Percorso

La strana storia di Antoni Gairo

“Sos mortos de Alos” inizia con flash sfuggenti, inafferrabili  tracce, evocazioni veloci, lampi di memoria, dove tutto si ingarbuglia senza ordine, dove un’immagine succede schizofrenicamente a un’altra. Al Babel la storia di una catastrofe. di Salvatore Pinna
 
''Sos mortos de Alos''In pochi secondi è concentrato lo sforzo del personaggio narrante, di cui sentiamo soltanto la voce, di afferrare i materiali incerti della memoria che vuole lasciare in eredità a noi che vediamo e ascoltiamo. Si chiama Antoni Gairo ed è l’unico scampato ad una catastrofe che ha distrutto il paese immaginario di Alos nel centro della Sardegna. Il suo racconto è scandito da una temporalità precisa che comprende la sua nascita (1942), l’anno in cui ad Alos compare il petrolchimico (1959), il giorno e l’anno della catastrofe tossica che uccide gli abitanti e a lui, che ha visto l’invedibile, provoca la follia (1964), e poi gli anni Novanta che lo vedono ancora “in un luogo che chiamano Centro di Salute mentale”. In un momento di lucidità Antoni Gairo ricostruisce i ricordi della lontana tragedia che ha colpito Alos. Il paese vive la vita povera e semplice dei pastori finché un giorno viene convinto, dalle autorità, ad accogliere nel suo territorio l’industria petrolchimica presentata come "un dono di dio". In pochi mesi sorgono gli impianti e gli aloesi – vendute le pecore scampate alla siccità - si adattano al lavoro di fabbrica. In quel momento che doveva essere della rinascita “è cominciata la nostra fine”, commenta la voce.
 
''Sos mortos de Alos''Nella prima parte del racconto il volto di Alos è prestato dai filmati di Fiorenzo Serra, che, coi suoi colori smaglianti e le sue inquadrature distese rende l’immagine di un paese povero ma in armonia con la natura e capace di esprimere bellezza. I documentari degli anni Sessanta usati nella seconda parte del film, sono, invece, quelli della celebrazione della rinascita. Daniele Atzeni li richiama per sovvertirne gli scopi propagandistici facendone l’habitat di un Alos cupa, disarmonica e invasa da nubi minacciose. Gli aloesi li vediamo catapultati nell’illusorio mondo nuovo dei grandi magazzini a compiere, straniti e increduli, il rito fondamentale della modernità: l’acquisto di qualunque cosa faccia somigliare i sardi agli altri e dimenticare se stessi. Nel passaggio veloce da pastori a operai a consumatori si realizza, negli aloesi, una vera e propria mutazione, il cui ultimo  stadio avviene quando la morte tossica li trasforma in fantasmi che si aggirano senza pace nel paese distrutto. A fare la parte di Alos dopo la tragedia è stato “chiamato” quello che resta di un paese reale, Gairo Vecchio, cancellato da un’alluvione nel 1951.
''Sos mortos de Alos''Gairo Vecchio ritorna a vivere prestando le sue macerie surreali e urlanti per raccontare una nuova e diversa catastrofe ma anche per ricordare la propria. Con Paolo Carboni, che cura la fotografia, Atzeni ha voluto dare alle immagini le suggestioni del gotico moderno ottocentesco. Le riprese grandangolari, con inquadrature  dal basso, dei ruderi di Alos-Gairo ne dilatano la spettrale imponenza, mentre la camera galleggia in modo inquietante tra le strade simulando soggettive di fantasmi.  La “desaturazione” fotografica crea un’atmosfera da apocalisse come l’innaturale luna verde che la annuncia; mentre le fotografie dei morti gridano la tragedia con la loro muta eloquenza.
“Sos mortos de Alos” è un interessante e originale esperimento visivo che combina materiali di diversa provenienza – documentari e foto d’archivio, riprese originali e un bel testo letterario. Il testo definitivo, in lingua sarda, è il risultato di un lavoro a più mani tra Daniele Atzeni che lo ha pensato e scritto in italiano,  Tore Cubeddu che lo ha tradotto in sardo unificato, Giovanni Carroni che ha riadattato la traduzione alla sua sensibilità interpretativa e alle sue sonorità nuoresi.
 
''Sos mortos de Alos''Per le immagini, così profondamente sarde, ma nate con commento in italiano, è  stato come  un ritorno a casa. L’uso della lingua sarda conferisce al racconto una marca di realismo  che fa da efficace contrasto con la cornice gotico-fantastica entro cui è contenuto.  Giovanni Carroni conduce, nella prima parte, una narrazione sobria e quasi distaccata in cui la voce si mantiene aldiquà della forte evidenza che hanno le parole e le immagini. Nella seconda parte, quella dell’industrializzazione, e nell’epilogo tragico, la voce di Carroni si fa più  vibrante perché i fatti non bastano più a raccontare la vicenda in tutta la sua consistenza emozionale. La musica di Stefano Guzzetti, che si adatta al potere evocativo dei luoghi, è dolce e quieta in Alos prima della tragedia anche se non risolve mai in senso melodico e si fa ironicamente fattiva quando le autorità progettano la costruzione delle fabbriche. Ritorna allarmante nella Alos industriale e sprigiona decise suggestioni kubrickiane quando accompagna il viaggio della camera dentro le mura di Alos-Gairo o in analoghe riprese tra i ruderi del manicomio. Il dramma di Alos non termina con la fine del film,  come gli abitanti di Alos non sono scomparsi con la catastrofe.  I loro fantasmi tormentati ritornano ogni anno a fare un loro sabba vendicativo contro chi ha causato la tragedia. “Alos” che è un film di morti  è anche un film sulla resurrezione e sulla vita delle immagini e sulla possibilità di ragionare ancora  grazie alle immagini.
 
''Sos mortos de Alos''Il film di Atzeni, perciò, è anche un omaggio agli archivi.  Senza il supporto della memoria filmica la realtà di Alos non sarebbe stata rappresentabile e ri-presentabile. Attraverso le immagini degli anni Cinquanta, e quelle antitetiche degli anni Sessanta, proviamo, con Antoni Gairo,  “l’ebbrezza sovversiva della verità”. È solo un attimo perché presto il buio torna a ingoiare i ricordi e il film finisce, come era iniziato, con un garbuglio di immagini inafferrabili. Atzeni usa sino all’ultimo frammento di durata del film per dire qualcosa ancora allo spettatore. Così dopo i titoli di coda vediamo i balli di carnevale con cui gli aloesi festeggiavano l’appartenenza al paese e alla comunità. Queste sequenze ci ricordano che la voce narrante aveva detto che i fantasmi balleranno ancora quando il loro desiderio di vendetta sarà stato soddisfatto. Le immagini del carnevale, perciò, tornano non “nel” film ma “dopo” il film. Atzeni mette in atto una strategia di dilatazione dell’attenzione in questo differire la conclusione.
 
Anche la parola Fine, scritta sempre più raramente nel cinema, serve per farvi vibrare sopra un gong come quelli che hanno punteggiato i momenti cruciali della narrazione.  La parola Fine, così, delimita più marcatamente la fiction dalla realtà. Come dire è finito solo il film, ma la sua realtà resta attualissima.
 
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30 novembre 2011
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