Percorso

“Le nostre storie ci guardano” di Sergio Naitza

L'Isola tra “piano di rinascita” e disincanto, nel docufilm d'autore, sapiente intreccio di immagini del passato e voci di oggi e di ieri per un viaggio nella (nostra) memoria. di Salvatore Pinna

Sergio NaitzaNello scorso numero di Cinemecum, nel pezzo dedicato a “Ìsura da filmà”  di Marco Antonio Pani, abbiamo citato altri film che in tempi recenti sono stati realizzati mediante il montaggio di materiali audiovisivi preesistenti come “Sonos ‘e memoria” di Cabiddu e “I Morti di Alos” di Atzeni.

A questa pratica fa ricorso anche un bel film realizzato da Sergio Naitza (il suo terzo, dopo “Per noi il cinema era proibito” e “L’insolito ignoto”) che si intitola “Le nostre storie ci guardano”.
Ad eccezione di “Sonos”, che pure ha il merito di essere stato l’iniziatore di questo genere di opere basate sui reperti audiovisivi della Sardegna, i film citati hanno in comune la riflessione sulla nostra storia recente e, più marcatamente in Sergio Naitza, sulla rinascita della Sardegna con i suoi fallimenti.

''Le nostre storie ci guardano''Sarebbe sbagliato, tuttavia, pensare a questi film come opere di meri contenuti. Ognuno di essi persegue un proprio percorso ideativo e una propria linea stilistica nella creazione di una struttura narrativa sostenuta da un montaggio fine, dalla risonorizzazione, e in alcuni casi, dall’inserto di scene girate ex novo. Li unisce la voglia di stupire ancora, di creare un paradossale effetto “prima volta” con l’utilizzo di materiali antichi.  L’espressione inglese per indicare la pratica del riuso è “found footage”, letteralmente pellicola trovata. Un termine meno esotico, ma più vicino al vero è “riciclaggio”. Riciclaggio contiene l’idea di recupero di qualcosa che è destinato ad essere smaltito, eliminato, e per questo acquista il senso di una iconoclastia alla rovescia. Riportare in vita le immagini per sottoporle ad un nuovo sguardo è un fatto eversivo perché si impedisce che insieme a quei materiali venga smaltita la realtà di cui sono la traccia visibile. La rinnovata capacità delle immagini di intercettare il mondo, avviene grazie al talento artistico dei registi ma anche in virtù (o per colpa) del fatto che il tema è sempre caldo.

''Le nostre storie ci guardano''La rinascita in Sardegna, in particolare, costituisce un eterno ritorno, i cui esiti, a dir poco enigmatici, sono presenti ancora sulla pelle viva dei sardi.
In questo senso alto ed eversivo si può dire che “Le nostre storie ci guardano” di Sergio Naitza “ricicla” immagini da una quarantina di film dell’archivio Rai per tessere una nuova narrazione che racchiude venticinque anni, cruciali, della Storia della Sardegna, quella che va dalla metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta. Dalla ricostruzione del secondo dopoguerra alla rinascita uno e due. Cioè miseria senza nobiltà. Del resto Antonia, uno dei personaggi del film, nel vedere il suo paese svuotarsi dei tanti emigrati traditi dalla rinascita afferma: “…una cosa è chiara, ed è che a stare qui non rinasce nessuno”. La donna è in corrispondenza epistolare con il fratello Gonario che si è trasferito a Cagliari, che lui descrive come un paese di bengodi che attrae lavoro. L’immigrato lavora nell’edilizia perché Cagliari, dalla metà degli anni Cinquanta, costruisce molto e vuole crescere e lui, cagliaritano acquisito ed entusiasta, vuole fare la sua parte.

''Le nostre storie ci guardano''Una necessità, cioè il fatto di non poter disporre di soldi per mettere in scena attori in carne e ossa per una fiction vera, diventa per Sergio Naitza una risorsa estetica efficace, un modo di preservare i protagonisti dall’usura dello sguardo. Antonia e Gonario, fornitori dei ricordi consegnati alle lettere che si sono scambiati nel tempo, e che un giovane nipote ha scovato in una diroccata casa dei nonni, sono voci off che attivano un dialogo con quegli uomini e quelle donne sarde che sono stati, in qualche modo, protagonisti della modernità sarda, quella dell’industrializzazione ad esempio, che a Gonario fa dire “Chissà, chissà se davvero questa è la strada”. Noi spettatori veniamo catturati dal gioco di tanti racconti intrecciati, di tanti luoghi che ci sembra di non aver mai visto, di tante facce che siamo noi anche se stentiamo a riconoscerci, perché cerchiamo di resistere all’ennesimo richiamo a dire la nostra sulla rinascita, o, peggio, a provare a rifarla per l’ennesima volta.

''Le nostre storie ci guardano''Ma, ormai, le parole di Antonia e Gonario hanno già catturato il nipote che si sente destinatario di una storia, prima sconosciuta, che sente appartenergli. Alla fine hanno colpito anche due spettatori del film nel film, nostri alter ego, che ci guardano con insistenza, come per ammonirci che non possiamo tirarci indietro, che quelle storie ci riguardano.    


L'INTERVISTA A SERGIO NAITZA

Come nasce l’idea di “Le nostre storie ci guardano”?
L’idea nasce da una semplice domanda: come far rivivere la mole di materiale d’archivio della Rai in cui è protagonista la Sardegna? Conoscevo quasi tutti quei filmati – depositati presso la sede regionale per la Sardegna – e da molto tempo, almeno una decina d’anni, avevo voglia di “manipolarli” perché diventassero la spina dorsale di un racconto sulle trasformazioni sociali ed economiche dell’Isola a cavallo del Piano di rinascita. È nata subito nella mia testa la sceneggiatura di una storia parallela che doveva intersecare e interagire con le immagini d’archivio, come se i personaggi della finzione – Antonia e Gonario – entrassero di diritto nello scrigno della memoria che poggiava comunque su una base di realtà costruita da inchieste e servizi giornalistici tv e documentari.

''Le nostre storie ci guardano''La trovata dello scambio epistolare è efficace. Antonia e Gonario sono personaggi di voci e non di facce.  Questo li rende più intensi, più veri, narratori di un racconto orale.
L’espediente dello scambio epistolare si è rivelato il più semplice da mettere in pratica, il budget esiguo non permetteva di avventurarsi in altre forme. Così via i personaggi fisici, sono rimaste le voci off ad assurgere al ruolo di protagoniste.

L’arco temporale scelto va dalla fine degli anni Cinquanta al 1970: praticamente tutto il percorso dalla speranza al fallimento della rinascita.
Sono 25 anni in cui si concentra il cambiamento epocale dell’Isola, da una economia agropastorale si cede alle sirene dell’industrializzazione. In mezzo il lavoro del pastore e del contadino, la fatica delle donne, i bambini e la battaglia contro l’analfabetismo, l’emigrazione, la miniera che prima attrae lavoratori e poi li respinge, il feudalesimo della pesca a Cabras, la siccità e la titanica costruzione della diga, la logica del muretto a secco che si trasforma nell’Anonima sequestri, i riti delle feste e delle sagre, la questione della lingua sarda, il razzo a Perdasdefogu e le servitù militari, l’irruzione della ribellione, la musica rock che sfida i mottettus, la nascita e affermazione della Costa Smeralda, il Cagliari dello scudetto.

Nel film ci sono due personaggi che si mimetizzano tra le immagini antiche ma che non appartengono, per quel che so, a nessun documentario del passato.  
I due personaggi che compaiono alla fine in una sala cinematografica e guardano il documentario che gli spettatori stanno guardando con loro non sono – come è spontaneamente venuto in mente a molti – il fratello e la sorella ma due falsi, ovvero due intervistati “antichizzati” (lei parla del boom in arrivo a Cagliari e lui della crisi delle industrie), inseriti fra le tante testimonianze d’archivio. Una invenzione di sceneggiatura per rimarcare che il passato vive nel presente e il presente ha “un cuore antico”, cioè l’esperienza della memoria senza la quale non si può progettare neppure il domani.

''Le nostre storie ci guardano''La scrittura  ha una parte importante nella costruzione del documentario.
Doveva avere fisicità e carnalità – non avendo attori in scena – quindi una base poetico-letteraria. Senza che fosse pretenziosa o aulica (rendendo ridicoli Antonia e Gonario, che appartengono a un ceto popolare, non intellettuale), semmai capace di evocare atmosfere, luoghi, dolori e speranze. Una gamma di sensazioni su cui ha lavorato di cesello Giulia Clarkson, restituendo dove era necessario quel pathos che accompagna sconvolgimenti epocali. Al quale le voci recitanti di Cristina Maccioni e Marco Spiga si sono adeguate, sottolineando con piccole enfasi e sospensioni, un racconto che doveva far lievitare anche uno stupore un po’ ingenuo davanti al mondo che muta repentinamente.

Il film fa prelievi da una quarantina di documentari, che erano tutti ben girati ma erano diversi per stile, per tipo di approccio e per argomento, eppure c’è un’unità stilistica straordinaria.
A parte le interviste, nel resto non ci sono due attacchi di montaggio uguali all’originale, tutto è stato davvero rispettosamente stravolto, senza cambiare la realtà dei fatti e delle cose. Questo lo si deve soprattutto all’intelligenza di Davide Melis. Le sequenze del lavoro in miniera o della costruzione della diga sul Flumendosa o delle merci in arrivo al porto, per esempio, potrebbero essere prese di peso dai materiali vecchi, invece sono state totalmente rimontate. Di più: anche sonorizzate, perché serviva dare profondità alle immagini, ricreare attraverso il semplice rombo di una moto o del tram che passa o del brusio della folla, un effetto realtà. Tutto, naturalmente, doveva avere una corrispondenza fra parlato e immagini: quindi il testo doveva seguire un primo montaggio muto, spesso adattarsi o nascondersi.

Le musiche di Romeo Scaccia assicurano la compattezza narrativa, ma dichiarano anche una precisa impostazione di regia. 
La musica era necessaria per sottolineare che in fondo si stava raccontando un’epopea, una saga, quindi servivano un carattere e una matrice classici. Romeo Scaccia – che ha appunto una formazione classica - ha trovato le sonorità ora gloriose con dispiegamento di orchestra ora delicate e cupe con l’uso del piano solo, mentre altri passaggi con suoni e musiche d’atmosfera sono stati curati da Davide Melis che oltre al montaggio firma il sound disegn del documentario.

Maria Salotto e Sergio Piano, ''Le nostre storie ci guardano''È quasi un riflesso condizionato del critico quello di andare a cercare un tema musicale ricorrente che lo porti all’individuazione di una certa chiave interpretativa. In “Le nostre storie” questa si rivela un’operazione vana.
Questa è la storia di un continuo cambiamento, di una trasformazione che non si può fermare, quindi niente assomiglia a quello che è accaduto il giorno o l’anno prima, per cui anche la musica doveva essere sempre diversa e, a suo modo, sorprendente. Soltanto sui titoli di coda c’è una melodia morriconiana da Nuovo Cinema Paradiso: è una carezza di dolcezza, l’invito a uno sguardo pacato sui complessi e anche tragici rivolgimenti storici appena visti e vissuti.

Qual è stato il percorso produttivo del film?
Da un punto di vista produttivo, il merito va ascritto a Romano Cannas che ha creduto in questa mia proposta: “Le nostre storie ci guardano” è stato il suo ultimo progetto da direttore della sede Rai per la Sardegna. Nel valorizzare il patrimonio della memoria storica audiovisiva attraverso questo documentario ha sicuramente voluto creare un ponte ideale con l’epoca d’oro della terza rete sperimentale e chiudere il suo mandato caratterizzato dalla valorizzazione e rilancio di un servizio pubblico a favore dei sardi e della loro cultura.

“Le nostre storie”  è stato proiettato, tra l’altro, al recente Festival del Documentario di Villanova Monteleone. Qual è stata la reazione del pubblico?
Mi sono accorto che il documentario funziona come uno specchio: mette i sardi davanti alla loro storia recente, li invita a riconoscerne errori e pregi, li chiama a riflettere senza pregiudizi, a immedesimarsi nei personaggi di finzione e reali, crea una osmosi tra passato e presente.

Un film come “Le nostre storie”, dovrebbe di essere visto dappertutto e in modo speciale in Sardegna. Perché potrebbe aiutare i sardi a capire che segni hanno lasciato del loro passaggio  e come intendono marcare il loro futuro.
C’è un verso di Philip Larkin tratto dalla raccolta “Le nozze di Pentecoste” che dice – cito a memoria, sbagliando perché non ricordo la frase esatta:  “Guarda indietro i tuoi anni caduti come fasce bianche, perché ogni tanto dobbiamo voltarci per sapere che orme lasciano: se impronte di uomo o le precise ampie palme piatte di una gallina”. Costruendo “Le nostre storie ci guardano” ho pensato a Larkin e alla possibile reazione dei sardi davanti al loro passato recente: questo “come eravamo” ha lasciato tracce di uomo, cioè di decisioni che hanno fatto crescere e cambiare in meglio una comunità, o di gallina, cioè di una comunità che ha fatto finta di essere di uomini ed ha stupidamente accettato ordini venuti da fuori?


23 ottobre 2013

Powered by CoalaWeb

Accesso utenti e associazioni