è caratterizzato da un deciso intervento sui materiali visivi, rappresenta una svolta rispetto film più scabri o “oggettivi”. Mi riferisco soprattutto a “La leggenda dei santi pescatori” e a “Sole Nero”. In “Racconti dal sottosuolo” c’è una ricerca fotografica più espressiva.
È la prima volta che intervengo in questa maniera in un film che faccio. In questo caso, trattandosi di un lavoro che coniuga finzione e documentario, mi sono sentito di osare anche di più e quindi di creare in maniera digitale qualcosa che non potevo riprendere. Ad esempio l’immagine della luna che avevo in mente da subito di fare, sì avevo pensato che scrivendo un brano del genere sarei dovuto intervenire in post-produzione. Per quanto riguarda il linguaggio si sta evolvendo. Però ovviamente bisogna girare, girare tanto e sperimentare. Bisognerebbe avere l’opportunità di realizzare film in maniera continuativa, per permetterti di sperimentare ed evolverti anche dal punto di vista linguistico.

Le immagini di Gairo Vecchio – che “impersona” Alos dopo la tragedia -  hanno una particolare efficacia espressiva. Lì sono stati usati una fotografia e dei movimenti di camera particolari.
Questo lavoro nasce sia dalla mia esigenza di raccontare quel periodo storico di industrializzazione e poi nasce dalle suggestioni che mi ha suscitato una visita a Gairo Vecchio. Quindi immediatamente, come per magia, veramente, queste due cose le ho messe insieme e ho pensato di realizzare un film del genere. Con Paolo Carboni, che cura la fotografia, dovevamo ricreare quel tipo di immagine che potesse provocare anche le suggestioni del gotico moderno ottocentesco. Quindi abbiamo utilizzato il grandangolo,  abbiamo lavorato con uno Slider che crea movimenti simili alle carrellate. Il grandangolo è usato spesso a Gairo per realizzare delle inquadrature dal basso che potessero mettere in risalto queste strutture fatiscenti, per dilatare gli spazi e rendere le strutture più inquietanti.  Poi in post-produzione abbiamo “desaturato” l’immagine per creare un’atmosfera drammatica.

Daniele AtzeniLe due parti del film, prima e dopo l’industrializzazione, creano due blocchi molto omogenei al loro interno e allo stesso tempo in netto contrasto tra di loro sul piano visivo.
Ci doveva essere una certa coerenza nelle immagini dei due blocchi per fare in modo che questi fossero in netto contrasto fra loro. Per quanto riguarda la prima parte la coerenza è dettata dalla mano di Fiorenzo Serra che ha girato tutte quelle sequenze. Nella seconda parte, dove c’è il racconto della società industriale, io dovevo fare in modo che l’arrivo dell’industria e poi la fine del paese rientrasse tra il 1960 e il 1964. Però non ho trovato abbastanza immagini del periodo storico in esame, per supportare la narrazione, e ho dovuto prendere anche immagini dei documentari degli anni ’70 riportandoli in bianco e nero perché la fotografia degli anni ’70 era riconoscibilissima, soprattutto nei documentari di Cara.

Il risultato è un apologo noir,  che sintetizza in 30 minuti la storia dell’industrializzazione sarda che è comune ad altre zone dell’Italia e direi del mondo sottoposto a interventi di tipo coloniale.
La storia di Alos parla soprattutto della mancata autodeterminazione dei popoli.  C’è anche  una critica nei confronti dei sardi che, molto spesso, piuttosto che credere in se stessi e cercare di migliorare la loro vita, hanno creduto alle illusioni vendute dalle persone che venivano da fuori e avvallate dai nostri politici. E anche ora che l’illusione si è trasformata in incubo non si trova la forza per andare oltre quel modello di sviluppo che si è dimostrato fallimentare, proprio perché realizzato in maniera truffaldina.

Quando sarà la prima del film?
Verrà presentato il 30 novembre come evento speciale all’interno del Babel Film Festival. Sarà presentata una versione in sardo con la voce di Giovanni Carroni, che interpreta il testo tradotto da Tore Cubeddu. La visione del film sarà preceduta da una lettura di brani tratti da “Dio Petrolio” di Francesco Masala, letti sempre da Giovanni Carroni.
 

 
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16 novembre 2011