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Winter sleep e il fascino seducente della fine

Tra richiami a Bergman e accompagnato dai lieder di Schubert, Nuri Bilge Ceylan affronta l’inverno della vita. di Gianni Olla

''Winter sleep''C’è una evidente allusività semantica nel titolo originale di Il regno d’inverno, ovvero Winter sleep, ultimo film del regista turco Nuri Bilge Ceylan, vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes. Dunque “il sonno invernale” richiama immediata – grazie anche agli accordi di una sonata di Schubert, che poi si sviluppano nei titoli di coda – gli ultimi “lieder” del compositore austriaco, raccolti in Winterreise (Viaggio d’inverno).

Viaggio verso dove? Nei 24 brani, scritti un anno prima di morire, il messaggio sembra chiaro: il tipico viaggiatore del romanticismo, protagonista e cantore dei versi di Wilhelm Müller, percorre a ritroso i luoghi della propria memoria, avviandosi verso la fine della vita.

''Winter sleep''Non casualmente, poiché molti spettatori e critici hanno evocato, tra i numi tutelari di quest’ultimo film di Ceylan, anche Bergman, le note iniziali dell’ultimo “lieder” della raccolta – lente, dolci, delicate ma solenni – si collegano a Vanità e affanni, apparso nel 1997, penultimo titolo del maestro svedese. Quegli accordi annunciano più volte al protagonista – un alienato mentale di genio, inventore, teatrante, letterato – l’apparire della morte in abiti da clown bianco, di sesso femminile, seducente e disponibile anche all’amplesso. Una morte ovviamente raffigurata in maniera molto diversa rispetto al cavaliere nero che, in Il settimo sigillo, viene sfidato a scacchi dal crociato di ritorno dalla Terrasanta. Qui l’alienato l’attende al varco morbosamente, quasi ne aspettasse l’arrivo liberatorio.

''Winter sleep''Tornando alla pellicola di Ceylan, questo corto circuito interpretativo si rivela nel finale, in cui il protagonista, Aydin (Haluk Biliginer), di ritorno da una fuga mancata verso Istanbul,  dichiara alla giovane moglie, ovvero a se stesso, in voce “over” – cioè in un monologo interiore che vale come confessione silenziosa del proprio fallimento – di volerla semplicemente adorare, pregandola di sopportarlo. È iniziato l’inverno della vita.
L’inquadratura finale, con la grande casa-albergo che domina il paesaggio completamente innevato, ripreso in campo lungo, richiama infine un altro motivo, questa volta letterario: “Neve che cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi; cadeva piana sulle paludi di Allen, e più a occidente sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, sul cimitero deserto, in cima alla collina dov’era sepolto Michael Furey.

''Winter sleep''Si ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte dei cancelli, e sui roveti spogli. E l’anima lenta gli svanì nel sonno mentre udiva la neve cadere lieve su tutto l’universo, lieve come la discesa della loro ultima fine su tutti i vivi e su tutti i morti”. È il finale di The Dead di James Joyce, ed anche del bellissimo film che ne ha tratto John Huston nel 1987, con il biancore visibile, anche se notturno, che anticipa il lungo “sonno invernale” del protagonista.
Ma come siamo arrivati ad essere sommersi dalla neve fino a morirne, almeno allegoricamente? Questo è il vero tema del film, o meglio la “scena nascosta” che dobbiamo mettere in luce.
E, a questo punto, è anche obbligatorio scrivere che il richiamo a Ingmar Bergman finisce qui: i suoi personaggi, almeno dai tempi della trilogia sull’assenza di Dio (anni Sessanta) sono, da subito, presentati come “lacerati” dal dolore. Il loro vissuto, mai ricomposto, viene faticosamente rivelato attraverso continue e impietose scarnificazioni.

''Winter sleep''Invece, in Il regno d’inverno l’esordio ha una misteriosa pacatezza, grazie anche ad un paesaggio ricco di fascino, la Cappadocia, nota ai turisti per le “case delle fate” e già apparsa in Medea di Pasolini, ovvero, secondo il regista e poeta italiano, un “non luogo” mitologico.
Il senso turistico-mitologico potrebbe essere adottato anche dalle prime inquadrature di Ceylan: Aydin – un uomo non certo vecchio, ma già sul filo discendente della vita, diciamo oltre i cinquant’anni – rientra nel suo albergo, familiare ma quasi “de charme”, scavato com’è nelle rocce, dopo esserne uscito, al mattino, per cercare dei funghi. S’informa dal suo segretario factotum su moglie e sorella, e sulle necessità degli ospiti, non molti vista la stagione che va verso il pieno inverno.
Il racconto, diviso in tre parti, procede per piccole rivelazioni biografiche: l’uomo è figlio e erede di uno dei maggiori possidenti della zona. Oltre alla casa-albergo, ha altre proprietà immobiliari dalle quali ricava degli affitti e di cui non si occupa personalmente, ed anzi, come gli aristocratici di un tempo, sembra infastidito quando sorgono problemi.

''Winter sleep''Perché in fondo lui è un intellettuale che avrebbe voluto volare alto: è stato un attore per circa vent’anni, ha ambizioni di scrittore e cura una rubrica giornalista per un giornale locale, avendo al contempo altre idee per future pubblicazioni. La sua fissazione è il decoro, l’essenza borghese che dovrebbero avere coloro che guidano la comunità, ad esempio l’Iman, un bravo giovane che però si presenta nella casa-albergo sporco e quasi puzzolente.
Le faglie o le incrinature del suo personaggio tutto d’un pezzo, in fondo simpatico, sono altresì rivelate da altre due presenze: la sorella divorziata, anche lei rifugiatasi nei luoghi familiari, e la giovane moglie, che assume un importanza crescente quando la sicurezza del padrone di casa sembra già sul viale del tramonto. La prima quasi schernisce il fratello per le osservazioni giornalistiche da “tuttologo”– che lei considera banali – e per di più pubblicate su un giornaletto locale che nessuno legge.

''Winter sleep''La seconda, fino all’esplosione nella terza parte del film, dopo una riunione di intellettuali impegnati nel sostegno alle scuole, è una presenza quasi muta, che, retrospettivamente, rivelerà la sua infelicità per essersi seppellita in un luogo simile, e per di più con un uomo molto più anziano e soprattutto egoista .
A questo punto, complice l’omaggio dell’autore, nei titoli di coda, ad Anton Cechov, abbiamo un quadro definito dell’universalità dei luoghi e delle figure raccontate per frammenti apparentemente senza importanza: lunghi o brevi che siano, sono basati, ancora una volta, sulla moralità,  sul senso della vita e dell’onorabilità degli esseri umani. È appunto straordinario l’appello della sorella, quasi evangelico, in ogni caso religioso, alla “non reazione” nei confronti della violenza, accolto, ovviamente, con scetticismo e irrisione.

''Winter sleep''Ovviamente, per apprezzare la sottilissima drammaturgia di Ceylan non è affatto necessario riconoscere in Aydin le frustrazioni intellettuali di Vanja contrapposte o affiancate ala complicata senescenza del celebre e vanesio professore, alle delusioni sentimentali e esistenziali delle giovani di questo e altri testi cecoviani, o al mestiere di autore/attore, poi fallito, dell’antieroe di Il gabbiano. Basta ricordarsi, nel bene e bel male, degli “eruditi” di provincia (cioè gli intellettuali, i maestri, i poeti e gli scrittori di provincia)  del nostro Meridione: filosofi spiccioli, spesso benestanti, e magari proprietari terrieri.
Quanta alla forma filmica, il quadro di lento soffocamento iniziale provocato dalla macchina da presa che esplora i personaggi anche quando non hanno una funzione narrativa precisa, viene “liberato”, quasi subito, dalla prima esplosione scenica (ogni atto, come in Cecov, ha un acme che spezza l’equilibrio della rappresentazione): un bambino che, dopo aver rotto con una pietra il vetro dell’auto del protagonista, cade nell’acqua gelida, e viene portato nella propria  casa dalle vittime dell’incidente. I quali osservano con fastidio e disagio i loro affittuari – parenti del bambino – che non hanno pagato la pigione da troppo tempo. Poveri, ed anche poco decorosi, secondo la morale del proprietario.

''Winter sleep''A questa citazione di una costola de I fratelli Karamazov (il capitano offeso da Dimitri e suo figlio Iluiscia), fa seguito un’altra metamorfosi: l’eroe negativo della vicenda, il padre del ragazzo che ha lanciato la pietra, pregiudicato e alcolista, ha la forza psicologica di un demone nichilista (anche Raskolnikov aveva una sua moralità): butta sul fuoco il pacco di banconote offertagli dalla moglie di Aydin, come gesto di comprensione e di riparazione sociale più che morale.
Infine, l’ultimo rito di passaggio del film è la lunga chiacchierata alcolica tra maschi, in una “dacia” isolata. Il protagonista vi giunge per un semplice e comprensibile ultimo impulso di vitalità: la gelosia nei confronti di un maestro elementare che sembra corteggiare la moglie e che lui disprezza senza però dimostragli astio. La sua vitalità in declino – passiva ma cosciente, visto che prima di partire ha liberato un cavallo selvaggio che aveva acquistato a caro prezzo qualche tempo prima – si specchia nell’ultimo sussulto di vita di una lepre a cui ha appena sparato.

''Winter sleep''È curioso constatare che la percezione del percorso artistico del  regista turco – che figura ormai tra i maggiori autori contemporanei – sia passato, nelle sue ultime quattro opere uscite sugli schermi italiani, dall’attenzione quasi esotica (ma il termine è gravato da troppe ombre per essere usato ancora filologicamente) o comunque antropologica, ad un universalismo in cui ci si può ritrovare facilmente, senza perdere di vista la geografia e la cultura specifica. Ed anzi, tutte quelle lunghe discussioni sul decoro dei ministri del culto e sul fatto che l’Islam è una religione che ha creato una civiltà vera, di cui essere orgogliosi, sembrano confermare la cecità del nostro protagonista di fronte a ciò che succede realmente nell’Islam contemporaneo, a due passi dalla Turchia e anche dentro la Turchia, e che non riguarda certo i poveri Iman di paese.

''Winter sleep''Il primo film di Ceylan, Uzak, premiato anch’esso a Cannes, racconta la storia parallela di due fratelli. Uno dei due è un fotografo di successo a Istanbul; il secondo, disoccupato, proveniente dalla provincia estrema – magari proprio dalla Cappadocia – s’installa, in una provvisoria, e sempre più ambigua stabilità, dal fratello famoso, che non lo sopporta proprio. Il fotografo è forse l’archetipo del possidente intellettuale ritratto in Winter sleep?
Il secondo titolo, Le tre scimmie, anch’esso premiato al festival francese, è un film politico, molto legato all’intreccio tra feudalità antica e modernità politica: nessuno vede niente, per quieto vivere. Il terzo, quasi un prologo cecoviano a Winter Sleep, è del 2012, C’era un volta in Anatolia: una lunga notte di tre inquisitori (un poliziotto, un magistrato, un medico legale) che cercano un cadavere assieme all’assassino reo confesso.

Ognuno di essi sovrappone il proprio vissuto (e il proprio dolore) a quello delle vittime e dei carnefici. Come dire che non esiste modo di sfuggire al mondo – neanche nella Cappadocia delle fate – e che la pietra che ha in mano il bambino (in C’era una volta in Anatolia, lanciata dal figlio della vittima, colpirà l’assassino), prima o poi ci raggiungerà.

22 ottobre 2014