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Cresce il cinema made in Sardinia

"Il Vangelo secondo Giovanni Columbu" conferma il talento del regista nuorese. Identità e paesaggi ma anche temi universali  nelle opere presentate a Torino. di Salvatore Pinna

Torino Film FestivalI film di Giovanni Columbu, Peter Marcias e Giuseppe Casu sono accostabili per molti tratti. Per l’uso del paesaggio, per il tema della marginalità, del sacrificio e dell’amore straordinariamente presente nelle tre opere.

La più ovvia delle accostabilità è la felice coincidenza che li vuole tutti e tre presenti nella trentesima edizione del TFF, in differenti sezioni. Torino è il luogo giusto per questi film indipendenti, originali, coraggiosi e che, dal punto di vista delle produzioni sarde, coincidono con l’esordio operativo della nostra Film Commission. È un buon auspicio e il segno che il cinema in Sardegna sta compiendo, nel complesso, dei passi avanti significativi. Incominciando da “Su Re” ci si domanda: può una storia arcinota, cinematograficamente “sfruttata”, generare ancora subbuglio negli animi, suscitare la sorpresa come se quei fatti non li avessimo già incasellati nell’immaginario? Può sorprenderci ancora un plot fin troppo noto i cui sceneggiatori si chiamano Matteo, Marco, Luca e Giovanni e il cui protagonista è già stato esposto a tutte le rappresentazioni (e manipolazioni) possibili nel corso della storia del cinema, per tacere della pittura e della letteratura?

Nevina Satta, Antonello Grimaldi e Giovanni ColumbuPuò evidentemente, e succede vedendo “Su Re”, vale a dire il Vangelo secondo Giovanni Columbu. Tutto è nuovo, tutto vi appare inedito, tutto è una rivelazione di verità sconosciute. La ragione è semplice: il film è nato da una profonda convinzione dello spirito e da una comprovata maestria nell’adoperare le risorse vivificanti del cinema. C’è in Columbu il talento di combinare i materiali della realtà e di mettere, nella realtà del film, materiali che creano cortocircuiti visivi e di pensiero sorprendenti. La maestosità dei luoghi, i recinti dei nuraghi, che appaiono posticci in molte figurazioni cinematografiche e fotografiche, acquistano con Columbu un respiro e un aspetto non risaputo, per il semplice fatto che qualcosa di profondamente vero accade, sempre, dentro l’inquadratura. Sul Golgota tra i presenti che attorniano il sacrificio che si sta perpetrando, per citare un episodio, si coglie, tra gli altri, un piccolo uomo che esprime col viso e con il corpo un suo dolore, come se lo stesse vivendo dentro se stesso. Lo spettatore percepisce che è proprio quello il dolore che l’Innocente sulla croce è venuto a revocare.

Sul set di Su Re. Foto di Rosi GiuaSu Re” reca sempre il brivido dell' improvvisazione costruita, cercata con arte, provocata con le modalità di direzione di un grande combinatore di azioni filmiche come è Columbu. Come quella che affida al grande fotografo Uliano Lucas una seconda unità di ripresa con il mandato di produrre sguardi laterali, divergenti, “nomadici”. Questa “seconda regia” funziona come un binomio fantastico applicato al cinema nel suo farsi allo scopo di procurare un in più di verità all’insieme.  La bellezza di “Su Re” nasce, paradossalmente, dalla stessa vicissitudine produttiva. La lunga e sofferta gestazione ha consentito una profonda maturazione del tema e della drammaturgia stessa del film. Come afferma il regista: “Non potendo fare un film lo raccontavo. Gli incontri duravano novanta minuti, come un film. Avevo creato un nuovo genere di spettacolo. Fu allora che cominciarono ad arrivare gli aiuti di una certa consistenza”.

''L'amore e la follia''Quanto era bello quel lavoro infame, potrebbe essere il titolo alternativo di “L’amore e la follia” di Giuseppe Casu. In questo documentario di sessanta minuti, la tormentata vicenda mineraria degli ultimi decenni, è raccontata da due ex minatori consapevoli e caparbi. L’amore, evocato nel titolo, è quello sensuale per la miniera e la follia è la minaccia di dar fuoco alle gallerie, la parola d’ordine era “Abruxia!”, nella grande occupazione del 1992 contro la chiusura delle miniere metallurgiche. Il documentario di Casu si svolge tra passato e presente con un sguardo fortemente rivolto al futuro, cioè al lavoro come possibilità di sopravvivenza del territorio che può essere recuperato nella magnificenza dei paesaggi circostanti e negli stessi itinerari creati dai minatori “creatori di vuoto” che sono i pozzi e le gallerie scavati nelle rocce. Lo spettatore vive l’esperienza dei luoghi, soprattutto, attraverso i suoni e i rumori, che costituivano la vera identità della miniera. I cigolii degli argani, il rombo della scavatrice, lo scricchiolio dei passi, lo stillicidio dell’acqua, insieme ad inserti di musica concreta, restituiscono le pulsazioni della miniera e fanno da sfondo emozionale ai racconti dei due protagonisti.

''Dimmi che destino avro' ''I paesaggi hanno grande importanza nei tre film dei registi sardi che saranno presentati a Torino. Peter Marcias, per il suo “Dimmi che destino avrò” sceglie ambientazioni degradate che prendono brillantezza e bellezza dai fatti che vi si svolgono. Allora lo spazio svuotato di una piscina abbandonata, o il campo di calcio improvvisato o malmesso sullo sfondo di spiagge disabitate, diventano luoghi dove accade la magia dell’avvicinamento tra diversità, tra diverse emarginazioni. In questi spazi avviene la rivelazione di progetti di vita di un gruppo di ragazzini rom a un commissario di polizia, il cui fiuto investigativo, porta a fiutare umanità laddove era stato mandato per indagare sulla scomparsa di un ragazzo in un campo di brutti sporchi e cattivi che tali non sono. Nell’affrontare, ancora, i temi della diversità e dell’integrazione, Marcias offre la misura di un linguaggio filmico sempre più maturo e convincente. Nel suo racconto non c’è posto per la consolazione che pare poter venire – allo spettatore - da una possibile liaison tra una ragazza rom cagliaritana e parigina e il commissario di polizia napoletano sardo cui non è concesso un facile riparo dalle disillusioni del suo orizzonte cognitivo.

Mereu sul set di ''Bellas Mariposas''Se consideriamo i film già usciti (“Bellas Mariposas” di Salvatore Mereu oltre ai film presenti a Torino), e quelli di cui è annunciata l’uscita nel 2013 (“Terza categoria” di Paolo Zucca, “Capo e Croce” di Pani e Carboni) e di cui si auspica l’uscita (“Accabadora” di Enrico Pau), si può dire che nel giro di pochi mesi andranno in sala più film che all’epoca della cosiddetta Nouvelle Vague Sarda. Ora si farà, probabilmente, meno enfasi identitaria, perché più cresce il cinema fatto dai sardi e meno siamo interessati alla paranoia dei luoghi, all’identificazione ad oltranza e alla certificazione di origine controllata. Conta il racconto, la maturazione del linguaggio, la padronanza del dispositivo filmico da parte dei nostri registi.

I paesaggi e i volti di “Su Re”, ad esempio, sono straordinariamente sardi e allo stesso tempo assolutamente universali nella trasposizione filmica. E il film sarà visto come un’opera splendida che rinnova il racconto dei Vangeli e lo fa vibrare nei tempi di oggi.

27 novembre 2012