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"Le idi di marzo" di George Clooney

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Le idi di marzo'' locandinaPrende spunto da una piece teatrale di Beau Willimon (“Farragut North”), ma svolge il tema con riferimenti alla stretta attualità, l’ ultimo film di George Clooney, che si conferma regista interessante, consapevole di avere, come modello di riferimento, il cinema hollywoodiano degli anni settanta, che sapeva conciliare la chiarezza del linguaggio con l’osservazione critica della società statunitense.

Se il regista-attore avesse scelto, nel suo descrivere la povertà ideologica, l’ipocrisia e il nodo di vipere tipico delle campagne elettorali negli Usa,  il partito repubblicano, avrebbe semplicemente sparato sulla Croce Rossa. Invece, forte di un impegno politico dichiarato da tempo, Clooney si serve della ascesa resistibile di un governatore democratico, perché il suo discorso contenutistico è generale. Gli interessa il modo in cui si origina la corruzione, la perdita degli ideali, il cinismo senza scrupoli, la lotta per la “sopravvivenza” economica e politica nel capitalismo decadente. Così, non provoca empatia  il personaggio interpretato da Ryan Gosling, l’esperto in comunicazione Stephen Meyers, mai candido nelle sue scelte, che commette un’ ingenuità strategica (casca nella rete dell’avversario del suo “mito”, il governatore Morris), la paga, ma con una “gestione” dei suoi istinti raffinatamente peggiori, riesce in un teorema vendicativo perfetto.
 
''Le idi di marzo''Citare le idi di marzo cesariane, come summa  della congiura, dei tradimenti e delle conseguenze psicologiche (e mediatiche?) di chi accetta senza scrupoli la scalata del potere,  è adeguata metafora a illustrare una resa dei conti politica e personale.
Certo, a noi italiani, abituati a ben altro, fa sorridere e crea amarezza vedere come, negli Stati Uniti, un candidato sia messo in crisi da una relazione pericolosa con una stagista, però il film ci ricorda quanto sia sempre possibile mostrare il lato oscuro della “cosa pubblica”, sapendosi comunque indignare.
Clooney, servendosi di una solida sceneggiatura, ottiene un buon risultato filmico e dirige, ancora una volta, se stesso e i suoi colleghi con abilità: i personaggi di Stephen, di Paul Zara e di Tom Duffy non sarebbero così ambigui e complessi se non li avessero interpretati Ryan Gosling, Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti.

Può diventare da antologia il finale, il quale, per certi versi, mutando la situazione, ha la stessa valenza di quello aperto e amaro dei “Tre giorni del Condor” di Pollack (1975). In quel caso, Robert Redford credeva ancora in una remota possibilità di denunciare il groviglio colpevole del governo e il suo sguardo in macchina brillava ancora di utopia, qui Stephen-Gosling ha l’occhiata amare di chi ha perso da tempo ideali e speranze.
 
Il consiglio precedente: "Midnight in Paris" di Woody Allen
21 dicembre 2011