"Marilyn" di Simon Curtis
Parlare, a cinquanta anni di distanza dalla sua prematura e “misteriosa” morte, di Marilyn Monroe, vorrebbe dire porsi di fronte alla sua controversa e drammatica esistenza privata e artistica come davanti a un archetipo psicologico prodotto dalla società dello spettacolo, in tutte le sue declinazioni crudeli e mitiche.
In questo senso, sono poco importanti pettegolezzi o quotidianità, comunque banali, mentre, invece, si potrebbe riflettere sulle modalità del viaggio all’inferno, seppure consapevole, di una ragazza che aveva tutte le premesse (infanzia e adolescenza negate) per avviarsi verso la schizofrenia di un’identità privata non risolta contrapposta a quella pubblica modellata sui bisogni dell’industria dello spettacolo. Così, già prima del suo suicidio, erano chiari i meccanismi che la stavano schiacciando, così come diventa esemplare la celebre opera di Warhol che la serializza con crudezza, evidenziando il suo essere oggetto smaterializzato, seppure straordinario, d’arte.
Il cinema si è occupato di Marilyn Monroe, poco tempo dopo la sua morte, dato l’impatto segnato nell’immaginario popolare e potenzialmente sfruttatabile economicamente. I film, documentari o fiction, su di lei, sono dal lato critico, da dimenticare, ma ciò che è mancato è, come si è accennato, un punto di vista non limitato dal gossip e, soprattutto, evidenziante le sue ragioni di donna, comunque, “speciale”. In questo senso, “Marilyn” di Simon Curtis, è un’ennesima delusione.


A salvare il film, sono sicuramente alcuni degli interpreti e il direttore della fotografia, Ben Smithad, fondamentale nel ricreare il volto, la densità del colore della carnagione e del fisico (il candido diventato quasi uno stereotipo è esaltato in maniera simbolica) di Marilyn nei tratti così diversi e così uguali di Michelle Williams. Quest’ultima è efficace in un’operazione impossibile.

Grandioso, invece, Kenneth Branagh nel ruolo di Olivier. All’attore inglese non sarà sembrato vero di interpretare uno dei suoi padri di riferimento nell’arte della recitazione. Branagh, nello stesso tempo, miracolosamente “riproduce” Olivier (rivedere il “Principe e la ballerina” per credere), ma, soprattutto, mette l’accento sulle melanconie, i dubbi, gli errori, le incertezze di un grande attore arrivato alla svolta della maturità, travolto dalla forza della giovinezza di Marilyn, che non ha bisogno di supporti accademici per brillare d’istinto, messo in crisi dai primi segni d’invecchiamento, deciso a rinnovarsi nello spirito e nelle scelte interpretative (Olivier, dopo il “Principe e la ballerina”, lavorerà con il giovane e innovativo drammaturgo John Osborne).
