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"Cesare deve morire" di Paolo e Vittorio Taviani

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Cesare deve morire'' locandinaUn’efficace compagnia teatrale interpreta l’ultima scena del “Giulio Cesare” di Shakepeare. La conclusione raccoglie gli applausi di un pubblico numeroso, mentre è tangibile la felicità degli attori. Conclusa la piece, gli attori si cambiano. Ad aspettarli, però, ci sono alcuni poliziotti penitenziali che li accompagnano nelle loro celle.

Siamo, infatti, nel reparto di alta sicurezza del carcere di “Rebibbia” e quegli uomini che hanno dato vita ai personaggi shakespeariani sono detenuti devono scontare lunghe condanne o il “fine pena mai”. Quando entrano nelle loro celle, il colore caldo della pellicola si muta in un intenso bianco e nero e inizia il racconto di un’esperienza straordinaria per la comunità carceraria. Sono le prime scene di “Cesare deve morire”, il film dei fratelli Taviani che ha vinto con onore l’ “Orso d’oro” all’ultimo festival di Berlino, un’opera importante, bella, commovente, profonda come se ne trovano raramente nel cinema italiano contemporaneo.  Cesare deve morire  e con lui la dittatura, lo strangolamento della libertà, ma anche, metaforicamente, dovrebbe morire un sistema penitenziario raramente improntato al riscatto del detenuto.
 
''Cesare deve morire''Con una scena tipica della loro estetica cinematografica, i registi, ad un certo punto del film, mentre inquadrano in un campo lungo gli squallidi casermoni della prigione, fanno diventare reali i pensieri, i lamenti, le lacrime dei carcerati, i quali ingombrano la lunga quotidiana notte; è un momento intenso, dove diviene tangibile la sofferenza dispersa in quei luoghi di pena e di dolore. Il teatro, attraverso l’impegno di un professionista del settore (Fabio Cavalli) e con la collaborazione delle istituzioni, “entra” nel penitenziario con le parole di Shakespeare e del suo “Giulio Cesare”, che, come tutte le opere dell’autore inglese, si adatta perfettamente ai tempi e ai contesti diversi, per cui sembra essere stato scritto per gli interpreti-detenuti, per i loro dialetti e gli slang delle periferie, che risultano, così, adeguati, comprensibili, vicini.
 
''Cesare deve morire''Per chi recita in quel luogo oppressivo, raggelato dalla luce artificiale (la fotografia è splendida, la firma Simone Zampagni) quelle battute hanno l’effetto di un percorso terapeutico, scrollano il rimosso; la violenza, il tradimento, la fedeltà, il dolore non appartengono né all’epoca elisabettiana né a quella romana, sono sentimenti e sensazioni del presente, talmente vivi e palpitanti da rinascere nelle storie personali dei protagonisti, che, infatti, alcune volte, non reggono al peso di quelle parole.  I Taviani non hanno bisogno di scene eccessive per mostrarci l’angoscia del luogo oscuro del carcere e lo strazio esistenziale dei detenuti. Bastano pochi tratti e il primo piano usato come specchio dell’anima. Oppure una carezza su una poltroncina della platea, dove, forse, si è seduta una donna, per mostrare la dinamica repressiva dell’istituzione carceraria. Semmai sorprende la abilità interpretativa dei protagonisti: straordinari attori i quali annullano qualsiasi confronto con i colleghi che affollano inutilmente il nostro schermo e i nostri palcoscenici.
 
''Cesare deve morire''Il cast non è solo dotato di “spontaneità”, ma ha la capacità di utilizzare metodi di straniamento o di immedesimazione, come se, per tanti anni, avessero frequentato rigorose scuole di recitazione. Inquadrati con grande attenzione figurativa come fossero i modelli di Caravaggio (che, peraltro, utilizzava prostitute, banditi, emarginati per i suoi capolavori pittorici), sono indimenticabili e suscitano un’empatia profonda.
Le ultime scene del film riprendono quelle iniziali; torna il colore, tornano quei momenti intensi e di felicità per aver realizzato ottimamente un progetto così complesso. Si ripete l’immagine dei poliziotti che sbarrano le celle. A questo punto, uno dei detenuti sussurra, “Da quando ho scoperto l’arte, questa cella è diventata una prigione”. E’ una mesta considerazione che, però, lascia intuire quanto poteva essere meglio percorsa una strada diversa nella vita e quanto l’arte e la cultura possono mutare e salvare la nostra esistenza.
 
Il consiglio precedente: "Paradiso amaro" di Alexander Payne
14 marzo 2012