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"Jersey boys" di Clint Eastwood

Il consiglio di Elisabetta Randaccio

''Jersey boys''Entrando nella multisala dove si proietta “Jersey boys”, ultimo film di Clint Eastwood, si può notare un bel manifesto che pubblicizza la riedizione della trilogia del dollaro di Sergio Leone, appuntamento da non perdere anche per chi conosce a memoria quei capolavori.

Nel suddetto manifesto, lo spazio è riservato al Clint esordiente: lo “straniero senza nome” che iniziò in Italia la sua lunga e straordinaria carriera. Quell'uomo bello e talentuoso è diventato uno dei registi più importanti del cinema contemporaneo, il frutto di un sogno americano (passando, come si è detto per il nostro paese) nato nella gavetta televisiva, nei primi serial di successo in un periodo in cui il piccolo schermo diventa essenziale nell'immaginario popolare.

''Jersey boys''Infatti, nella vicenda dei “Jersey boys”, ambientato tra i cinquanta e i sessanta, la televisione è sempre accesa, mentre passano film, telefilm, show e quiz. Proprio alcuni fotogrammi di un lungometraggio di Allan Dwan visti in TV, dà l'input a Bob Gaudio a scrivere per il suo gruppo “Four Season” la canzone “Big girls don't cry”, ma, omaggiandosi con una certa ironia, Eastwood mostra, in un'altra sequenza, una brevissima scena del telefilm western “Rawhide”, dove fu protagonista e che Sergio Leone notò prima di concludere il cast di “Per un pugno di dollari” (1964).
Gli anni sessanta, nel versante provinciale cialtrone, sono evocati in “Jersey boys” con buona cura, rimanendo fedele a un  musical di grande successo ancora presente (dal 2005 anno del suo debutto) nei palcoscenici di Londra e Broadway e scritto da Rick Elice e Marshall Brickman, quest'ultimo sceneggiatore di una fetta importante dell'opera di Woody Allen, compreso il capolavoro “Manhattan” (1980).

''Jersey boys''Per apprezzare la vicenda dei quattro ragazzi che proposero un sound decisamente originale alla fine degli anni cinquanta, formando una band, la quale, come ogni gruppo musicale, percorse la parabola del successo collettivo, delle liti, delle scissioni, della riconquista del pubblico con il solista, bisogna andare oltre la prima parte. Infatti, il tratto iniziale di “Jersey boys”, quello dedicato all'adolescenza incerta tra gangsterismo e amore per la musica dei quattro ragazzi per le strade del quartiere italo americano di Belleville, New Jersey, non decolla, è confusionario nel montaggio, banale nel disegno dei personaggi, dunque è difficile persino tollerare il quartetto di bruttini che cantano.

''Jersey boys''Poi, però, il film si stabilizza nelle corde della malinconia, nel passaggio all'età adulta più cinica, i protagonisti non suggeriscono alcuna empatia, ma sono inseriti credibilmente nell'universo di felicità e di incubo caratterizzante lo show business. A questo punto, le parti musicali, con i toni e le movenze dei cantanti destinate a fare epoca e  a produrre una marea di imitatori, si compattano e diventano una chiave di lettura per le scelte di vita dei personaggi. Soprattutto la “stagione invernale” è quella più riuscita, in cui Frankie Valli (interpretato da John Lloyd Young, protagonista anche dei “Jersey boys” teatrale) vede il suo mondo cadere giù per poi rigenerarsi, come è ovvio in un musical, attraverso una canzone banalotta (“Can't take my eyes off of you”), ma di enorme successo, diventata un evergreen.   

''Jersey boys''Anche il finale, commento ai titoli di coda, come accadeva nel “Milionario” (2008) di Danny Boyle, mentre dà a tutto il cast l'occasione per un corale ballo fotografato nei colori della pop art, nel fermo immagine sembra alludere a una società e a una tipologia di film scomparsi, già “falsi” nel momento della loro generazione. Gli attori vengono immobilizzati in un'espressione da manichino: la gioia di vivere è finita lì, la presunta innocenza e ingenuità dell'America di quegli anni si conclude nelle note di una canzone destinata a un ricordo lontano.

25 giugno 2014