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Ebraismo - A. Matta

(Re)Visioni del Novecento/ Sulle tracce dell'olocausto

Memoria e omissioni: l'Italia e la “questione ebraica” tra grande e piccolo schermo – dal Neorealismo al porno-nazi - nel saggio su “La Shoah nel cinema italiano”.  Intervista ad Andrea Minuz. di  Alessandro Matta

''La Shoah nel cinema italiano''E’ uscito in questi giorni in Italia per la Rubbettino Editore un prezioso numero della rinomata rivista “Cinema e Storia”, dal titolo “La Shoah nel cinema italiano”.  Il volume, a cura di Andrea Minuz e Guido Vitiello, è un viaggio sul ruolo fondamentale svolto da Cinema e Televisione nel nostro paese sulla memoria della Shoah.

Dai primi film e documentari degli  anni del dopoguerra, ancora oggi semisconosciuti, passando per i generi “neorealistici” italiani degli anni’50 e ’60 (Pontecorvo, Rossellini…), fino ad arrivare al “boomerang” provocato dalla trasmissione, a fine anni ’70, nelle tv di tutto il mondo, dello sceneggiato televisivo “Holocaust”, accompagnato negli stessi anni da generi italiani più autoctoni (a cominciare dal filone di film “Porno-Nazi”), fino ad arrivare ai giorni nostri e alla percezione di successi internazionali vincitori di grandi premi, tra cui spicca il nostrano “La vita è bella”

Dottor Minuz, fino ad oggi la bibliografia italiana sul tema del rapporto “Cinema-Shoah” è piccola. Fatta esclusione per l’ottimo testo di Claudio Gaetani pubblicato nel 2004, e per il volume di Cesare Saletta e Francesco Monicelli del  1998, oltre ad alcuni articoli o voci enciclopediche in pubblicazioni storiche come la “Storia della Shoah”, non vi è quasi nient’altro. Il numero sul cinema italiano davanti alla Shoah di “Cinema e Storia” colma una forte mancanza nel panorama letterario-cinematografico del nostro Paese. A cosa si deve una così scarna bibliografia italiana sul rapporto cinema-shoah?
In America, in Inghilterra, in Francia e in Germania, la riflessione sulla memoria culturale della Shoah accoglie una nutrita quantità di studi dedicati esclusivamente al cinema. Si tratta di una letteratura cresciuta in termini esponenziali soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta, sulla scia della popolarità internazionale di film come Schindler’s List o La vita è bella, a partire dallo studio pionieristico di Annette Insdorf, Indelible Shadows, fino ad arrivare al monumentale The Holocaust Film Sourcebook, per proseguire con studi sempre più specifici, circoscritti a precisi contesti nazionali o a singoli film. Diverso il discorso per l’Italia. L’esiguo numero di lavori sul tema chiama in causa anzitutto lo scarso mercato editoriale di libri in lingua italiana su un argomento del genere. Ma anche la diffidenza degli storici italiani verso i cultural studies, dunque verso le prospettive che integrano, attraverso il cinema, la sociologia, la storia, la memoria. Ma certo quello che sorprende ancora di più è l’assenza di studi sistematici sul cinema italiano e la Shoah, un campo affidato fino ad ora ad alcuni lavori in lingua inglese (mai tradotti). Questa assenza è la spia di una memoria italiana che da un lato è certo in linea con la dimensione universalizzante della Shoah, ma dall’altro ha ancora molto da fare per quel che riguarda il contesto nazionale.

''Il giardino dei Finzi Contini''La vostra pubblicazione sulla Shoah nel cinema italiano non è l’unico lavoro che portate avanti sul tema. Infatti sia lei che Guido Vitiello siete tra i principali “Archivists” di “Holocaust Visual Archive”, un sito che si occupa di collezionare immagini presenti e passate della memoria visiva della Shoah, in tutte le sue forme: cinema, fumetti, libri illustrati, pubblicità, quotidiani, televisione, cartoons…  Quali sono i casi di banalizzazione visiva della Shoah davanti ai quali vi siete trovati nel curare questo sito?
Niente è “banale” o “triviale”. Il nostro scopo non è dare dei giudizi valutativi, né estetici, né morali. Ogni frammento compone un vasto atlante visuale che restituisce le diverse funzioni che la memoria della Shoah svolge nel nostro immaginario.

Restando in tema di banalizzazione della Shoah nel nostro cinema: lei sostiene in una recente intervista rilasciata a Luca Balduzzi che il genere “nazi-sexploitation” non è “tutto italiano” ma comunque è l’unico genere legato alla Shoah presente con forza e costanza al nostro paese, con decine di titoli realizzati negli anni’70. Ora, vero è che molti sono i film italiani di questo tipo, ma vi è anche un filone “francese” di nazi-sexploitation del medesimo periodo: da “Nathalie dans l’enfer Nazi”a “Train speciale pour Hitler”. In questo caso, possiamo dire che la Francia ha tratto dall’Italia un esempio nel produrre dei titoli di questo tipo? Dobbiamo considerare questi titoli francesi piuttosto magari un ispirarsi al filone di “Ilsa”?
Il discorso sul “nazi-sexploitation” è complesso, ed è scivoloso. Dobbiamo tenere conto di almeno tre fattori. Anzitutto del fatto che questi film sono parte di una più vasta “liberazione sessuale” che investe tutta la cultura popolare a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. E che proprio la cultura popolare è il traino principale della pansessualizzazione della società in quegli anni. Poi, in questi stessi anni, l’immaginario nazista viene riletto anche come la quintessenza della perversione e della trasgressione erotica in una serie eterogenea di discorsi (dalla musica, al cinema, ai fumetti, all’arte contemporanea). Un fenomeno su cui all’epoca già si interrogavano  Michel Foucault e Susan Sontag. Il filone “Ilsa” e il “nazi-sexploitation” non possono essere compresi al di fuori di questo fenomeno, ma soprattutto, in alcuni casi, devono essere rapportati al cinema d’autore di quegli anni. Visconti, Fassbinder, e film come Il portiere di notte, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Pasqualino Settebellezze. I nazi-sexploitation cioè possono essere visti come l’abbassamento, la dilatazione pornografica, o anche la parodia di una tendenza che coinvolgeva anche i piani “alti” della cultura.

In tutto, secondo i dati raccolti dallo Yad Vashem nel suo database, sono oltre 10.000 i film e i documentari fatti sul tema della Shoah in tutto il mondo . Secondo lei vi è il rischio (o se per lei non è un “rischio” ma è cosa positiva) che la Shoah divenga un “genere cinematografico” a sé stante, come il western o il thriller? Secondo lei , si può dare una sorta di “regolamento” a ogni regista che voglia approcciarsi al genere per evitare che si sconfini nella banalizzazione o nel mancato rispetto per le vittime?   
Già nel 2008, in riferimento a grosse produzioni con Kate Winslet (The Reader, S. Daldry), Tom Cruise (Valkyrie, B. Singer) Daniel Craig (Defiance, E. Zwick), fino a Quentin Tarantino (Inglourious Basterds), un lungo articolo del «New York Times» sul successo di queste finzioni avanzava con preoccupazione l’idea che esse ormai costituiscano per il pubblico un genere cinematografico come altri. Ma era un problema che aveva già affrontato Primo Levi ai tempi della serie TV Holocaust, nel 1978. Vale la pena citarlo perché credo sia la migliore risposta agli interrogativi che ci pongono i film di genere che affrontano la Shoah. Diceva Levi:
“In principio c’è lo show-business, l’affare dello spettacolo, e cioè la gigantesca macchina dell’industria culturale americana. È un’industria che non sfugge alle regole, alle leggi ed alle consuetudini di qualsiasi altra industria: comporta previsioni, ricerche di mercato, programmi di spese, ammortamenti, rischi e ben dosate campagne pubblicitarie, e mira al profitto. Come ogni altra industria, fa tesoro delle esperienze precedenti, proprie ed altrui, e l’esperienza insegna che il profitto più alto si ottiene attraverso un oculato bilancio di inventività e conservazione. Sono queste le premesse utilitarie e sensate da cui è nata l’operazione Olocausto. Si tratta di imprese ad un tempo ciniche e pie, e la contraddizione non deve stupire, dal momento che l’autore non è uno solo: gli autori sono molti, e fra i molti ci sono appunto i cinici e i pii. Non mi pare che si possano fare obiezioni serie; fin da Eschilo, lo spettacolo pubblico ha attinto alle sorgenti che più muovono il pubblico e queste sono il delitto, il destino, il dolore umano, l’oppressione, la strage e la riscossa”

''La vita è bella''Nel volume si fa una ricostruzione della ricezione italiana dello sceneggiato tv “Holocaust” del 1978 ,e si chiarisce come in Italia, diversamente da tutti gli altri paesi, quello di “Holocaust” sia stato un successo mancato e non di così alto spessore, a causa anche di fenomeni paralleli poco ricordati (come la messa in onda durante l’orario della prima puntata, sul secondo canale nazionale, di uno speciale Tg2 con un documentario sul conflitto israelo-palestinese dai toni eccessivamente contro lo stato Ebraico e eccessivamente banalizzatori nei confronti della memoria della Shoah). Un’analisi molto ben fatta. Un destino simile accade anche alla prima tv del documentario “Shoah” di Lanzmann, anche esso momento mancato nella nostra televisione a causa di una prima tv andata nel 1987 a tarda notte sul terzo canale per quattro notti consecutive. Come mai nel nostro paese due mancate percezioni di due prodotti non italiani ritenuti molto importanti per la conoscenza dell’argomento? Come mai nel nostro paese si dovrà attendere “Schindler’s List” e “La vita è bella” perché tutti veramente inizino a voler conoscere e soprattutto a voler ascoltare anche i testimoni? 
Non è facile dare una risposta a questa domanda, perché è la domanda-guida, per così dire, di tutto il volume e di tante altre ricerche sulla memoria della Shoah nel nostro Paese. Ci sono anzitutto fattori internazionali. Ovvero, la distanza storica e la scomparsa dei testimoni, la caduta del muro nel 1989, cioè la fine di un ordine mondiale che era ancora basato sulle conseguenze della seconda guerra mondiale. Poi ci sono ragioni interne. Il mito degli “italiani brava gente”, che ha trasformato il nostro Paese in un Paese vittima della Shoah quasi dimenticando che nel 1938 abbiamo emanato le Leggi Razziali e rimuovendo completamente la dimensione autoctona del razzismo italiano. Poi c’è il mito della Resistenza che a lungo ha impedito di fare chiarezza sulla vittime della Shoah, assimiliate ai martiri politici del nazifascismo. Poi c’è il cono d’ombra che avvolgeva la Chiesa Cattolica o l’antisemitismo di sinistra. Infine, nel caso specifico di Holocaust, c’erano i pregiudizi non scevri da antiamericanismo, verso un prodotto della cultura popolare. Pregiudizi tipici di quegli anni, e purtroppo anche di questi.

 Ci saranno altri numeri della vostra rivista dedicati ad analisi dell’approccio del cinema di altri paesi con la Shoah?
Per ora non sono in programma. E anche per quel che riguarda l’Italia, c’è ancora molto da fare. Il nostro è solo un primo tentativo di sistemazione di una materia vasta e complessa. Ma è indubbio che ormai la letteratura sul cinema e la shoah si muoverà sempre di più lungo ricerche nazionali.

6 novembre 2013