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Capo e Croce - Le ragioni dei pastori

La fatica quotidiana, le battaglie, l'impegno, il silenzio della politica in un realistico bianco nero. di Salvatore Pinna

Le ragioni dei pastori a Roma

“Una volta un pastore stava passando e un carabiniere gli ha detto: ‘Io lo so quante pecore c’hai’. ‘E quante ne ho?’ E quello gli ha detto: ‘Duecentocinquanta’. ‘Cazz…’, ha detto ‘vero. Bravo! Visto che hai indovinato, prenditi una pecora’. Quello va e si prende il cane! ‘Tu sei carabiniere!’, dice.”

L’affabulatore è Giovanni Masia, un pastore che interpreta la parte del pastore in “Capo e croce” di Paolo Carboni e Marco Antonio Pani e che ci sorprese come eccezionale interprete del personaggio di Totoi in “Panas” dello stesso Pani. La performance è accolta da risate fuori campo di altri pastori e dal latrato di un cane, forse quello che stava per essere prelevato come agnello. Intorno al pastore si svolge una giornata ordinaria di vita di campagna. L’azienda (una volta si sarebbe chiamato ovile), gli altri pastori, cavalli che scorrazzano all’aperto, un trattore, le pecore al pasto. Una campagna al risveglio, ancora confusa nella foschia dell’alba. La scena è ovattata dall’aria di “O mio babbino caro” dal Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. Musica extradiegetica direbbero i professori di cinema, dato che i pastori nell’azienda non ascoltano, così si pensa, Puccini.

''Capo e croce. Le ragioni dei pastori''È un addolcimento della vita, una scelta estetica dei due registi, un invito a considerare il pastore sardo fuori dai luoghi comuni e una parentesi di silenzio dopo un esordio pieno di frastuono, urla, minacce, scontri duri che hanno una data: il 19 ottobre 2010 quando “migliaia di pastori si riuniscono a Cagliari nella speranza di porre fine ad una lotta con la quale rivendicano maggiore tutela e un giusto prezzo per i loro prodotti.” L’incipit condensa in pochi minuti le ragioni dei pastori. Una marcia di avvicinamento alla sede del consiglio regionale. Un cartello che dichiara con efficacia letteraria gli antagonisti: “Politici, industriali, sindacati: le volpi dei pastori.” Segue il momento epico davanti al palazzo del potere: Felice Floris, leader del movimento dei pastori, lancia un ordine incredibile: “Circondate il palazzo! Nessuno deve uscire!”
Sul nero entra un arpeggio di chitarra, quieto. Passata è la tempesta. La lotta, la sua asprezza sopra le righe non è lo stato permanente ma un’eccezione necessaria. Non è un film sulle lotte dei pastori sardi di questo inizio millennio, è piuttosto un film su uomini che fanno i pastori, che hanno idee, sogni, desideri, affanni che si devono confrontare col mondo. E questo mondo è all’opera intorno a loro e spesso contro di loro o nell’indifferenza rispetto a loro. La vita, prima e dopo la lotta, è un’altra.

''Capo e croce. Le ragioni dei pastori''O meglio, un altro tipo di lotta scandisce il giro del tempo dei personaggi in copione. Della normalità della vita fa parte anche il ripensare alle lotte appena fatte. Perciò mentre si è affaccendati nell’azienda-ovile ci può essere un dibattito su come diavolo la polizia sapeva in anticipo i movimenti dei pastori. I personaggi sono: Giovanni, Felice, Priamo, Tore, Michele. Un altro Giovanni, Dino, Paolo. Vanno nominati perché ciascuno di loro è portatore di un mondo di esperienza, di progetti, di pensieri e di sogni e dà vita ad un iper-racconto pieno di storie e di stupendi paesaggi agrari, colti al meglio della loro ambivalenza produttiva ed estetica. Questa materia si dipana in un racconto avvincente, incalzante, persuasivo che ha anche momenti di vero divertimento. I toni e i movimenti concitati delle manifestazioni, si alternano con quelli concentrati e intensi dell’organizzazione, con le riflessioni personali, con le conversazioni familiari: sono le parole segrete del doversi confrontare con i problemi di ogni giorno. Perché, ad esempio, anche i figlioletti dei pastori possono essere colpiti da rare malattie degenerative. Quando i pastori si imbarcano sulla nave per Civitavecchia – a Roma li attende una dura manifestazione – la regia accarezza il loro sonno con l’aria “Vissi d’arte”.

''Capo e croce. Le ragioni dei pastori''Dopo il trambusto del lavoro e quello dell’imbarco l’aria pucciniana, cantata intensamente da Simonetta Soro, crea un silenzio più profondo del silenzio, perché quella musica entra nell’intimità del sonno e nel segreto di chissà quale sogno.
I personaggi principali parlano per tutti, ma ognuno reca il segno indelebile di una propria personalità, di una forza o di una debolezza, di una paura e di una speranza che sono vissute in prima persona e che sono di tutti perché condivise. Le loro parole, rivelano una capacità di ragionare bene e di intuire bene. E comunque con la propria testa.
Lo si vede quando in una manifestazione a Cagliari fanno la comparsa alcuni politici di mestiere.  Pesci fuor d’acqua in questa lotta nuova e partecipata, dove ciascuno conta quanto contano i problemi di ciascuno. In una manifestazione viene dato il megafono ad un deputato sardo, affiancato da colleghi di tutti i gruppi politici. La camera filma con sagacia “oggettiva” una concione che rovescia sui manifestanti secchiate di retorica (anche io sono figlio di pastori, dice il politico). Uno dai manifestanti, che la camera afferra con una provvidenziale panoramica a schiaffo, invita il politico a dimettersi come si è fatto in Irlanda. La camera non stacca sui singoli politici, non punta a creare aneddoti specifici. Una ripresa totale unifica le facce di maggioranza e di opposizione tanto è una sola l’incomprensione, una sola l’incomunicabilità tra i due mondi. Che cosa possono dire i politici a Tore, convinto che loro fanno “orecchie da mercante però la pastorizia, anche se è in crisi, è la maggiore economia che abbiamo oggi in Sardegna, perché oggi le fabbriche sono andate.”

''Capo e croce. Le ragioni dei pastori''Che cosa possono dire a Priamo che ha tratto dalle manifestazioni una consapevolezza nuova: “Oggi c’è una maggior coscienza politica nel manifestare da parte del pastore, cioè oggi è più in grado di contrastare una politica rispetto al passato.” Cosa potranno dire a Paolo che da tre anni sta combattendo con la mastite delle pecore che lo ha rovinato. “Molti piccoli come me presto spariranno, io sparirò per primo. Non sono tanti i debiti che ho, l’unica sarebbe togliermi questo casino della casa…, me l’hanno messa all’asta per ottomila euro.”
Gli sfratti sono lo sbocco terminale di crisi che i pastori devono affrontare in una assoluta solitudine. In “Capo e croce” c’è l’episodio dello sfratto dell’azienda agricola di Terra Segada. I giornali, nel 2011, parlano di un’azienda di “120 ettari, valore più di un milione e mezzo, andata all'asta per debiti a Equitalia, acquistata per soli 120 mila euro.” Ma un conto è la cronaca un altro è il privilegio di cui gode lo spettatore di assistere dall’interno alla commedia grottesca di istituzioni all’opera, sorde ad ogni ragione, impermeabili ad ogni buon senso. La sintesi avviene in una successiva assemblea: “L’altro giorno abbiamo assistito inermi a un atto codardo e incivile. Hanno portato via l’azienda a un nostro fratello, gliel’hanno portata via in forze. Centinai di uomini con mezzi, elicotteri, col silenzio, col silenzio radio.”

''Capo e croce. Le ragioni dei pastori''Chi scrive non nasconde di aver trepidato per questo film che prendeva la navigazione dei festival e in particolare del concorso Prospettive Doc Italia del Festival internazionale del film di Roma. Perché era sicuro che andava a incontrare giurie difficili. Non difficili per troppa competenza di cinema ma per l’ancoraggio a modelli e schemi compositivi e narrativi consueti (tutti hanno un loro “su connottu”) ed estranei al mondo di “Capo e croce”. La prima insidia è la scelta del bianco e nero. A parte le ragioni di funzionalità economica che non bisogna sottovalutare, il bianco e nero è una scelta estetica ma anche di moralità comunicativa. Astrae le vicende dall’attualismo televisivo, e dichiara che ciò che si vede non sono i fatti ma la rappresentazione di fatti. Altre insidie sono insite nella molteplicità di storie, nella durezza della fonia, direi nell’habitat sonoro, così urticanti per sguardi “comodi” che hanno più familiarità con la fiction, che prediligono pochi e smarriti personaggi in scena, esistenze urbane estreme, storie periferiche e residuali. Niente nei pastori di “Capo e croce” è estremo o marginale. Le vite sono sofferte ma positive, i toni forti ma strutturati, il mondo che propongono è netto, chiaro, decifrabile: è nient’altro che una nuova moralità, un’etica nuova della vita e dell’agire economico. Non c’è un pianto, non un lamento. Anche nelle situazioni che lo spettatore percepisce più accorate e drammatiche c’è un dolore controllato. La risata, quando c’è, è aperta e per nulla sardonica, l’intelligenza dell’ironia pervade anche la geografia dei volti. Non ci sono pugni chiusi. Perché c’è la rivelazione di una lotta nuova, originale, di un movimento di sardi che cerca di spiegare le proprie ragioni senza partiti, - il che non esclude opzioni individuali variegate - eppure matura e aperta alle alleanze, capace di riflettere sui propri successi e sui propri limiti.

Alla fine… si deve dire che un film come questo non trae il suo significato da una fine ma da uno svolgimento. Anche qui sta il suo fascino. Tuttavia il film affida a degli inter-titoli, veri e propri brani di racconto, la chiusura delle storie personali dei protagonisti. Mentre la chitarra di Mauro Palmas accompagna il silenzio con variazioni su arie pucciniane.  

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Vai a “Ìsura da Filmà”: Fiorenzo Serra e "la Sardegna filmata in libertà" di Salvatore Pinna

20 novembre 2013