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Terrence Malick e l’evanescenza dell’immagine

Blog di Carlo Rafele

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immaginePriorità, sovranità, sublimità della messa in scena?
Il mormorio delle immagini che perdura, sensazioni disordinate che cercano un varco per legittimarsi nella nostra esperienza di spettatori adulti, presentimenti a cui non sappiamo ancora conferire una direzione o uno scopo, visioni a volte sublimi a volte neglette, sarabanda scoordinata di idee e significati che mescolano finzione e documentario, pretendendo di consegnarci uno spazio filmico dove natura, storia, epopea di civiltà pregresse confluiscono senza omogeneità di approccio e regole di coesione.

Mi sono preso la briga di spiare dietro la porta dove il regista Terrence Malick costruisce e protegge i suoi fantasmi - resi concreti da due opere che preme ora richiamare: The Tree of Life (2011) e To the Wonder (2012) – per tentare di capire di che cosa questa sua provocatoria sperimentazione sia scintilla o nuova ricerca.

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineCon The Tree of Life mi sono trovato irretito dentro una sinfonia di eventi, in parte abitati dall’Uomo in parte desertificati da età primordiali, come se l’ossessione primaria del cineasta fosse di ordine cosmologico: cosmologia di individui irretiti dalla Storia (la settaria vocazione pedagogica dell’America anni ’50) e cosmologia di fenomeni generati dal mondo naturale: entrambe finalizzate a restituire l’evento della Nascita o della Creazione nell’accezione più ampia e imperscrutabile.
Un cinema che lascia fluttuare, nel medesimo spazio sensibile, circostanze visive e auditive senza l’argine di una scansione narrativa, piuttosto imponendosi di frantumare il dettato della cronologia, avvicendando nello sguardo di chi osserva il doppio sentimento di incantamento e ripulsa.

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineSplendida e ingenua – parrebbe - l’offerta spettacolare di Terrence Malick!
Un cinema votato alla meraviglia, come recita il titolo dell’ultima opera, immolato sull’altare della Redenzione, sempre invocata sempre attesa: storia, religione e mito arcaico si confrontano tenacemente, lasciando che a soccombere sia la prima, ormai vetusta e ripetitiva nelle proprie rappresentazioni.
Come la famiglia O ‘Brien, dove ciascuno vive una condizione “a parte”, consumando nel silenzio le ore quotidiane, tra codici sociali e comportamentali, con un genitore – Brad Pitt – che vorrebbe imporre ai figli la rabbia della vita non vissuta mentre la madre - l’apollinea Jessica Chastain - si produce in volteggiamenti celesti, esprimendo un corpo che è sempre al di là dei fatti che la coinvolgono.
Appena compare il dramma - il grido di orrore per la morte improvvisa di uno dei tre figli - la successione temporale inevitabilmente si spezza, il racconto si lacera, raggiungendo però una dimensione imprevista, che trasforma le domande in una invocazione metafisica, le immagini in una sinfonia a più voci, nella pressante e inquieta alternanza tra racconto e documento delle origini.

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immaginePiù dimensioni si accostano e si scontrano nel medesimo tracciato compositivo, tra il prima della nascita e il dopo del dramma: il dinosauro che alza la testa o il mostro marino che si culla nelle acque convivono con la stanchezza atavica di azioni e movimenti umani già avvenuti: se da un lato la possente Natura sistema i propri modelli, sorgendo d’improvviso di fronte allo sguardo dello spettatore, dall’altro c’è l’umana traiettoria – storica e morale – delle creature transitorie, che non hanno più voce diretta e si muovono come manichini tra le raffinate vestigia di antiche Città.  
To the Wonder illustra compiutamente queste due latitudini: l’elegia sull’Amore, la declinazione del farsi amore di ogni particella di vita sensibile (Neil e Marina – gli attori Ben Affleck e Olga Kurylenko - esprimono senza tregua il vorticoso compiersi e contraddirsi del sentimento d’amore) ma anche l’ineluttabile consunzione di parole e azioni che si disperdono tra gli arazzi scenografici di eventi naturali, come l’onda che si ritira, si spegne e si rigenera ai piedi del Monte Saint-Michel.

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineCosì, i personaggi di Malick più volte nascono più volte decadono. A volte prestano il fianco alla parodia, alla retorica eccessiva, sfiorano il confine del kitsch, offrendosi senza pudori alla grazia dell’amore per poi ritrovarsi avvoltolati dentro parole più volte udite, più volte subìte, come se l’incantamento del farsi e rifarsi del Mondo dovesse fare i conti con la legge della Storia – perfida e potente – che irretisce e corrompe.
Ciò che efficacemente si incarica di portare in superficie la Voce Off, utilizzata di continuo: la Voce fuori campo e fuori scena che serve a ritmare gesti e silenzi. La voce del padre in The Tree of Life ha questi connotati:
«Non permettere a nessuno di dirti che non puoi fare qualcosa! Io sognavo di diventare un grande musicista. Mi sono lasciato distrarre. Ero in attesa che succedesse qualcosa e quel qualcosa era l’attesa (…) Giobbe era convinto di poter costruire il proprio nido in alto e che l’integrità del proprio comportamento l’avrebbe protetto contro la sfortuna. Invece no, la sfortuna capita a tutti, anche ai buoni, non c’è verso di proteggersi dalla sfortuna, non c’è possibilità di proteggere i nostri figli, non possiamo dire a noi stessi: anche se io non sono felice farò il possibile che lo siano loro (…) C’è qualche inganno nello schema dell’universo? Non c’è niente di immortale? Niente che non muore? Non possiamo rimanere dove siamo, dobbiamo andare avanti, trovare quel qualcosa che è più grande della fortuna o del destino…»

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineLa voce di Marina in To the Wonder:
«Appena nata sprofondo nella notte eterna. Cado nella fiamma. Tu mi hai liberato dalle tenebre. Mi hai riportata alla vita (…) Pensavo che avessimo tutta la vita, che il tempo non esistesse (…) Non mi posso più permettere di fare altri sbagli con gli uomini (…) Quello che avevamo tu l’hai fatto diventare niente (…) Vorresti forse che smettessi di dirti Ti amo? So bene che i sentimenti troppo forti ti turbano (…) La vita è un sogno e in un sogno non è possibile sbagliare (…) Non è possibile che mi lasci così. Cosa faccio adesso?»

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineE dunque: di che cosa il cinema di Malick è precursore, che cosa accende di nuovo e di inedito nell’esperienza dello spettatore, che cosa si determina sul piano dell’approccio formale, del metodo di ripresa, se la caratteristica più evidente è aver generato una impronta – inconfondibile, irresistibile – che ha spinto la critica, dopo decenni di incertezze e rifiuti, a far di lui il capostipite di un metodo, anzi di un canone?
(Circostanza testimoniata altresì dal desiderio dei maggiori attori hollywoodiani di far parte dei suoi film in qualsiasi ruolo e a qualsiasi condizione economica, come se lavorare con  “Terry” rappresentasse una suprema conquista).
Il primo elemento è il magistero dell’inquadratura. Malick concepisce l’inquadratura come regno autonomo, una monade sospesa tra il movimento e la fissità, dove possano agire e convivere la prossimità e la lontananza dell’azione, un Qui e un Altrove scanditi sul medesimo asse.
Progettare e disporre l’inquadratura con modalità inedite, sincopando la continuità dei piani, destabilizzando il profilo narrativo, generando raccordi imprecisi, sgrammaticati. E riversando proiezioni di luce naturale che trascolorano via via le intensità dei piani, disvelando una pittura raffinata e lucente, che si nutre della decadenza dei colori al tramonto nonché del pathos musicale delle colonne sonore: due elementi – luce e musica - che procedono d’intesa, accordati nel medesimo diapason stilistico.
Un percorso di senso che disorienta lo spettatore – lo ferisce - ribadendo che ciascuna inquadratura è epifania di qualcosa che si compie nell’adesso, nel gesto – irripetibile – della messa in scena, della ripresa visiva e sonora.  

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineD’altro canto, la felice ossessione che Malick manifesta nella sua esperienza di regia è filmare ciò che non si può trattenere, quel qualcosa di inafferrabile che si sottrae alla vista perché troppo furtivo o troppo diradato.
Malick sa bene che ogni immagine perde presto consistenza, smorza l’entità e l’ardore del proprio constare, quindi decade, regredisce nella forza, trasformandosi nell’evanescente, nel non fissabile, ciò che si dà una sola volta, nel volgere fulmineo di uno sguardo.
(Si ha la sensazione che la Steadycam di Malick, quando sfiora i volti o i corpi dei personaggi lo fa come se dovesse trattenerli per l’ultima volta, prima di consegnarli al dileguamento).  
L’immagine secondo Malick si fa flusso, marea fluttuante, che tende a evidenziare il carattere di non-finito, proprio perché è immagine inafferrabile, è favilla di ciò che si mostra un solo istante, nello spirito di quella volontà religiosa che permea l’intero discorso del suo cinema e che trova suggello nella fiamma che sboccia come orma nativa nel film del 2011.

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineC’è, infine, una tenace e florida componente infantile nell’approccio di Malick al cinema, una manifesta volontà di trasgressione, che lo spinge a non farsi mai “trovare” dove lo spettatore – o l’esegeta – andrebbero a cercarlo.
Avendo deciso 35 anni or sono di non partecipare alle discussioni che riguardano la sua opera, scegliendo di rimanere in disparte, di rendersi latitante dai Festival e dalle occasioni pubbliche, ha spinto gli estimatori a interrogare coloro che sono stati e sono ancora oggi suoi stretti e costanti collaboratori.
Nel 2011 due critici esperti come Vincent Malausa e Jean-Philippe Tessé hanno raccolto preziose confidenze da Emmanuel Lubezki, direttore della fotografia, che con Malick ha lavorato già per The New World (2006):
«Lavorare con Terry è ammirare un artista che inventa, oltre che uno straordinario professore di cinema. Quando iniziamo la preparazione, stabiliamo un catalogo di regole, che la troupe ama definire “il dogma”. Per me è importante che il set sia dotato di regole precise: mi aiutano a trovare il tono e lo stile del film. L’Arte è fatta di obblighi, se non ci sono si diventa pazzi, perché ogni cosa appare possibile».
Che cosa prevede il “dogma Malick/Lubezki”?
«Girare con luce naturale, non sottoesporre il negativo, cercare la migliore definizione senza “sgranare”, ottenere la profondità del campo utilizzando un diaframma basso, girare in controluce per ottenere profondità, evitare “luci-sandwiches”, non incrociare le luci se non dopo l’alba o prima del tramonto, schivare riflessi luminosi nell’obbiettivo, non utilizzare il bianco o i colori primari nell’inquadratura, niente filtri, girare sempre con una camera a mano o una Steadycam che stia “nell’occhio del ciclone”, muovere la macchina sull’asse piuttosto che esibire panoramiche sinistra-destra o altro-basso, evitare lo zoom».
C’è però un ultimo comma, che riflette in pieno l’essenza del metodo di ripresa, l’Articolo E: «Accettare qualsiasi trasgressione del dogma».
Chiarisce Lubezki: «Il nostro dogma è pieno di contraddizioni… L’importante è saper prendere decisioni nel momento in cui si gira. Chiedersi ogni volta: cosa è meglio in questo momento? L’altra regola fondamentale, almeno per me, è non sottoesporre la pellicola: vogliamo i “neri” piuttosto che colori lattiginosi. Su questo punto l’Articolo E non è applicabile».

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineIn verità, se si vuole fissare un dogmatica nel cinema di Malick, la si dovrebbe definire “dogmatica del caso”. Che in altri termini significa: niente sul Set deve essere predisposto prefissato preparato, ogni scena si ammanta di credibilità se nasce da un ritrovamento, dall’incanto di un dono.
Dice a riguardo Lubezki:
«Solitamente, quando si lavora sul set, il tempo dell’attesa è più lungo del tempo delle riprese. Noi invece giriamo, più che aspettare di girare. Ci sono momenti in cui non c’è tempo nemmeno per caricare la pellicola, allora si prende un’altra camera e si prosegue. (…) Malick pensa ai suoi film per anni ma non vorrebbe mai far vedere che le cose sono preparate, predisposte. Per Malick una scena non deve mai essere “organizzata”, deve essere “trovata”! (…) Spesso Malick sorprendeva gli attori e l’équipe introducendo sul set elementi inattesi, non previsti. Poteva dire a un attore di entrare in scena senza preavviso oppure non interrompere il ciak se un cane entrava in campo; poteva dire a un operatore di punto in bianco di entrare nel perimetro della scena per inquadrare determinati dettagli, il che significa – per gli attori e per la troupe - essere continuamente in agitazione, continuamente destabilizzati.
Un giorno, mentre stavamo girando una scena tra il padre e la madre, Terry fece entrare in campo uno dei tre ragazzi che recitava la parte del figlio maggiore. Questo ingresso non era previsto, così la scena cambiò e mutò il modo di recitare degli attori».
Mark Yoshikawa, che ha curato il montaggio dei film di Malick, precisa: «Appena qualcosa appare intenzionale – un movimento di macchina, una battuta dell’attore, un suono - Terry reagisce immediatamente. Detesta la manipolazione e l’effetto voluto. Pretende che le immagini siano “trovate” e non preparate!».

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineUn particolare rilevante che Lubezki introduce nella discussione è il rapporto con gli attori, ciò che Malick pretende dalla recitazione:
«Terry adora gli attori, ha enorme fiducia nel loro talento. Ma non vuole che una scena abbia il tono teatrale della prova, appena nota questo fa di tutto per farla deflagrare: lancia dei “siluri”, parla costantemente durante la lavorazione, per creare disturbo e costringere l’attore a capire che quella cosa accade lì per la prima volta. Io, intanto, sto dietro la macchina oppure se è l’operatore steadycam che filma, controllo ogni cosa sul video. Con Terry si parla continuamente del movimento dell’attore nell’inquadratura, così l’attore ascoltando i nostri commenti si sente turbato, messo in crisi. Oppure ci si muove insieme a loro, li si tocca, li si spinge, li si provoca, essi provocano noi, e così di seguito. Questo somiglia a un gran bazar, pieno di caos, senza regole, e l’attore potrebbe sentirsi perduto. Invece no, perché tutti noi lavoriamo per lo stesso scopo, ciascuno ascolta la visione che ha Terry e tenta di aiutarlo al meglio. Ma non c’è nessun metodo. La videocamera gira sempre, è come un’improvvisazione di musica jazz. E per un operatore, per chi fa cinema, è il massimo, è un regalo magnifico».
E infine:
«Spesso, quando si lavora con un regista, si inizia ogni scena seguendo precise indicazioni, si sa dove l’inquadratura inizia e dove finisce, è tutto programmato, semplice. Con Malick mai si gira due volte la stessa scena, com’è di prammatica a Hollywood. Di solito un regista rifà la stessa scena numerosissime volte, finché non ottiene ciò che desidera. Noi facciamo il contrario: filmiamo la stessa scena la prima volta in un modo, la seconda in un altro e così di seguito».

2 aprile 2014

Terrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineTerrence Mallick e l'evanescenza dell'immagineTerrence Mallick e l'evanescenza dell'immagine