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C'è "moviementu" a Sarajevo

Blog di Carlo Rafele

Film Factory SarajevoPer prima cosa, disponiamo in ordine e in sequenza luoghi e nomi da tenere a mente: Sarajevo, Bosnia Erzegovina, Sarajevo Film Festival, Centro André Malraux, Film Factory, Mirsad Purivatra, Francis Bueb, Béla Tarr, Jean-Luc Godard.

Combinazione che suona sorprendente – e inedita – per chi voglia addentrarsi nel tema “Insegnare il cinema oggi”, “Ideare una scuola di cinema e offrire occasioni produttive alle nuove generazioni”, ovvero prefigurare l’avvenire di un’arte che rischia di essere soggetto e oggetto della propria ineluttabile décadence, del proprio esaurimento di strumenti e prospettive.
Se ne parla poco, è un dibattito che rimane in tono minore nella riflessione critica, soprattutto sulla stampa giornalistica, dove impera la necessità di tenere in costante esuberanza le esigenze di un mercato fallace che da parecchi decenni ha smesso di fiorire e prosperare.
Mai come in questa fase il cinema dovrebbe sorvegliare ostinatamente la propria condizione di prodotto marginalizzato, tenuto in vita dalla potenza del mito, reso ambiguo e fatiscente dalle trasformazioni incessanti – e anonime - della tecnica: una machine artigianale e industriale che appare in continuo smantellamento di ideali, capace però al tempo stesso di esibire vigore e volontà di resistenza - e di sopravvivenza - in alcune situazioni specifiche: Scuole, Accademie, Festival, Mostre, Seminari.

Sarajevo SuiteIn tale direzione il nome “Sarajevo” pare, con sublime rilevanza, accendere sia l’evocazione che la speranza del nuovo inizio: gli anni ’90 sono ancora a portata di sguardo e nessuno ha dimenticato l’angoscia di mesi e giorni marchiati di sangue vittime massacri, per una guerra spietata e cruenta che da questo lato dell’Occidente chiamavamo, senza capirci molto, “conflitto jugoslavo”.
Ci impressionò la spietatezza, la ferocia di una carneficina che senza soluzione di continuità si consumava tra le pareti familiari di un popolo diviso e dilaniato in una tragedia fratricida, scaturita dall’odio e dal risentimento.
Sulle palpitanti macerie di quella Storia - che è anche storia di consapevolezza, di profonda riflessione su ciò che significa rielaborare un destino, una epoché - il cinema d’autore non è rimasto indifferente. Un nome su tutti: Godard.
Il fiuto dell’artista “politico”, che respira senza inibizione l’impegno della propria missione estetica, si raccoglie e si sofferma sopra quei luoghi di sofferenza, accendendo ancora una volta la qualità dello sguardo cinematografico: un video di due minuti, “Je vous salue, Sarajevo”, anno ’94, dove la voce salmodiante del creatore di immagini si diffonde sopra una foto di soldati che terrorizzano la popolazione, infilando una prospettiva di discorso che in traduzione italiana suonerebbe così:
«Esiste la regola ed esiste l’eccezione. C’è la cultura che è la regola, c’è l’eccezione che è l’arte. Tutti noi diciamo la regola, nessuno di noi dice l’eccezione. L’eccezione non si dice, si scrive: Flaubert, Dostojevskij; si compone: Gerswin, Mozart; si dipinge: Cézanne, Vermeer; si filma: Antonioni, Vigo. Oppure si vive e allora diventa l’arte di vivere: Srebrenica, Mostar, Sarajevo.
Fa parte della regola volere la morte dell’eccezione. Sarà dunque la regola dell’Europa della Cultura organizzare la morte dell’arte di vivere che ancora germoglia».

''Je volue salue Sarajevo''La galassia Sarajevo ritorna due anni dopo nel film “For ever Mozart”, la vicenda di due giovani attori di teatro disoccupati che vogliono raggiungere la capitale bosniaca per mettere in scena una piéce di Alfred de Musset, “Non si scherza con l’amore”, che sarebbe divenuta “Non si scherza con l’amore a Sarajevo”. ‘Sarebbe’ perché i due attori-viandanti non raggiungeranno mai la capitale, ostacolati proprio dalla guerra, dal “teatro delle operazioni militari”, braccati e torturati da aguzzini di diversa estrazione e mestiere, non esclusi trafficanti tedeschi, russi, francesi.
E non raggiungere Sarajevo significa nel gergo godardiano non essere capaci – leggi: cultura occidentale - di raggiungere i luoghi dove altri esseri umani praticano, impuniti, lo sterminio e la deportazione.
Godard pretese che la “prima” mondiale di “For ever Mozart” avvenisse appunto a Sarajevo, il 14 giugno 1996, nella sala “Tezla”, ancora miracolosamente in piedi e in funzione dopo quattro anni di devastazioni. Le cronache raccontano di una sala gremita in ogni ordine di posto e di un Godard assente giustificato, impegnato in Italia sul set del film della sua compagna, Anne-Marie Miéville.
Invia un messaggio, letto dall’attrice Bérangère Allaux: «Prima di far vedere il mio film a Strasburgo, capitale d’Europa, ho voluto mostrarlo a Sarajevo, capitale del dolore».

''Histoires du cinema''Il riferimento a Strasburgo consente di aprire una parentesi ulteriore, prima di scivolare progressivamente verso la Sarajevo di oggi e l’importanza degli interrogativi che la città capitale della Bosnia ed Erzegovina pone a se stessa e al cinema europeo.
Oltre a essere il potente inventore di immagini che conosciamo, Godard è anche il sorprendente ideatore del cinema che pensa, come evidente nel vertiginoso progetto-opera “Histoire(s) du cinéma”, film-manifesto di 258 minuti, su cui questo Blog tornerà prossimamente per rimarcare l’unicità di un’opera che dovrebbe apparire come “libro di testo” obbligatorio nelle scuole superiori oltre che nelle scuole di cinema.
Il Godard teorico dell’azione cinematografica lo si scopre anche nel volume “Introduzione alla vera storia del cinema” nonché nell’idea titanica dell’anno 2006 di allestire a Beaubourg l’Esposizione “Voyages (s) en utopie. A la recherche d’un théorème perdu. JLG 1945-2005”, che si rivelò monumentale e “catastrofica” nella preparazione e nella realizzazione (altro capitolo che questo Blog non trascurerà).

''Voyages en utopie''Ebbene, proprio a Strasburgo, al Teatro Nazionale di Strasburgo, nell’autunno del ’96 Godard offre la propria candidatura come direttore-formatore di una Scuola-Seminario per i giovani allievi, aspiranti attori, con la precisa finalità di girare un film insieme a loro.
Il direttore del teatro, Jean-Louis Martinelli, non crede alle proprie orecchie: «Rimanga qui un anno e faccia ciò che vuole, le porte sono aperte».
Come registrano i due maggiori biografi di Godard – Antoine De Baecque e Richard Brody - il regista svizzero-francese invita a Rolle, nel proprio studio, gli undici giovani attori - sei ragazze e cinque ragazzi - per conoscerli personalmente e discutere con loro che cosa fare.
Fa vedere due suoi film recenti, “JLG/JLG” e “Les enfants jouent à la Russie”, offre a ciascuno un “Camescope” (una camera-video) e il libro “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” di Goethe.
Affida un compito: fargli pervenire “lettere filmate” da Strasburgo che indichino il lavoro di formazione cui si dedicano in teatro nonché brani della vita quotidiana sotto forma di diario o di racconto.
Risultato? «Niente. Il silenzio, un silenzio assordante».
Godard torna all’attacco: «Che voi non abbiate voglia di incontrarmi o che abbiate paura del nome, posso pure capirlo. Ma io non so niente di voi, cosa fate, come vivete, ciò che imparate dal teatro. Sul teatro ho alcune idee, ma il mio mestiere è il cinema. Quindi, raccontatemi di voi, filmate per me, fatemi conoscere come e perché si diventa attori al Teatro Nazionale di Strasburgo. E a fine settimana inviatemi le cassette».
Passa ancora un mese e all’indirizzo di Godard non giunge alcunché.
Il regista informa Martinelli, che non sa darsi spiegazioni. Decide di scrivere ai ragazzi: «Non capisco il vostro atteggiamento. Avete la possibilità di lavorare con uno dei più grandi artisti del secolo e non fate niente! Ditemi perché!».
In molti rispondono: «Godard ci annoia, ci fa paura, non ci sentiamo a nostro agio insieme a lui». Fine di un’avventura mai iniziata.

Sarajevo Film FestivalIl lungo riferimento a Godard consente di agganciare, con più ampi rimandi critici e metodologici, il capitolo Sarajevo. Il cui titolo potrebbe essere: “Tre fronti di lotta e di resistenza”. Che si chiamano: Sarajevo Film Festival, Centro André Malraux, Film Factory.
Il primo nasce già nell’ultimo anno di assedio, 1995, e promuove ogni anno (da metà agosto, per 10 giorni) i film prodotti nei venti paesi dell’Europa del sud-est, la regione sud-danubiana e balcanica. Il direttore si chiama Mirsad Purivatra e ha il merito di aver dato alla manifestazione un carattere sempre più marcato, presentando ad ogni edizione circa 200 film e facendo di Sarajevo un luogo di convergenza planetaria di cinéphiles, circa 3000 ogni anno.
Trascrivo questa e le citazioni seguenti dall’inchiesta che all’affaire Sarajevo ha dedicato Céline Gailleurd, per il numero 691 dei “Cahiers du cinéma”:
«Il nostro paese non è ricco - racconta Purivatra -  Dobbiamo muoverci a piccoli passi, non possiamo confrontarci con altri festival. Il 30% del budget arriva dallo Stato e il 70% dalla vendita biglietti e dagli sponsors internazionali e locali, per un totale di 1,3 milioni di euro, una cifra modesta se rapportata ad altri festival della stessa importanza».
Nel 2007 Purivatra ha allestito una struttura chiamata “Sarajevo Talent Campus”, in cooperazione con Berlino, “aperta a giovani professionisti di paesi del Sud-Est d’Europa, che possono studiare a fianco di Jeremy Irons, Bruno Dumont, Juliette Binoche, oltre ai cineasti più noti del paese, come Ademir Kenovic, Pjer Zalica, Leon Lucev, Aida Begic”.
«Noi li aiutiamo – continua Purivatra – a realizzare il loro primo film nell’ambito del programma “Sarajevo City of Film”. Tre film sono prodotti dal festival con un micro budget di 12000 euro a progetto. Lavorano tutti insieme, in équipe. Tentiamo anche di incoraggiare i partecipanti a studiare il cinema dal punto di vista critico, perché qui è il deserto».
Inoltre, il Festival propone l’avvio di coproduzioni: i cineasti sono chiamati a difendere i loro progetti davanti ad autori professionisti e a rappresentanti dei “Fondi per lo sviluppo del cinema”. Ogni anno, una dozzina di progetti viene esaminato. «Purtroppo, conclude Purivatra, malgrado i nostri sforzi, la produzione rimane debole: produciamo un solo film all’anno. Per i lungometraggi, il budget si limita a 500 mila euro».
Altro risvolto problematico è la distribuzione. I cinema sono ancora in rovina, non agibili. Soltanto quattro città possiedono una sala di proiezione: Sarajevo, Mostar, Banja Luka, Zenica.
Nel 2010, il “Sarajevo Film Festival” ha iniziato un programma di cinema ambulante, chiamato “Operazione Kino”, che regala ai film prodotti una seconda vita. «I film raggiungono luoghi dove le persone non hanno mai assistito a una proiezione».

Centro Andre' Malraux SarajevoIl secondo fronte si chiama “Centro André Malraux”, nato da un grido di rivolta e diventato “un luogo mitico della vita culturale e artistica di Sarajevo”. L’ispiratore, il demiurgo, vent’anni fa, è stato Francis Bueb, allo scopo di costituire un luogo di militanza con film, libri e dibattiti: far trionfare le ragioni dell’arte contro la disperazione di una città assediata.
«Ero pronto a tutto e avevo bisogno di tutto, – dichiara Bueb – ho chiamato Godard, Chris Marker, Alain Cavalier, Leon Carax, che mi hanno sostenuto in tutti i modi, inviando lampade per i proiettori, film, somme di denaro, attestati di affetto e di amicizia. Grazie all’aiuto dei militari francesi, abbiamo potuto installare un gruppo elettrogeno per alimentare una sala e organizzare proiezioni clandestine. Avevamo bisogno di ogni piccola cosa: libri, film ma anche temperamatite, lampadine, candele per leggere, fiammiferi, carta, pellicola, ogni cosa che dai serbi era stata vietata. Ciò che importava era che la vita quotidiana continuasse come sempre… o almeno far finta. Ogni giorno il nostro compito era aiutare una popolazione assediata che era stata abbandonata da tutti e deprivata di ogni cosa».
Finita la guerra, il legame tra il cinema e il “Centro Malraux” è rimasto saldo e solido.
Bueb invita cineasti (Claire Denis, Olivier Assayas, Michael Cimino, Rithy Panh), convoca critici, organizza simposi intorno ad argomenti determinati che riguardano la storia del cinema, oltre a rassegne particolarissime che sostituiscono i programmi della inattiva Cinémathèque.
Per l’anno seguente sta approntando, insieme a fidati collaboratori, le cerimonie del centenario del 1914, che si terranno a Sarajevo dal 21 al 28 giugno, sotto il titolo “Sarajevo cuore d’Europa”. «È un’occasione che non si ripeterà mai più, dobbiamo farci trovare preparati al meglio».
Il Centro ha anche annunciato per il 2014 la nascita del film collettivo “I ponti di Sarajevo”, lungometraggio a episodi prodotto da Servan-Schreiber e realizzato da autori diversi tra cui Godard, Pedro Costa, Ursula Meier, Isild Le Besco, Aida Begic.

Film Factory. Gruppo di lavoroTerzo fronte di lotta (e di resistenza): la scuola di cinema “Film Factory”.
L’evento più giovane e recente, atto di nascita febbraio 2013, che si rivolge a registi non alle prime armi ma che abbiano già affrontato prove e sperimentazioni. Consente di ottenere un dottorato, riconosciuto dall’Unione Europea.
In questo primo anno sono confluiti 16 giovani registi, arrivati da Iran, Giappone, Messico, Spagna, Portogallo, Islanda, Francia, Stati Uniti e Serbia.
Una realtà importante, della quale sentiremo parlare nei prossimi anni, via via che il lavoro di studio e applicazione avrà trovato solide radici operative.
Soprattutto perché l’originale, prestigiosa sorpresa di questa Scuola è il suo “direttore artistico”, se così posso chiamarlo (l’investitura ufficiale recita: Responsabile del programma e Preside del Corso di Dottorato in Film Factory alla Scuola di Scienze e Tecnologie dell’università privata di Sarajevo): uno tra i maggiori registi-autori del nostro tempo, purtroppo misconosciuto dal grande pubblico e poco studiato dagli addetti ai lavori.
Si tratta di Béla Tarr, a cui se non altro siamo debitori per la volontà di mantenere in vita l’espressione “cinema d’autore”, figura carismatica di cineasta sospeso tra due “mondi”: il cinema come immagine del mito e il cinema come occasione di confronto e di scontro con gli ineludibili temi della condizione umana.
Se si coglie l’autorevolezza con cui il regista ungherese mette in scena l’inquietante dialettica tra ciò che chiamiamo “memoria del mondo” e ciò che ci appare “mondo nuovo”, quindi le sofferte contaminazioni che si accendono e si sviluppano incessantemente… e se è mai esistito un regista che vuole fare “filosofia” con la macchina da presa, lavorando sul tempo, sulla dimensione immagine-tempo, costui risponde al nome Béla Tarr.

Bela TarrNessun dubbio che il suo impegno sarà a tempo pieno: Tarr si dedicherà unicamente, esclusivamente, alla Scuola, avendo abbandonato il lavoro di regia due anni fa, dopo l’uscita dell’ultimo film, “Il cavallo di Torino”, come del resto aveva stabilito e preordinato: «È il mio ultimo film, considero concluso il mio lavoro, ho detto tutto ciò che avevo da dire!».
55 anni, 7 film realizzati, tra cui “L’uomo di Londra”, 2007, e “Satantango”, film uscito nel ’93 che gli valse premi e plausi della critica più avveduta, la cui durata si attesta sui 450 minuti, ciò che basta a far intravedere il profilo di rischio e di azzardo dentro cui egli ha operato.
Tra i partecipanti iscritti in questa prima sessione 2012-2013 del corso di dottorato c’è Koja Ho Kramer, figlia di Robert Kramer, che così commenta la situazione della Scuola: «A Sarajevo, una delle città più povere d’Europa, i mezzi a disposizione del cinema sono limitati rispetto ad altri luoghi. Anche se non si ottiene il massimo, si ha tuttavia una “Red”, una valigia di obbiettivi, un camioncino con luci e attrezzi e i tecnici del luogo. Poi c’è Béla Tarr. Lo si incontra individualmente, uno per volta, e gli si parla del progetto che si intende realizzare. Non è un pedagogo, possiede un’intelligenza perspicace e intuitiva. Non dice: “Fai così” oppure “Fai come me”, ma: “Cerca, trova e torna quando sei pronto a riparlarne”. Dice che l’importante è saper vedere la realtà. Da questi dettagli si comprende che fare film in questa Scuola non è produrre un saggio per il Centro Nazionale di Cinematografia, è invece parlare di cinema con persone che ne sanno e poi metterlo in pratica».

Il cavallo di TorinoLe linee-guida di Béla Tarr come formatore appaiono dettate dall’esperienza del set, dalla rude militanza del regista-autore che conosce bene le condizioni di fatica e di impegno che rendono possibile la nascita di un prodotto.
Affiancato durante l’anno da registi che intervengono su temi specifici, i cui nomi sono presto identificabili nella galassia della cinefilia: Aki Kaurismaki, Carlos Reygadas, Jim Jarmusch, Atom Egoyan, Apichatpong Weerasethakul, Gus Van Sant, Tilda Swinton, Manuel Grosso e Fred Kelemen.


Bela TarrTraduco i passi salienti di alcune risposte che Béla Tarr ha offerto nell’intervista di Céline Gailleurd, raccolta il 22 aprile a Sarajevo.
«La “Film Factory” non è una Scuola. È un luogo dove ciascuno dei partecipanti lavora sul proprio progetto, incontra registi affermati, storici e critici del cinema. Per noi elemento essenziale è la creatività. Preferisco considerare i giovani registi come partner, compagni di viaggio, piuttosto che come allievi.
Mi piacerebbe lavorare qui con uno spirito vicino a quello che si respirava negli anni del “Bauhaus”, quando i giovani creatori erano in contatto permanente con artisti più esperti e maturi, e insieme sviluppavano un progetto comune.
Il termine “scuola” non mi piace, perché le scuole di solito stabiliscono regole e principi. Ma in un’epoca in cui chiunque può fare un film con un telefono cellulare, quelle regole sono superate. Ciascuno ha le proprie regole. Ciò che noi tentiamo di portare come valore aggiunto è un “contesto” di azioni e di riflessioni che incoraggi i partecipanti a comprendere bene ciò che intendono veramente fare.
Ho scelto Sarajevo perché è un luogo multiculturale, permeato da tre culture: gli ortodossi, i cattolici, i musulmani. È un paese pieno di tensioni, un paese carico di Storia, ciò che può far bene alla formazione di un giovane regista.
Non abbiamo aiuti dall’Unione Europea. La nostra situazione finanziaria non è incoraggiante, tuttavia non vogliamo fare compromessi né muteremo alcunché del programma iniziale.
Intanto abbiamo videocamere, luci e obiettivi da mettere a disposizione. In questo primo anno, poi, con il piccolo budget a disposizione, non possiamo disporre di cineprese a 35 mm. Per me i film si girano in pellicola e in formato 35. I film che si fanno oggi con la tecnologia digitale sono “falsi film”, anche se la tecnologia digitale offre buone possibilità.
I giovani registi utilizzano il digitale senza però riflettere sui nuovi “linguaggi” che il digitale produce. Si utilizzano le videocamere come fossero cineprese 35 mm, ma questo è un errore.
Fare film non si può insegnare. Si può imparare come funziona una videocamera o una cinepresa, ma anche gli aspetti tecnici di questo lavoro necessitano almeno di due anni di apprendistato.
Alla fine, comunque, sono sempre la fantasia la tenacia la combattività il talento, a prevalere.
Non sono un professore, mi limito a porre alcune questioni. Non amo fare conferenze, non ho mai riunito insieme i sedici allievi per parlare del lavoro di regia: non lo faccio perché ciascuno ha una propria personalità, ha gusti, idee e approcci differenti rispetto agli altri, senza trascurare che arrivano dai quattro angoli del mondo.
Preferisco colloqui individuali. Se facessi un lavoro collettivo, li limiterei, li spingerei a essere uguali, ma loro non sono uguali e io amo questa differenza».

Riunione di lavoroScommessa importante e avvincente, dal gusto di “missione” e di sfida. Non c’è, al momento, che essere solidali con Béla Tarr e con la sua impostazione, rimandando ulteriori valutazioni ai giorni in cui sarà possibile trovare sugli schermi la scritta “Film Factory presenta”.
Inutile nascondersi quanto sia arduo il cammino, l’itinerario critico e pragmatico cui una scuola di cinema deve saper corrispondere. Si tratta di costruire e ricostruire un campionario infinito di “storie” che corrono parallele o affiancate al cinema (la visione critica e sistematica degli ultimi due decenni ha svelato definitivamente il valore dell’approccio multiplo e al tempo stesso “indiretto” di cui il prodotto-cinema necessita), attraverso le quali si produce arte, conoscenza e… incantamento.
Una Scuola che – così la immagino – sappia congiungere l’infinitamente distante (la porzione del Mito) con l’infinitamente prossimo (il regno ineludibile delle Nuove Tecnologie).
Mantenendo come sottofondo le domande fondamentali, che solitamente hanno due modalità per presentarsi e farsi riconoscere: Che cos’è il cinema? Perché fare cinema?

Un giorno saranno registiSarajevo City of Film

 

Bela Tarr23 ottobre 2013