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Tiberio Murgia, o il Faust sardo

Riflettori accesi sulla figura di un lavapiatti oristanese classe '20, scritturato da Monicelli sul set de "I soliti ignoti". Storia esemplare di un attore senza vanità splendidamente raccontata nell'ultimo libro di Nicola Fano. di Salvatore Pinna

Tiberio Murgia, tra Gassmann e Mastroianni, SalvatoriNon c’è niente di assolutamente originale,  da poterne trarre il soggetto per un film, nella storia di un uomo che si chiama Tiberio Murgia, nato ad Oristano alla fine degli anni venti, che da povero si fa ricco facendo l’attore per il cinema e  che si mangia tutta la ricchezza film dopo film. Il soggetto si fa un po’ più promettente se vi si inseriscono nuovi spunti. Poniamo che Tiberio si fa comunista, negli anni cinquanta, ha una relazione con la moglie del segretario di sezione, viene cacciato dal partito e fugge. La storia, così rimpolpata, non è ordinaria ma nemmeno eccezionale. Appena ci si può cavare la scena di un filmetto politico-boccaccesco. Allora aggiungiamoci che l’uomo di Oristano emigra in Belgio, a fare il minatore a Marcinelle. Marcinelle è un nome che evoca tragedie. L’otto agosto 1956 vi morirono intossicati centinaia di minatori. Il minatore sardo si salva perché quella mattina si è dato malato per poter stare con la sua amante e moglie di un minatore belga che è sceso regolarmente in miniera e non risulta tra i superstiti.  In questo modo lo spunto boccaccesco si arricchisce di risvolti sociali: la miniera, le indecenti condizioni di sicurezza,  il capitalismo vorace. Occorre, però, qualcos’altro.
Tiberio Murgia e Claudia CardinaleFacciamo che l’uomo, senza lavoro e senza onore, ripara a Roma, dove fa il lavapiatti in un ristorante che gli assicura una vita relativamente tranquilla. Un giorno un cliente, si chiama Monicelli, scorge, inquadrato nella finestrella della cucina, il volto di un giovane smilzo, con baffi da seduttore, sopracciglia folte e rivolte in su, che fa il suo lavoro umile con sussiegosa dignità. Il regista ha un tuffo al cuore. Ha trovato il siciliano che gli manca per completare il cast di un film che sta per iniziare. Si intitola “I soliti ignoti”. Ha già scritturato Gassman, Mastroianni, Totò e altre maschere italiane di quelle che fanno incassare al botteghino. Gli manca un siciliano, ed ecco lo ha trovato e poco importa che sia sardo. Gli fa un contratto per interpretare Ferribbotte e la vita del lavapiatti oristanese cambia da un giorno all’altro. Questi sono i fatti che da soli non fanno un racconto. Per ottenere un racconto bisogna dare un senso ai fatti. È quello che fa Nicola Fano nel suo libro “Ferribbotte e Mefistofele. Storia esemplare di Tiberio Murgia” (Exorma Edizioni, 2011, € 14.00).
 
Tiberio MurgiaFano, che è scrittore, giornalista e autore teatrale, costruisce la sua “storia esemplare”, come un pezzo di vita italiana con la convinzione che “nel segreto di un attore c’è sempre il segreto di una società”. La tecnica narrativa è avvincente e convincente. Consiste nel nascondere il protagonista per pagine e pagine, parlando d’altro, facendo emergere un contesto che fornisca dei parametri per misurare la singolarità dell’eroe. Il contesto è l’Italia degli anni Cinquanta, dura, piena di vite difficili, un’Italia alla ricerca di un’identità che, oggi, sembra aver smarrito cedendo a troppi localismi; il contesto è anche il cinema, l’avanspettacolo, la commedia dell’arte come sintesi  di una certa koinè nazionale. Su questo sfondo l’autore dispone un piccolo oristanese che raggiunge la fama e i soldi acconciandosi a fare, per tutta la vita e duecento film, la parte del siciliano, rinunciando alla sua voce, alla sua lingua e alla sua identità. Che l’identità sia il vero tema del libro è accennato nell’introduzione ma il lettore attende le prove decisive circa i veri motivi per cui il nostro eroe arriva all’infernale baratto: soldi contro voce. Ma prima bisogna attendere.
''Ferribbotte a Mefistofele''Perché il racconto prende sempre un’altra strada, fa delle curve larghe che portano sempre a Tiberio Murgia, perché uno non è per nulla il protagonista di un racconto, se tutte le digressioni non portano a lui. Tutto quello che succede nel mondo sembra esistere per lui, perché intercetti il suo cammino e il suo destino. Così sembra che nasca apposta nel 1929, sei giorni prima dei Patti Lateranensi che segnano una tappa di riconciliazione unitaria. Sembra una premonizione il fatto che, all’età di otto anni, osservi da uno spiraglio aperto nella tenda di un circo in tournee ad Oristano la “donna immobile”. Una donnona, mica una bonona, ma gli basta per intuire che c’è profumo di donna nel suo futuro. Chi è veramente questo Faust sardo che baratta con Mefistofele la sua identità? L’autore  escute i testimoni superstiti, svolge perizie linguistiche su documenti cartacei, osserva al microscopio i reperti filmici e li tempesta di domande su Tiberio Murgia. Sapeva recitare? Era consapevole di essere soltanto una faccia? Sapeva di essere sardo o se lo era dimenticato a forza di fare film in cui non diceva nulla ed era doppiato per farlo sembrare un siciliano verace? 
I testimoni certificano che lo ha fatto “per fame” e “non per fama”. Un testimone, che pure lo critica per le troppe femmine e i troppi soldi sciupati, afferma che non era fasullo, che era un attore senza vanità. Ovvero sapeva di “non saper fare nulla.” Su questo punto il biografo, dubbioso, svolge un’indagine supplementare. Rivedendo le scene de “I soliti ignoti” ne ricava che  “l’espressività è bloccata in un cliché personalissimo (pezzente con l’aria di signore, n.d.r) ma la gestualità è fluida, sicura. Suo malgrado Tiberio Murgia era anche attore.” Perché, pur possedendo questo atout contrattuale, ha accettato di cedere la sua identità? Ma si è trattato davvero di una cessione di appartenenza? A chi apparteneva Tiberio Murgia?
 
Tiberio MurgiaLa perizia linguistica di un libretto autobiografico porta a questa conclusione: “il sardo Murgia faceva il siciliano al cinema e si sentiva romano.” Il personaggio assume, così, spessore come “coacervo di identità e appartenenze negate”.
E diventa il prototipo di uomo multinazionale, di antileghista, di negazione vivente del localismo. “È un uomo della riunificazione. Perché nessuna identità in fondo gli bastava”. O forse, gli bastava l’identità italiana. Alla fine l’ autore ha detto la sua su Tiberio Murgia. Poco importa se è quello vero, se lo è in tutto o in parte. Certo falso non è, semmai parziale come ogni raccolto della memoria. Quello che importa è che emerge una figura illuminata da una storia, anzi ripresa nel cono di luce della Storia. Ne viene fuori un personaggio che merita di essere non il caratterista ma il protagonista di un film attualissimo.  Il film su un uomo in fuga dall’identità.   
23 novembre 2011