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Cinecensura: visioni vietate

Una mostra virtuale su “cento anni di revisione cinematografica in Italia”: i temi, la “macchina”, i documenti e le testimonianze. Perseguitati dalla censura: Kubrick e Pasolini. di Elisabetta Randaccio

cinecensura.itOgni nazione ha la sua malattia e la sua censura. I censori sono persone malate”. Così Alejandro Jodorowsky, la cui opera cinematografica è stata massacrata, in vario modo, dalle proibizioni dei paesi dove sono stati presentati i suoi lungometraggi, con ironia e disprezzo dà la sua testimonianza su chi viene scelto per decidere cosa sia giusto o meno vedere sul grande schermo.

Si tratta di una delle interessanti, brevi interviste contenute in un sito-museo posto on line nei giorni scorsi, una fonte preziosa di documenti, spezzoni di film, immagini, commenti registrati a cura della Direzione Generale per il Cinema del MiBACT in collaborazione con la Fondazione CSC Cineteca Nazionale. All'indirizzo www.cinecensura.com è stato realizzato una sorta di museo virtuale permanente con “sale” tematiche e di approfondimento, dove il visitatore può muoversi tra i materiali su “100 anni di revisione cinematografica in Italia”, come recita il titolo della “mostra”.

Tati SanguinetiCitando Tatti Sanguineti, che cura anche le brevi introduzioni agli argomenti delle varie sale, la censura è una di quelle istituzioni pesantemente toccate dal logorio del tempo, e la conseguenza è una accentuazione del lato ridicolo delle scelte da essa perseguite. Comica e deprimente istituzione, perché le revisioni della produzione culturale mostrano il tentativo di imporre un senso del pudore quasi mai adeguato al periodo, la debolezza dei governi e degli stati incapaci di rispettare nelle proprie scelte i cittadini, un'idea di educazione sovrapposta a ideologie politiche e non di tutela dei minori. La censura lascia sempre una scia oscura, guidata, nella maggior parte dei casi, dall'ipocrisia e dall'ignoranza.
Chi si avvicinerà a questo sito-museo troverà materiali curiosi e altri inquietanti; perdonerà svariati problemi tecnici, i quali, si spera, verranno sistemati col tempo, a favore di una carrellata su film e scene “cancellate” che è anche una lezione di storia, costume, diritto, politica.

''L'abisso'' di Peter UrbanSi parte dai grandi temi oggetto di censura, divisi in quattro sezioni: sesso, violenza, religione, politica. Quest'ultima è, secondo noi, la più interessante. Nella parte riservata ai documenti si possono trovare la selezione delle interrogazioni e delle discussioni parlamentari riguardanti il cinema. Sembra incredibile come onorevoli e senatori, sin dall'inizio della prima decade del Novecento, invece di dedicarsi ai gravi problemi del paese - ancora bambino ai tempi di Giolitti o appena diventato repubblicano subito dopo il secondo dopoguerra - abbiamo dato spazio a fiumi di parole sulla possibilità di proiettare un determinato film. Così, già in una seduta del 1911 si discute un'interrogazione sul film “L'abisso” di Peter Urban, mentre l'anno seguente un onorevole trova disdicevole che sia proiettato un “documentario” dove si vede che, al mercato di Tripoli, sono presenti le forche innalzate dai colonizzatori italiani per punire i ribelli libici.

''Nel nome della legge'' di GermiI parlamentari da subito, insomma, si infiammano per proibire quel che da loro (spesso senza neppure vederlo direttamente) è ritenuto offensivo allo sbandierato “senso del pudore” pubblico, oppure pensano possa intaccare (come esplicita l'esempio dei fotogrammi succitati) il mito degli “italiani brava gente”. Veramente godibili, in questa sezione, sono le interrogazioni rivolte al governo subito dopo la seconda guerra mondiale, quando, pronto alla risposta, era il sottosegretario al consiglio dei ministri Giulio Andreotti. Quest'ultimo dimostra una sicura competenza cinematografica, degna di un serio critico. Chissà, forse quella era la sua vera, innocua vocazione... In questo ambito, benché come è noto a tutti sia stato uno degli affossatori del neorealismo italiano, reo di lavare i “panni sporchi” in pubblico, Andreotti risponde con una vera e propria recensione a chi vuole proibire “In nome della legge” (1948) di Pietro Germi, definendolo “immondo, bugiardo, calunnioso film”.

''Napoli milionaria''Risponde che si era prevista una proiezione per i membri del parlamento, andata in fumo perché era necessario discutere urgentemente l'adesione al patto atlantico (!!), ma il lungometraggio di Germi è “bellissimo”, degno del successo di pubblico (10 milioni di lire!) ottenuto. In altre occasioni difende “Napoli milionaria” (1950) di De Filippo oppure redige un discorso in risposta a chi si lagna di cinema e fumetti e delle loro “malefica influenza” sui giovani.
Non tutti i sottosegretari presentano la competenza cinefila di Andreotti, ma in parlamento non mancheranno epocali discussioni (peraltro noiosissime) su “La dolce vita” (1960) di Fellini (definito da un onorevole, che, comunque, ne difende la proiezione pubblica, “tenebroso affresco di vita degradata”), ma pure su “Il patto del diavolo” di Luigi Chiarini, che porterebbe disonore ai calabresi (!) o su “Come imparai ad amare le donne” (1967).

''Ecstasy'' Hedy LamarrQuest'ultimo film di Luciano Salce si trascina una incredibile diatriba al cui interno viene inserita pure la notizia del suicidio di Luigi Tenco come specchio di tempi corrotti, per cui il governo deve applicarsi ad “un'opera di risanamento irrimandabile”... Lo stupidario continua e si può, a seconda dei gusti, ridere o rimanere interdetti: il passato della prima repubblica non è così da rimpiangere.
Ovviamente fonte di ridicolo maggiore è la sezione dedicata al sesso. Senza molto senso, con il dubbio che le commissioni censorie avessero una fantasia repressa senza limiti, sono state cassate scene e imposti contorti iter burocratici per i visti, degni di Kafka. Per esempio, il film cult “Estasi” di Gustav Machaty, dove la futura Hedy Lamarr, nel 1932, si mostrava nuda tra i cespugli di un fiume – come si scopre leggendo i documenti riportati nel sito - ha avuto un percorso censorio assurdo. Anni di domande, di concessioni, poi, rifiutate all'ultimo momento, di tagli, di bolli; fu perfino rimandata una retrospettiva del cinema cecoslovacco, annunciata sulla stampa anche dal critico letterario Angelo Maria Ripellino. L'iter è iniziato nel 1949, ma negli anni cinquanta sussistevano ancora problemi e ostacoli alla proiezione del film.

''È arrivato il cavaliere'' di Steno e MonicelliIl catalogo delle assurdità e della repressione comprende altri esempi grotteschi: si proibiva il manifesto di “È arrivato il cavaliere” (1950) di Steno e Monicelli con Tino Scotti, perché mostrava una donna con le gambe nude; o si tagliava il dialogo demenziale con qualche doppio senso infantile di “Alvaro piuttosto corsaro” (1954) di Camillo Mastrocinque con Renato Rascel. I film d'autore aprirono dei varchi all'accettazione di scene considerate troppo scabrose e, come viene sottolineato nel sito-museo, la battaglia della censura fu persa in un'Italia cinematografica che tentava, con il breve momento dei film a luci rosse, di salvare l'industria seriale destinata al melanconico scivolone commerciale. Intanto, certo, emerge l'esemplare caso di “Ultimo tango a Parigi” (1971) di Bernardo Bertolucci, caso unico di film destinato al rogo (ma l'originale era stato salvato proprio in Francia dal regista), una vergogna nazionale, risolta quindici anni dopo con la riabilitazione e la nuova distribuzione, quando lo scandalo sembrava un reperto di un passato lontano.

''Ossessione'' di ViscontiNon si tagliavano solo sequenze definite oscene, ma pure quelle che, anche in maniera vaga, potessero alludere, senza i soliti bigottismi, alla religione. La scomparsa grande sceneggiatrice Suso Cecchi D'Amico, in una intervista inserita nel “museo”, ricorda con fastidio la censura di una frase nel film “Prepotenti più di prima” (1959) di Mario Mattoli su Giovanni XXIII definito con affetto, dal personaggio interpretato da Aldo Fabrizi, “papa pacioccone”. Bastava questo a creare problemi a un film in un'epoca in cui, come racconta Tatti Sanguineti, il cinema italiano traboccava di figure di preti, monsignori e suore. Però, per esempio, non si poteva accettare che, in “Ossessione” (1943) di Visconti, il sacerdote presente nella locanda fosse un cacciatore di anatre (!) o in “Un giorno in pretura” (1953) di Steno un prete si facesse prendere in giro da una prostituta. Come poi sopportare il sacerdote guerrigliero di “Quien Sabe?” (1966) di Damiano Damiani, un Klaus Kinski il quale, prima di uccidere un suo “collega” buonista che gli chiedeva come fosse possibile il suo essere diventato un bandito, urlava “Dio è morto tra due banditi ed è dalla parte degli oppressi!”.

''La battaglia di Algeri'' di Gillo PontecorvoAnche la violenza, presunta o meno, ha avuto vita difficile sul grande schermo. La mannaia è caduta soprattutto sui film di genere, quelli fondanti della nostra fiorente industria cinematografica negli anni sessanta e settanta, da Sergio Leone agli horror di Lucio Fulci, passando attraverso “La battaglia d'Algeri” (1966) di Gillo Pontecorvo, un capolavoro censurato pure nel bellissimo manifesto, o “Rocco e suoi fratelli” (1960) per cui Luchino Visconti fu condannato e le cui scene drammatiche e splendide della violenza e dell'uccisione di Nadia, furono oscurate.
Il sito dà poi spazio a due registi perseguitati dalla censura, non solo italiana: Pier Paolo Pasolini e Stanley Kubrick. Le filmografie di entrambi sono un esempio di come si possa, da parte delle commissioni di revisione, non capire nulla né di cinema né di arte.

Per fortuna, in questo caso, il tempo è stato giudice migliore, ma la montagna di carte e di processi svolti per condannare o assolvere i film dei due registi è veramente impressionante.
Nel sito è presente anche una corposa bibliografia per chi volesse approfondire la materia, mentre il visitatore può soffermarsi a “leggere” i piccoli saggi che completano ogni sala per concludere il viaggio nel cinema “velato”.