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Un lungo anniversario per William Shakespeare

Piccolo viaggio tra teatro, cinema e televisione. di Gianni Olla

William Shakespeare1. Vedere il teatro di Shakespeare: dal cinema muto allo “streaming” dei teatri londinesi.
1564 – 1616. Le date di nascita e di morte di William Shakespeare consentono due lunghi anni di celebrazioni che dovrebbero sintetizzare l’immaginario, le tematiche, le forme, il canone generale del più grande drammaturgo della storia.

Grazie alle tecnologie digitali, anche noi poveri spettatori di provincia abbiamo potuto approfittare, nei mesi scorsi, di alcune messe in scena del National Theatre di Londra, il quale ha diffuso, in streaming, nelle principali multisale cinematografiche italiane, per una sola serata, sia “Amleto” che “Otello”. Inoltre, la prossima stagione della Cedac, che avrà inizio a novembre presso il Teatro Massimo di Cagliari, presenterà ben tre opere di Shakespeare; e quest'estate il Festival La Notte dei Poeti di Nora si aprirà con “Sogno di una notte di mezza estate”, in cui Giancarlo Giannini interpreterà monologhi e frammenti shakespiriani sulle note del pianoforte di Giovanni Bellucci.
Queste iniziative, che speriamo possano essere allargate, non fanno che aumentare una già vasta e penetrante popolarità del Bardo, che s’insinua appunto tra le scene teatrali vere e proprie e le trasposizioni filmiche e televisive.

IPeter Steinl regista Peter Stein, qualche anno fa, sintetizzava in pochi nomi la scansione storica e filosofica del teatro occidentale, “medium” per eccellenza nella costruzione dell’immaginario pre romanzesco e pre cinematografico, che, comunque, ne ereditò in pieno gli archetipi scenici e drammaturgici.
Si parte, ovviamente, con i tragici greci (Eschilo, Sofocle, Euripide) che creano le basi di una possibile razionalizzazione/spiegazione della natura dionisiaca e aggressiva dell’uomo. Lo pensava già Nietzsche e lo confermò Freud, analizzando l’Edipo di Sofocle. Sempre secondo Stein, Shakespeare fu invece il narratore disincantato della modernità, dell’addio al medioevo, dei personaggi “artefici” del proprio destino, nel bene e soprattutto nel male.
Infine, a partire da Cechov, c’è una sorta di stasi borghese, un’apparente accomodamento alla nuova razionalità positivista dell'Ottocento, subito smentita dagli sprofondamenti depressivi e nostalgici dei personaggi tratteggiati dallo scrittore e drammaturgo russo. È a partire dalla scena cecoviana, in cui sembra che nulla accada, che verranno fuori i Pirandello, i Beckett, i Pinter, cioè i cantori dell’incertezza comunicativa e persino percettiva.

Francis BaconEppure, anche in mezzo a questi “sprofondamenti” psicologici, Shakespeare ritorna sempre. E la sua attualità si può spiegare in poche righe: considerato che le sue storie e i suoi personaggi annunciano o certificano il trionfo della modernità, con le sue scoperte scientifiche e le sue incertezze filosofiche e psicologiche – come ha scritto Nadia Fusini in un recente e bellissimo volume a lui dedicato, Di vita si muore – non c’è alcun dubbio che il drammaturgo sia ancora, e sempre di più, il simbolo dell’imponente e scientifica incertezza della nostra solitaria iper modernità.
Insomma, in Shakespeare c’è tutto e Shakespeare tutto sopporta, anche il grande interrogativo sul suo vero status: attore al servizio di altri scrittori ben più celebri (Francis Bacon, De Vere, il Conte di Southampton)  e impossibilitati a farsi avanti in un “medium” plebeo come il teatro; oppure dilettante di genio che assorbì la filosofia dell’epoca per poi incarnarla nelle proprie figure sceniche.

''Re Lear''Il Seicento che lo vide trionfatore, assistette anche alla fine del suo Globe Theatre,  chiuso da Carlo I, sollecitato dai Puritani, nel 1642, assieme agli altri luoghi di finzione che scandalizzavano la società del tempo mostrando la dimensione diabolica della creatura umana, pur creata da Dio. Per ragioni opposte, anche il Settecento illuminista rimosse il suo estremo pessimismo sul destino dell’uomo. Infine, l’Ottocento romantico lo rivalutò soprattutto per i suoi eroi tormentati, da Amleto a Lear, passando per Otello. Questo bagaglio lo ereditò il Novecento, sia sul piano prettamente esistenziale che su quello spettacolare. Non è stato forse un produttore hollywoodiano non particolarmente colto a chiedere se si potesse mettere sotto contratto lo straordinario scrittore, capace di inventare trame “nere” e “grand guignol” capaci di appassionare il pubblico?

Delacroix, ''Amleto''E non è stato un allievo di Freud, Ernest Jones, ad interpretare i guai in cui si mette Amleto come una variante del complesso di Edipo? Ed infine, non sono stati i registi polacchi e russi – come ci ha raccontato il sempre attuale Jan Kott – ad inventare gli Amleti in calzamaglia nera, simboli dell’incertezza intellettuale, particolarmente viva nei paesi dell’est europeo comunista?
Dunque lo Shakespeare che celebreremo nei prossimi due anni è, allo stesso tempo, vicino e lontano dalla nostra epoca. La messa in scena circolare e pervasiva del Globe Theatre ha smesso di esistere nel Seicento, salvo essere ricostruita filologicamente qualche anno fa, a Londra, come vero e proprio Tempio shakespiriano, quasi museale.

Füssli, ''Sogno di una notte di mezza estate''Invece, la fortuna ottocentesca del drammaturgo normalizzò la struttura scenica del suo teatro, o dell’intero teatro inglese del Cinque/Seicento, adattandovi la sua drammaturgia che non seguiva le regole classiche (unità di tempo, luogo, azione), alla scena orizzontale. Il pittore Füssli, con la sua “Shakespeare Gallery”, ispiratrice di tante scene teatrali, fu anch’esso un normalizzatore romantico. Infine, le opere liriche verdiane – che videro la luce in un paese, l’Italia, in cui le traduzioni e le messe in scena di Shakespeare erano rare – inserirono nel contesto romantico un’aperta cognizione spirituale del dolore, molto diversa dalle misteriose pieghe del barocco, capaci di nascondere, come scrive Deleuze, la cruda verità del mondo.
Infine, nel Novecento, il cinematografo ha evocato di nuovo una visività plurima dei suoi testi capace di mettere in luce, appunto, i legami con l’esplosione della modernità contemporanea.

Orson Welles, Macbeth2. Orson Welles reinventa la forma teatrale shakespiriana.
Per entrare finalmente “in medias res”, uno studioso attento come l’anglista Franco La Polla, recentemente scomparso, formulò a suo tempo una teoria che potrebbe essere considerata quasi una bestemmia dai “cinéphiles”: “Quarto Potere” di Orson Welles, con i suoi vertiginosi piani sequenza e i campi lunghissimi in cui si agitano i diversi personaggi, protagonisti e comprimari, rigorosamente individuati in ogni inquadratura, deve la sua invenzione formale a William Shakespeare. Infatti il teatro elisabettiano aveva una forma circolare: era una sorta di corte in cui il pubblico stava o in platea o nei due o tre ordini di balconate.

Orson Welles, ''Quarto potere''Il palcoscenico si addentrava tra gli spettatori, mentre gli attori potevano agire in ogni spazio possibile (ad esempio usare una balconata per recitare il dialogo tra Romeo e Giulietta), purché visibile. Soprattutto, lo svolgimento scenico veniva “sparso” in quattro ambiti: “front stage” (il frontale, pressappoco uguale all’orizzontalità dei teatri ottocenteschi), in cui accadevano i fatti principali che mettevano in moto il racconto; “back stage” (il fondo, dove si svolgevano gli eventi secondari e talvolta segreti: le trame di Lady Macbeth, ad esempio); “inner stage” (il centro, dedicato alle scene intime); ed infine, l’“upper stage”, ovvero l’uso delle balconate. Questa accumulazione scenica, che anticipava, moltiplicandone gli effetti spettacolari, l’avanguardia degli Anni Sessanta (e chissà se molti di quegli autori rivoluzionari erano coscienti della paradossale classicità delle loro reinvenzioni), diventava, per dirla in termini cinematografici, una sorta di “découpage” che alternava il frazionamento narrativo con il cosiddetto “piano sequenza”. E naturalmente era il pubblico a dover montare assieme i diversi ambiti o a scegliere quell’aspetto della rappresentazione ritenuto interessante, gradevole e spettacolare.

''Hamlet'' 1921Fatta questa premessa, occorre anche precisare che il cinematografo non si è mosso quasi mai con la consapevolezza wellesiana; ma pure, nelle centinaia di trasposizioni che fanno di Shakespeare lo scrittore più cinematografico della storia letteraria e teatrale, si può ancora ritrovare proprio quella totalità scenica caratteristica del suo “teatro del mondo”.
E, in quanto al risvolto interpretativo, alla centralità romantica del secolo precedente, il cinema ha aggiunto un lungo elenco di nuovi disvelamenti scenici e interpretativi. Non a caso il primo titolo shakespiriano di rilievo è un “Hamlet” del 1921, girato, nella Germania dell’espressionismo, dal danese Sven Gade e interpretato da Asta Nielsen. Amleto, l’erede al trono, nasce femmina, ma essendo l’unica erede, viene allevata e presentata a corte come maschio. La sua fedeltà al ruolo comprende la vendetta nei confronti dell’assassino del padre e secondo marito della madre. Nulla però può impedire che s’innamori di Orazio, fingendo, nel contempo, interesse per Ofelia. Come dire: e se le esitazioni di Amleto, l’“essere o non essere”, avessero a che fare anche con l’incertezza sessuale del personaggio?

''Macbeth''3. Shakespeare come macchina di spettacolo: dal muto al sonoro, attraverso i travestimenti dei suoi eroi.
Ma per tornare alle origini, ecco una sintesi della presenza filmica di Shakespeare fin dagli anni del muto. È ovviamente paradossale che il ricorso massiccio a trame teatrali, nei primi anni del cinema, privi quel tipo di spettacolo dell’elemento essenziale: la parola. Così, con il solo ausilio di didascalie che spiegavano le ragioni degli accadimenti, le opere del Bardo furono trasformate in una sorta di bignami illustrato o delle scene d’azione o di quelle d’amore.
Stando al documentato elenco che si può leggere nell’Internet Movie Data Base (IMDB), la prima apparizione di Shakespeare sullo schermo è del 1899: s’intitola “Scene di duelli del Macbeth”, segue un “Amleto”, e quindi un altro titolo di duelli, ispirati all’“Amleto”. Infine, terza opera ad essere filmata prima della scadenza del secolo è “Romeo e Giulietta”: presumibilmente, la gamma dei duelli sarà stata alternata alle scene d’amore.

''Il mercante di Venezia''Questi tre copioni saranno comunque, per tutti i centodiciotto anni di storia del  cinematografico, i più frequentati dai registi e produttori. Facile capire il perché: “Amleto” è legato alla rivalutazione romantica del drammaturgo e a tutte le successive e problematiche interpretazioni del personaggio; “Macbeth” è un perfetto “grand guignol”, ma anche una tragedia basata sul peccato e la colpa, componenti essenziali del cinema classico; “Romeo e Giulietta”, infine, anticipa il melodramma.
Per curiosità, si possono elencare anche gli altri testi in classifica, almeno nei “top ten”: “Otello”, “Sogno di una notte di mezz’estate”, “Re Lear”, “Giulio Cesare”, “La tempesta”, “Riccardo III”, “Il mercante di Venezia”. Impossibile è, invece, un’accettabile elencazione dei film indirettamente shakespiriani, ovvero gli inesauribili riferimenti e le citazioni presenti in film di genere – dagli western ai “noir” – che potrebbero far parte, con qualche forzatura, della serie citata.

OfeliaTanto per fare un solo esempio, durante una puntata della trasmissione radiofonica “Hollywood Party”, è stato chiesto agli ascoltatori quale fosse il film più bello tratto da opere del drammaturgo inglese. È risultato vincitore “Vogliamo vivere”, in originale, “To be or not to be” di Ernst Lubitsch, girato nel 1942, e rifatto da Mel Brooks nel 1983, con il titolo italiano in traduzione letterale: “Essere o non essere”.
Si apre con il celebre monologo dell’ “Amleto”, presentando allo spettatore l’interprete principale che si spazientisce perché un giovane della prima fila, ad ogni recita, si alza dal suo posto e esce dalla sala. Non che disprezzi l’opera o rifiuti l’interpretazione, ma piuttosto la lunghezza della scena gli consente di appartarsi con Ofelia, ovvero la moglie del prim’attore. Il cuore del film sta però nel tentativo di fuga di quella stessa compagnia teatrale dalla Polonia occupata dai nazisti. Il momento culminante di questo intreccio tra scena e realtà, avverrà quando uno degli attori – un comprimario che si lamenta di “dover sempre portare l’alabarda”, senza poter mostrare il suo talento recitativo – di fronte ad un finto Hitler, declamerà un altro monologo, quello dell’ebreo Shylock ne “Il mercante di Venezia”: “se ci pungete non sanguiniamo?”

''Oscar insanguinato''Una volta arrivati a Londra, il primo attore sarà ancora Amleto, ma  un altro spettatore si alzerà dalla poltrona e lui si spazientirà. Ofelia, contrariamente a quanto scriveva Shakespeare, non avrebbe alcun motivo per togliersi la vita, visto che se la gode.
Giusto per sottolineare l’importanza delle “derivazioni”, anche irrituali, e senza nulla togliere alla grandezza di Ernst Lubitsch, la risposta di chi scrive al quesito dei conduttori di “Hollywood Party”, sarebbe stata diversa: “Oscar insanguinato” di Douglas Hickox, girato nel 1973 e interpretato dal celebre Vincent Price, autentico divo del cinema dell’orrore. In questo film, indirettamente ma profondamente shakespiriano, Price interpreta il ruolo di un attore, Edward Lionheart, la cui presunta arte nell’interpretare i lavori del Bardo non viene minimamente presa in considerazione dalla critica. Così, dopo l’ennesima bocciatura, il nostro eroe decide di vendicarsi eliminando tutti i componenti dell’associazione dei critici. Il suo disegno criminale si realizzerà attraverso la messa in scena, dal vero, delle cruente uccisioni di tanti testi shakespiriani, nell’ordine: “Giulio Cesare”, “Troilo e Cressida”, “Il mercante di Venezia” (la sequenza della “libbra di carne” strappata dal petto è il vertice dell’orrore), “Riccardo III,” “Cimbelino”, “Tito Andronico”, “Otello”, “Enrico VI”, “Giulietta e Romeo”, “Re Lear”. Nell’originale, il film s’intitola  “Theatre of Blood”, giusto per dar ragione al produttore hollywoodiano degli anni Trenta che intuiva la possibilità di sfruttare i suoi testi in ogni circostanza scenica: dall’orrore al comico. E, infatti, nonostante il “grand guignol”, si ride molto.

Amleto4. Amleto s’affaccia timidamente nei primi anni del sonoro.
Nell’elenco delle uccisioni di Lionheart, mancano curiosamente le numerose morti presenti in “Amleto”, alcune delle quali (ad esempio l’avvelenamento presunto del padre del protagonista) avrebbero ben figurato in “Oscar insanguinato”. Vale la pena di sottolineare quest’assenza, visto che il principe di Danimarca è certamente il personaggio più celebre di Shakespeare, conosciuto anche da coloro – e saranno certamente tantissimi – che non l’hanno mai visto in scena o sullo schermo, né hanno mai aperto un volume che ne racconti la trama.

Spiegare le ragioni della popolarità di quel testo, traboccante di riflessioni filosofiche e psicologiche, teorie del potere, del teatro, della famiglia, dell’amore, esula da questo scritto. Basterà semplicemente elencare brevemente che Goethe vedeva in Amleto l’eroe romantico per eccellenza, schiacciato dall’impossibilità di cambiare il mondo, o semplicemente se stesso, una sorta di Werther del diciassettesimo secolo. L’allievo di Freud, Ernest Jones, come si è già scritto, lo interpretava attraverso il complesso di Edipo, sia pure riposizionato rispetto alla tragedia greca; e da questi primi accenni del fondatore della psicoanalisi, altri studiosi, tra cui Lacan, gli dedicarono saggi importanti basati sul “desiderio” frustrato di amore e di vendetta.

Amleto - Carmelo BeneMa forse l’averne fatto un personaggio – anche cinematografico, ma non solo – capace di attraversare molti modelli di racconto, è spiegabile con le celebri e discusse teorie di Eliot, che vi leggeva un accumulo di tematiche e di tracce narrative derivanti da testi precedenti (ma in Shakespaere accade spesso, e in maniera molto più esplicita: ad esempio in “Il mercante di Venezia” e in “Re Lear”), assemblati per la scena. Da qui, secondo il poeta statunitense, il fallimento letterario dell’opera, ma anche la sua straordinaria resa teatrale, dovuta, in larga misura, alle diverse e alternative interpretazioni della sua figura e alla grandezza degli attori. Insomma, Shakespeare e il suo più famoso eroe sono in grado di resistere ad ogni interpretazione, fosse anche la più banale o la più estrema, come, appunto, il già citato film “transessuale”  di Sven Gade. E giusto per collocarsi sul versante opposto del film del regista danese, nel romanzo e nel film “Mephisto” (rispettivamente di Klaus Mann e di István Szabó), viene descritta e poi visualizzata una versione “nordica” – ovvero ariana e nazionalsocialista – del testo di Shakespeare.

''Mephisto'' di Klaus MannIl regista e interprete Hendrick Höfgen (che nasconde il vero personaggio di Gustaf Gründgens, uno dei più grandi attori tedeschi del Novecento: il Riefenstahl del teatro nazista), mostra in scena i soldati come cavalieri wagneriani e propone l’“essere o non essere” come il punto di svolta dello spirito nordico-germanico che, alla fine, come purtroppo accadrà realmente, abbandona ogni esitazione, sacrificando anche la propria vita per la grandezza della patria.
Non risulta comunque nessun altro adattamento teatrale o filmico che abbia usato “Amleto” in tal modo.
Invece, sulla scia del successo e dello scandalo prodotto dal film interpretato da Asta Nielsen, le apparizioni di Amleto proseguirono fino alla fine del muto, soprattutto in Germania e negli Usa, paese in cui, nel 1922,  John Barrymore interpretò il principe danese, a New York, per oltre 100 serate, ottenendo un successo straordinario, soprattutto in ambito intellettuale. Era ancora vivo il ricordo delle conferenze di Freud in quella città, avvenute dodici anni prima, e l’attore, che produsse lo spettacolo, non esitò ad interpretare l’Amleto proprio sul piano psicoanalitico.

Amleto - Johnn BarrymoreCon l’arrivo del sonoro, lo stesso Barrymore propose alla MGM di adattare il suo spettacolo per il cinematografo. Si girò anche il famoso monologo, tuttora visibile su You Tube, con il celebre attore ormai imbolsito (aveva più di cinquant’anni), e questo fu decisivo per cancellare la produzione: il realismo ontologico del cinematografo avrebbe reso quasi caricaturale il suo Amleto.
Paradossalmente fu la Warner a portare sullo schermo il film shakespiriano più celebre del primo decennio sonoro hollywoodiano: “Sogno di una notte di mezz’estate”. Fu diretto nel 1935 da Max Reinhardt, uno dei maggiori registi teatrali del Novecento, esule dalla Germania. La coreografia fu curata dalla sorella di Nijinskj, Bronislava, appena giunta negli Usa, preceduta dalla fama dei balletti russi di Diaghilev, in auge a Parigi per tutti gli anni Venti. Assistente alla regia e soprattutto traduttore e interprete per i tecnici e gli attori (tra i più famosi James Cagney, Mickey Rooney, Dick Powell, Olivia de Havilland) fu William Dieterle, altro fuggiasco dalla Germania nazista. Reinhardt, infatti, non parlava l’inglese.

Molti critici americani, pur lodando la regia di Reinhardt, criticarono proprio il cast hollywoodiano – più o meno raccolto nel recinto dei film di genere – osservando che, nonostante Laurence Olivier fosse di casa a Hollywood, nessuno pensò di chiedergli di interpretare un personaggio shakespiriano. Persino il suo primo film ispirato alle opere del drammaturgo fu di produzione inglese: “Come vi piace” dell’ungherese Paul Czinner (1938), anch’esso profugo politico.
     (1 – continua)

25 giugno 2014