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Il futuro del cinema, tra sala e filmmaker

Il digitale cancella la pellicola. La rimpiangeremo? di Gianni Olla

La pellicolaAddio Pizza. Questo è il termine, volutamente ambiguo, usato dall’associazione Spazio 2001 per salutare gli ultimi giorni della pellicola cinematografica, che, pronta ad essere montata su un proiettore, aveva la forma di una grande pizza, o, nei decenni passati, di una pizza normale che scorreva, a rulli alternati, in due proiettori paralleli.

Lunedì 16 dicembre, presso la sala del cinema Odissea, l’hanno celebrata  – mangiando una fetta di pizza vera, per fortuna non estinta – critici, operatori culturali, lavoratori dello spettacolo, ma soprattutto esperti di archivi filmici come Giuseppe Pilleri, della Cineteca Sarda, e Gianluca Farinelli,  direttore della Cineteca di Bologna, una delle maggiori istituzioni culturali europee e mondiali nel campo della conservazione, del restauro, e della diffusione del patrimonio cinematografico storico-culturale, necessariamente votata ad una svolta tecnologica epocale.
Da Farinelli è anche arrivata la sorpresa più bella della serata: un’ora di proiezione – in pellicola e in digitale – attraverso la lunga storia del recupero e del restauro di capolavori della storia del cinema. Tra questi, appunto, L’emigrante (1917) di Charles Chaplin, il primo divo internazionale della storia del cinema, della cui opera l’istituzione bolognese sta curando da molti anni il recupero e il restauro.

''L'emigrante'' di Charlie ChaplinMa bisogna anche ricordare, fuori da questa occasione celebrativa e commemorativa, che la stessa Cineteca, in questi mesi, sta distribuendo nelle sale italiane – ed anche a Cagliari, fortunatamente – un pacchetto di restauri digitali particolarmente attraenti, che comprende Il gattopardo di Visconti (1963), Les enfants du paradise di Carnè (1945), La febbre dell’oro di Chaplin (1945), Ninotschka di Lubitsch (1939), La grande illusione di Renoir (1936), Hiroshima mon amour (1962) di Resnais.
Ed ora entriamo finalmente in argomento, partendo pur sempre dalla cronaca. Dal 1 gennaio del 2014, nelle sale cinematografiche – piccole e grandi – si proietterà esclusivamente attraverso il “Digital cinema package”, un hard disk che contiene i file, proprio come in un comune dvd con una definizione delle immagini ben più alta, capace di superare quella dei film in pellicola.

La pellicolaOvviamente, gli archivi storici – in pellicola – delle cineteche di tutto il mondo, non verranno toccati, e sarà sempre possibile vedere dei film proiettati attraverso il vecchio sistema del fascio di luce che attraversa la striscia di triacetato di cellulosa, larga 35 millimetri, in cui sono state “incise” – per usare un termine non tecnico – le immagini positive, stampate a contatto di un altro nastro di pellicola, quello negativo, che scorre nelle grandi o piccole macchine da presa.
Per chiarire meglio questa introduzione, basterà ricordare che, la striscia di pellicola larga 35 millimetri, era la stessa dei rullini che si usavano nelle macchine fotografiche, amatoriali o professionali, e che poi venivano stampate negli studi fotografici – o anche nei laboratori casalinghi – restituendo al cliente anche le strisce “negative”, utili per altre future stampe delle stesse immagini.
Questo procedimento chimico ebbe inizio ben prima del cinema e, fino agli anni Cinquanta del Novecento, ebbe come supporto una sostanza pericolosa, la celluloide, altamente infiammabile, che non solo era di difficile conservazione, ma esponeva al rischio d’incendio le sale cinematografiche – qualcuno ricorderà le drammatiche immagini di Nuovo cinema Paradiso – e, naturalmente, i magazzini in cui venivano conservati i film.

''Nuovo Cinema Paradiso''Il nuovo supporto ininfiammabile, il triacetato di cellulosa, ha avuto vita gloriosa ma breve: nelle macchine fotografiche, la pellicola si è estinta più di dieci anni fa, sostituita dai chip di memoria in cui incidere le immagini fisse, ed oggi, si chiude anche la lunga e gloriosa storia tecnica della pellicola cinematografica.
Per la verità anche questa profezia assolutistica è stata contestata da Farinelli, il quale ha ricordato che, per quanto riguarda i vecchi film, ogni restauro digitale ed ogni successiva fruizione – pubblica e privata, attraverso i DVD commerciali – passa necessariamente da un negativo (quando esiste) o da un positivo fotografico in pellicola. Ha quindi aggiunto che, mentre è ormai assodato che la pellicola, ben conservata, resiste benissimo all’usura del tempo, nulla si sa del futuro del digitale: la tecnologia contemporanea corre veloce, ma nessuno ha ancora trovato modo di garantire un lungo futuro ai “files” di un film girato in digitale, se non, paradossalmente, stampando anche una copia in pellicola.
Infine, di nuovo Farinelli, ha ricordato che anche al cinema potrebbe capitare ciò che sta accadendo alla registrazione sonora: le case discografiche stanno ristampando le grandi incisioni storiche, classiche o anche jazzistiche e rock, con il vecchio supporto di vinile, mettendo in circolazione nuovi dischi a 33 giri, di gran lunga più completi nelle sonorità di quanto non siano le incisioni nei Compact Disc (CD).

Ken LoachIn ogni caso, a fine anno, ci sarà la rivoluzione tecnologica del digitale, che potrà appunto durare a lungo o essere dimenticato in favore di nuovi approdi tecnologici.
La ragione di questa svolta, da tempo profetizzata, e soprattutto fortemente auspicata e studiata tecnicamente dall’industria dello spettacolo, è, come sempre, economica: stampare una copia in pellicola non costa meno di 1500/2000 euro, e questo spiega perché i film produttivamente ricchi, belli o brutti che siano, vengono proiettati in centinaia di sale contemporaneamente, mentre molte opere d’autore si devono accontentare di tre o quattro copie per l’intera penisola. Al contrario la riproduzione dei files digitali contenuti nell’hard disk ha un costo bassissimo e questa è, appunto, una buona notizia per le sale d’essai e per i vecchi cinema di paese che potrebbero riprendere a proiettare senza costi eccessivi legati alla materia prima. Infine l’uso del digitale non comporta problemi di magazzino, ovvero ulteriori costi per produttori e distributori. Se poi lo stesso calcolo economico si applica alle riprese, ecco che la cancellazione della pellicola riduce anche le spese  “tecniche” della lavorazione di un film. Ovviamente, se la discussione si sposta sul piano estetico, non si finirebbe più di ascoltare pareri autorevoli pro o contro il digitale, ma intanto, a produrre pellicola, per i pochi cineasti – tra cui Ken Loach e Paolo Sorrentino – che ancora la usano, è rimasta la Kodak, in un’unica fabbrica, a Rochester, Illinois, che la spedisce su ordinazione, via mare, con tempi lunghissimi.  

''2001. Odissea nello spazio''Ma, proprio perché la rivoluzione tecnologica è arrivata a coprire l’intero ciclo economico di un’opera cinematografica, anche quel prezioso e raro negativo fotosensibile sarà poi convertito in digitale per essere proiettato nelle sale.
Ma, prescindendo dalla resistenza, magari non solo affettiva, di tanti cineasti, è certo che, ben prima di questo progressivo cambiamento, proprio la digitalizzazione delle immagini ha messo in moto  diverse mutazioni nell’ambito creativo. Da almeno vent’anni, i vecchi trucchi delle sovrapposizioni di immagini – inventate casualmente da Méliès – o delle città di cartapesta e legno, visibili solo dall’esterno (gli scenari western), o anche dei modellini che rappresentavano, credibilmente o meno, navi,  aerei, carri armati, treni in corsa, è caduta in disuso e con essa la dicitura dei vecchi film spettacolari hollywoodiani che esibivano “migliaia di comparse”. Ricordiamo per inciso che un film come 2001 Odissea nello spazio (1968), totalmente votato verso un futuro ipertecnologico, fu realizzato interamente con i vecchi metodi dei “truka” e dei modellini.

''Il Signore degli Anelli''Al contrario, per indicare la tecnica e l’estetica del digitale, presente massicciamente nei tanti esempi di film “senza attori”, più o meno simili ai vecchi cartoni animati (film con pupazzi, etc.) o alla saga de Il Signore degli anelli di Peter Jackson, entrambi fieri di esibire una virtualità rappresentativa di altissimo livello, basterebbe confrontare il vecchio La caduta dell’impero romano (1964) con il più recente  Il gladiatore (2000). In quest’ultimo titolo, diretto da Ridley Scott, che può essere considerato quasi un remake del film di Anthony Mann – Roma è interamente, e visibilmente, ricostruita al computer, e le migliaia di comparse che combattono nelle foreste della Germania sono solo poche decine moltiplicate dal computer.
E ancora, nell’ultima trasposizione filmica di Il grande Gatsby, l’atmosfera dei ruggenti anni Venti newyorchesi è resa, sempre grazie al computer, con immagini da “graphic novel”. Un caso emblematico di slittamento di senso agevolato proprio dalle tecniche digitali: difatti, per dare un rilievo visivo storicamente credibile al romanzo di Scott Fitzgerald, si sarebbero dovuti reinventare i quadri di Edward Hopper.

''Il grande Gatsby''Vero è che la percezione di tali cambiamenti è possibile solo per uno spettatore che abbia fatto a tempo a vedere la vecchia spettacolarità cinematografica, ma, poiché quei film si possono vedere – ed in ottime condizioni, restaurati e in alta definizione – sugli schermi televisivi, tristemente, dopo aver visto Il Gattopardo di Visconti, Waterloo di Bondarciuk, Ran di Kurosawa, I bucanieri di Anthony Quinn, Spartacus e Barry Lindon di Kubrick, o anche Andrej Rublev di Tarkowskij e mille altri titoli di questo genere, si può ragionevolmente pensare che quel cinema non tornerà mai più: l’illusione di un verosimile viaggio nel tempo è stata persa per sempre.
Per compensare questa perdita – forse pochissimo avvertita dalle giovani generazioni – è utile mettere in campo un altro risultato del trionfo del digitale: la democratizzazione della creatività cinematografica. Tutti, o quasi, possono “farsi” il loro film, anche attraverso un cellulare: brevissimo, breve, corto, medio e persino lungo e lunghissimo, pronto ad affrontare non solo il piccolo pubblico degli amici e dei familiari, ma anche il mercato dello spettacolo di massa.
La rivoluzione, paradossalmente, è molto più profonda di quanto non sia, ad esempio, il “self publishing”  letterario, che, fino ad ora, non ha affatto determinato qualcosa di analogo  alla proliferazione dei festival e degli incontri locali, nazionali, e internazionali, dei film maker.

''Il gattopardo''Invece, il digitale cinematografico ha di fatto realizzato la profezia di Alexandre Astruc, scrittore e regista francese, che, nei primi anni Cinquanta, definiva il cinema del futuro una “camera-stylo”, ovvero un macchina da presa/penna, analoga allo strumento di cui si serve lo scrittore.
La teorizzazione del “cinema d’autore” – cioè del cinema come arte individuale e non collettiva – nasce da quelle sue profezie, che si basavano appunto sui cambiamenti tecnologici in corso, piccoli ma decisivi: la pellicola in 16 mm (a passo ridotto) e le macchine da presa più leggere, nonché l’alta luminosità delle stesse pellicole, che permettevano di fare a meno del parco lampade, costoso e ingombrante. Si poteva così girare in esterni più facilmente e ciò favoriva l’improvvisazione, l’adattamento all’ambiente, la spontaneità anti teatrale degli attori.
Naturalmente, la democrazia non garantisce la qualità creativa, ma solo la partecipazione, magari settorializzata al massimo: non si contano infatti, i festival dedicati appunto ai film maker. E già il termine è in qualche modo abusivo, visto che tutti i cineasti, Spielberg compreso, sono oggi dei film maker. Ma pure, è quasi certo che su un telefono cellulare sarà piuttosto difficile realizzare (e poi vedere) un film del regista americano, o qualcosa che gli assomigli.
Piuttosto, il formato digitale agevola anche una sorta di nuova distribuzione capillare. Tutti i film – vecchi e nuovi – si scambiano, si comprano e si duplicano, si scaricano (legalmente o meno); anche in questo caso, la democratizzazione del consumo ha lasciato ovviamente inalterati i criteri estetici o forse anche la divisione storica tra i diversi gusti del pubblico.

Sala cinematograficaÈ rimasta in piedi, però, fortunatamente, la visione pubblica nelle sale: inestinguibile, per ragioni sociologiche e non tecniche. Per almeno ottant’anni è stata il fattore decisivo, sul piano della psicologia di massa, dell’illusione cinematografica: una realtà parallela, un sogno, o un inconscio collettivo che, anche oggi, certifica la differenza profonda tra l’“l’andare al cinema” e il vedere un film specifico – in tv, o computer – di oggi.
Così, anche di fronte all’attuale trasversalità comunicativa – I film che valgano, festival dopo festival, anche minori e sparsi in ogni angolo del mondo, finiscono per farsi notare –  ad ogni uscita pubblica (cioè nelle sale) di un nuovo evento spettacolare, che sia il film di Natale di Neri Parenti o Pieraccioni o l’ultimo film Pixar o, ancora, un’opera d’autore che ha trionfato a qualche festival importante, Cannes o Venezia, si viene travolti da una sorta di febbre che ricorda i fasti del cinema di una volta.
Così è doveroso ripensare proprio all’epoca che sta per tramontare:  ha segnato un intero secolo, ha creato una cultura dell’immagine in movimento ormai incancellabile, che farà parte, in modi ancora non prevedibili, dei tanti futuri del mondo. E naturalmente ha fissato anche una terminologia difficilmente cancellabile: i termini sinonimi di pellicola e film continueranno a vivere, a dispetto della loro estinzione materiale. Chi, infatti,  potrà dire, sul piano discorsivo, “Sei andato a vedere gli ultimi “gigabit” di Scorsese?

Bernardo BertolucciSul piano storico-mitologico il confronto con il passato evoca infiniti atti d’amore verso gli anni dorati della nostra giovinezza – quando magari non sapevamo niente di pellicola, di celluloide,  di proiettori, di croci di malta, e assistevamo al rito magico del fascio di luce, ancora avvolto nelle spire di fumo delle sigarette degli spettatori – che, da un quadrato sulla parete di fondo, in alto, raggiungeva lo schermo per animarlo con figure e paesaggi.
Qualcuno, da bambino, sempre digiuno di tecnica, arrivava a pensare che dietro quello schermo ci fossero il vero Kirk Douglas o Rita Hayworth, o altri grandi divi, magari smaterializzati e teletrasportati, anche se questa tecnica fantascientifica non esisteva ancora, neanche  nei film.
Ma accanto al facile amore, ci fu, tecnicamente, anche l’odio per la delicatezza del supporto.
Bernardo Bertolucci, quando si cominciò ad usare l’elettronica per il pre-montaggio (anni Settanta), ricordava che Kim Arcalli, il suo montatore di fiducia, usava misurare la pellicola a “braccia”, come i sarti, e mai avrebbe fatto uso di tale apparecchio, peraltro utilissimo, fin dalle riprese, per poter controllare la riuscita di una scena, senza aspettare la stampa e la proiezione dei “giornalieri” in una sala cinematografica.

Federico FelliniMa spesso alcune parti della pellicola impressionata, una volta tagliata a “braccia” (per ragioni censorie, per ripensamenti, per interventi brutali dei produttori), venivano  buttate via. E, in questo modo, si persero molti “pezzi” preziosi firmati da grandi artisti.
Quanto al rapporto con gli spettatori, anche qui, il mito prevale: negli ultimi anni, con la pratica dei restauri, siamo riusciti a vedere, nelle sale, copie straordinarie di film di Welles, Fellini o Visconti. Ma, appunto, nella vita di un comune spettatore già avanti in età, quante volte è capitata un’occasione simile?
I frequentatori dei festival ricordano altresì di aver rivisto in sale normali, dei film presentati in copie nuove a Venezia o Cannes (giusto per citare un’esperienza personale, ET di Spielberg) e di avere espresso la certezza che quel film era sostanzialmente diverso rispetto a quello visto nello schermo panoramico del festival, e di gran lunga meno affascinante, proprio perché nitidezza e colori era stati cambiati o dall’usura della pellicola o dalla taratura sbagliata del proiettore, magari inadatto a quel film e spesso usato con il minimo di luminosità – specie nelle ore pomeridiane, le meno frequentate – per risparmiare sul costo dell’elettricità.

Ingmar BergmanE scendendo sempre più in basso, che cosa restava della grandezza del cinematografo, in quei gloriosi “brandelli” filmici a passo ridotto (distribuiti dalla San Paolo o dalla Cineteca Sarda) firmati da Bergman, Fellini, Welles, Ford, e proiettati in schermi grigi di cineclub di paese, o sedi di associazioni?
Gli stessi operatori (tecnici e culturali: il mestiere era identico) erano perennemente angosciati dal fatto che il film si potesse spezzare (il kit di “pronto soccorso” era semplice: forbici e nastro adesivo trasparente) o che un difetto della croce di malta del proiettore o delle forature laterali della pellicola, costringesse a tendere manualmente la stessa in maniera che si formasse un ricciolo abbastanza lungo da non causare lo sfarfallamento dell’immagine sullo schermo.
Paradossalmente, nonostante quest’arte di arrangiarsi, quei film e quelle discussioni hanno comunque contribuito alla diffusione del cinema e all’alfabetizzazione di adulti, scolari, adolescenti. E, quando, negli anni Ottanta, ben prima dell’era digitale, si affacciarono sul mercato gli “home-video”, rari e costosi ma utili, in molti casi, per non usurare troppo pellicole ormai fuori mercato, si discusse a lungo, proprio alla Cineteca sarda, se fosse o meno opportuno utilizzarle, dato che la formazione di un operatore culturale includeva la manualità e l’apprendistato necessario al funzionamento di un proiettore a 16mm. Ovvero, occorreva essere, ad un tempo, lavoratori manuali e intellettuali.

La pellicolaDi fronte a questa implacabile “incertezza” del testo filmico, gli stessi cineasti evitavano di vedere la propria opera una volta uscita dalla fabbrica o dalla proiezione in anteprima, ancora controllabile. Sapevano che avrebbero assistito ad un film diverso rispetto a quello “creato” con fatica dalle mani loro e dei propri collaboratori. Si comportavano insomma come Glenn Gould, che decise – così raccontava il violinista Yehudi Menuhin, che aveva il privilegio di possedere un proprio strumento, e giustificava il collega – di non suonare più in pubblico, perché, in ogni esibizione, avrebbe trovato un pianoforte differente: le sue interpretazioni sarebbero state falsificate. Anche lui, in anticipo sui tempi, scelse di “ricreare” la musica aiutandosi con la tecnologia.
Ed in effetti, con tutto il male che si può esprimere a proposito delle multisale che hanno ormai cambiato il mondo del consumo cinematografico, occorre anche dire che la tecnologia moderna, ed oggi il digitale, sono in grado di mostrare non le copie sbiadite di capolavori, ma sempre e comunque degli originali. La profezia di Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ha trovato finalmente una conferma: con un secolo di ritardo.

19 dicembre 2013