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Il ritorno di "Pulp fiction"

Visioni d'autore e classici del cinema vs blockbusters: un'interessante opportunità per (ri)scoprire i grandi capolavori. di Elisabetta Randaccio

''Pulp fiction'' di Quentin TarantinoPulp fiction” di Quentin Tarantino è ritornato sugli schermi italiani per tre giorni, causa “festeggiamenti” del suo ventennale, dall'8 all'11 aprile; solo il primo giorno ha registrato circa 50mila euro di incasso con un totale di quasi 6mila spettatori e si è piazzato, perciò, dietro i pessimi blockbuster che si agitano, in questo periodo, nei cinema.

Cosa vuol dire questo? Forse che “Pulp fiction” è capace di attirare più spettatori dei mattoni costosi tipo “Capitan America” o delle penose commedie italiane ancora sull'amore al tempo della crisi interpretati dagli attori peggiori mai “creati” dalla televisione? Forse no, forse... Se la distribuzione lo avesse riproposto per una settimana si sarebbero già potuti osservare dati statistici interessanti, i quali, magari, avrebbero fatto riflettere i nostri produttori e distributori.

''Pulp fiction'' di Quentin TarantinoNon illudiamoci, però, che a gustare come un cibo prelibato uno tra i capolavori di Quentin Tarantino siano state le giovani generazioni, alquanto prive di soldi (anche) per andare al cinema e, dunque, quando possono, fatalmente attratte dalla formula “nuova uscita”.
La maggior parte del pubblico pagante il costo del biglietto della riedizione di “Pulp fiction” è costituita, probabilmente, dai trenta-quarantenni che, venti anni fa, a vederlo nelle vecchie sale “uniche” si sono molto divertiti, si sono innamorati di un linguaggio al cinema abbastanza inusuale (ma il post modern nelle altre arti era già decaduto dalla sua fase grintosa e innovativa). E di un regista, il quale, finalmente, diceva di vedere i film degli altri, pure quelli bruttissimi (perché qualcosa può essere sempre appuntato nel quadernino tascabile dell'artista), di attori riciclati, ricreati, rimodulati in personaggi senza sfumature, quasi fumettistici.

''Pulp fiction'' di Quentin TarantinoCreature della zona d'ombra, al di là del bene e del male, amorali per definizione e per scelta, rese con una cifra volutamente caricaturale e perciò, grottesca, definite da una delle poche categorie estetiche possibili, come ci dicono i filosofi, nell'industria culturale “cannibalica”: il genere pulp.
In ogni caso, questo riportare a miglior vita, magari restaurata, i capolavori del cinema per proiettarli nelle sale mastodontiche è, comunque, cosa buona e giusta. Recentemente, è stata la volta del mirabile “La grande illusione” di Jean Renoir (1937), che non ha raggranellato gli incassi del mitico “Pulp fiction”: un'iniziativa encomiabile che può diventare un'abitudine per formare un pubblico un po' più curioso e meno passivo. Magari uno stimolo anche per le scuole, così si smette di “scaricare” film dalle LIM, che in genere hanno il piccolo difetto, per quanto riguarda la proiezione di audiovisivi, di vedersi male e sentirsi peggio, persino dei vecchi videoregistratori.

''Pulp fiction'' di Quentin TarantinoFatta la premessa, oggi, con il senno di poi, sappiamo che “Pulp fiction” è stato solo un antipasto nel mondo artistico tarantiniano. Il citazionismo cattivo, i colori pop (meravigliosi sul grande schermo), il montaggio trionfale, gli interpreti sempre adeguati (meglio, però, sentirli con la loro vera voce nella edizione originale) hanno avuto un continuum, che ha sicuramente soppresso, almeno in parte, quell'aura di gioiosa superficialità, sottolineata da molti critici del tempo.
A capovolgere il mondo può riuscirci, in questo momento storico, esclusivamente il cinema, ed ecco “Inglorious basterds”, dove Hitler può morire bruciato nell'incendio simbolico di una sala per film e in cui la finale ripresa, sui titoli di coda, della musica scritta per “Allonsanfan” (1974) dei fratelli Taviani da Ennio Morricone, è un altro alludere allo scambio, alla finzione, al tradimento, alla vendetta affidata, spesso, al mutevole destino.

''Pulp fiction'' di Quentin TarantinoE poi “Django Unchained”, dove si sottolinea come lo schiavismo fosse la macchia nera pure ai tempi “mitici” (?) dei cowboy; Django non è più il pallido e abile Franco Nero, ma è un “colored” (Jamie Foxx), per cui l'incendio conclusivo sembra per un attimo riportare alla pari razzismo e classismo, così come lo scambio verbale tra i volontari e volenterosi uomini del Ku Klux Klan è di nuovo giocato sul paradigma del grottesco, esilarante quanto alcune battute di Beckett.

Probabilmente la storia continua...

16 aprile 2014