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“Across Asia”. Cosa rimane del festival proibito?

L’eterno presente del potere politico e la “porta della memoria” ritrovata da documentaristi indipendenti cinesi. A Cagliari una rassegna di grande interesse storico e attualistico. di Gianni Olla

''The romance of the western chambre''Lunedì 8 dicembre, con la proiezione di The romance of the western chambre, diretto nel 1927 da Hou Yao, si è conclusa a Cagliari la terza edizione del festival “Across Asia film festival”, dedicato quest’anno al Cinema indipendente cinese.

Il film – o quel che rimane di un quasi colossal di ben dieci rulli (100 minuti circa) – è stato riproposto, accompagnato dalla chitarra di Mike Cooper, come una sorta di obbligatorio ponte tra le diverse Cine che, da quegli anni caratterizzati dall’approssimarsi dell’invasione giapponese, arriva all’attuale Repubblica popolare.
Ma anche Taiwan (23 milioni di abitanti) è Cina, come lo sono Hong Kong e Macao, fino al 1997 ancora legate, formalmente e spesso anche politicamente, ai vecchi domini coloniali inglesi e portoghesi. Dunque, la sola parola Cina ci immerge in grandezze e stratificazioni storiche, geografiche, economiche e culturali, di difficile decifrazione, persino in campo filmico. Tanto per citare dalla cronaca recente, si stima che l’industria cinematografica di quel paese, forte di un numero di spettatori in continua crescita, supererà in tempi brevi la potenza economica di Hollywood. Quando alla “potenza” culturale – di certo non paragonabile a quella, appunto, hollywoodiana – per ora è misurabile in rapporto alle vicende interne della Cina.

Wu WenguangL’iniziativa cagliaritana, promossa da Maria Paola Zedda e Stefano Galanti, è nata infatti sotto il segno della censura politica: il Festival del cinema indipendente cinese ha infatti la sua sede istituzionale a Pechino, ma i film, già selezionati, quest’anno non sono mai stati proiettati, visto che la polizia ha impedito lo svolgimento della manifestazione. Il suo animatore, il documentarista Wu Wenguang, ha così portato a Cagliari i film e i registi, dando vita ad una “vetrina”, sicuramente parziale, delle tendenze della settima generazione di cineasti, per usare appunto la datazione e la terminologia di quel paese. La rassegna si è svolta tra le sale di proiezione del Greenwich, della Cineteca sarda, dell’Hostal Marina, del Minimax, ed ha avuto i suoi momenti seminariali al Lazzaretto di Borgo S. Elia e alla Facoltà di Scienze Politiche, presso il Dipartimento di Storia e istituzioni dell’Asia.
Per ripartire dalla serata conclusiva, nella lunghissima distanza storica tra il film muto, tratto da un celebre romanzo dell’Ottocento, e il concetto “ballerino” di “cinema indipendente” – che in Cina può voler dire “proibito” o ostacolato dal governo – si misura appunto una delle tante e grandissime diversità culturali e storiche di ciò che chiamiamo Cina.

Wu WenguangThe romance of the western chamber appartiene ad una cinematografia in larga parte influenzata dai tecnici delle “legazioni” occidentali di stanza a Shangai, interessati alla mitologia romanzesca e folclorica cinese, o, più spesso pronti a cogliere il realismo urbano della grande metropoli continentale, non a caso frequentata spesso anche dai film hollywoodiani modellati sull’esotismo romanzesco otto/novecentesco. Molto spesso quei film erano anche melodrammatici (celebri furono Angeli della strada, Corvi e passeri, Le sventure del pesco e del pruno, tutti girati nei primi anni Trenta), ma ci fu anche qualche curioso esempio di etnografia impropria, dovuta appunto alla cultura e allo sguardo locale. Bachi da seta di primavera, un film del 1933 riproposto recentemente in una rassegna storica svoltasi a Napoli, è appunto un melodramma la cui narrazione s’interrompe spesso per visualizzare i lunghi processi produttivi del filo di seta sul cui commercio campano i protagonisti dell’opera.

''Vita di Wu Xun''Da quei tempi ancora pionieristici si può saltare al post ’49, quando nasce il cinema della Repubblica popolare cinese, controllato ovviamente dal Partito Comunista e dagli organi governativi. Le tematiche più frequenti si basavano soprattutto su ricostruzioni storiche legate a personaggi del passato che il nuovo regime riteneva degni della nuova Cina, o su avventure belliche e eroiche della resistenza anti giapponese o della guerra contro il Kuomintang. Ogni variazione degli schemi diventava sospetto e finiva per rappresentare un sintomo non troppo nascosto di dispute politiche e culturali, difficili da decifrare per uno spettatore occidentale. Due esempi sono rimasti famosi: il primo è Vita di Wu Xun, del veterano Sun Yu e interpretato da un affermato divo del cinema pre comunista, Zhao Dan. Raccontava le imprese pietose di un celebre mendicante – eroe di saghe leggendarie e romanzesche – che faceva dono alle scuole per i poveri del poco che gli rimaneva delle elemosine ricevute. Fu appunto la caratterizzazione pietistica del personaggio, che non poteva confondersi con la lotta di classe, ed era dunque lontana anche da ogni prospettiva anti capitalista, ad essere considerata nociva. Ciò portò al sequestro del film e alla messa al bando del regista. Era passato appena un anno dalla nascita della Repubblica popolare.

'Primavera precoce al secondo mese lunare''Poco più di dieci anni dopo, negli anni che vedono il fallimento dell’industrializzazione forzata (Il grande balzo in avanti), la successiva carestia con milioni di morti nelle campagne, e i primi segni della rivoluzione culturale, un’analoga censura cadde su un film di Tieli Xie, Primavera precoce al secondo mese lunare (1963), ambientato alla fine degli anni Venti. Una storia d’amore quasi melodrammatica, il cui protagonista era però un insegnante progressista, un tempo aderente al Movimento studentesco del 4 maggio del 1919, prima grande agitazione modernista, guidata da Sun Yat Sen, che in seguito avrebbe portato alla nascita del partito nazionalista e di quello comunista, entrambi oppositori dell’imperialismo giapponese che aveva invaso e occupato la Manciuria.
Anche in questo caso, l’accusa – che provocò il ritiro di un film molto popolare – era, di nuovo, l’eccessiva importanza data al generico progressismo dell’insegnante – e in una sequenza si evoca la possibilità di uno sviluppo capitalista antifeudale, propugnato appunto dai nazionalisti – e, timidamente, ad una storia d’amore dai caratteri estetici non nazionali. Si era infatti in un periodo che annunciava non solo l’estremismo politico e sociale della Rivoluzione culturale, ma anche la sconfessione dell’Unione Sovietica come matrice culturale ed estetica del cinema cinese nato dopo il 1949.

Eppure il film, tuttora visibile, è invece tra i pochi prodotti dell’epoca a cercare riferimenti estetici nella pittura paesaggistica cinese e nelle forme filmiche orientali, basate più sulla continuità delle riprese che sul montaggio. Progressivamente, a partire proprio dalla censura al film di Tieli Xie, verranno chiuse scuole e accademie cinematografiche (furono riaperte solo a metà degli anni Settanta, dopo la morte di Mao Zedong) e la cinematografia nazionale s’identificò completamente con i documentari di propaganda e con le sette opere modello, tratte da altrettante revisioni attualistiche della tradizionale opera-balletto cinese.

''Sorgo Rosso''Osannate acriticamente dai maoisti europei, circolarono anche in Italia, sebbene solo nelle sedi del movimenti cosiddetti filo cinesi. La più celebre, Il distaccamento rosso femminile, fu proiettata nel 1973 a Cagliari, nell’aula magna della Clinica medica. La creatività vera e propria, una volte riaperte le scuole di cinema, emergerà con un nome simbolo, Zhang Ymou, oggi considerato dai dissidenti cinesi una sorta di Leni Riefenstahl, ovvero un cineasta di regime. Eppure, quanta aria nuova si respirava in Sorgo Rosso – tratto da un romanzo del premio nobel Mo Yan – Ju Dou e Lanterne Rosse, girati a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, che gli valsero premi nei maggiori festival del mondo. Ma di nuovo, mettendo nel conto, anche il capolavoro dell’epoca, Addio mio concubina (1993) di Cehn Kaige, paradossalmente ambientato in quel mondo dell’opera cinese tradizionale che Chang Ching, l’onnipotente moglie di Mao, aveva imposto come perfetta rappresentazione nazionale, non si può non sottolineare la persistente ricerca di un passato “esemplare”, ovvero feudale fino all’avvento dei comunisti al potere.

''La storia di Qiu Ju''Le uniche eccezioni sono le due migliori opere di Zhang Ymou, La storia di Qiu Ju (1992) e Vivere (1994). Il primo, accolto piuttosto bene dal governo, racconta la vicenda di una contadina che, dal suo villaggio, arriva fino ad una grande città per avere giustizia contro il capo villaggio che ha percosso il marito. Realista ma coloratissimo – una caratteristica formale sempre presente in Zang Ymou, che aveva una formazione da direttore della fotografia – quasi documentaristico nel raccontare le tante diversissime Cine che convivono in questa lunga e infinita transizione verso la modernità, il film è anche sottilmente “politico”, visto che mostra sempre poliziotti e magistrati ragionevoli e legalitari. Insomma, il messaggio subliminale è che il caos della Rivoluzione culturale non tornerà più.

''La fanciulla cavaliere errante''Il secondo, meno gradito ai censori, è una lunga cavalcata storica, dagli anni del dominio giapponese alla fine della rivoluzione culturale, con al centro una famiglia dignitosa e povera, che resiste ad ogni “rivoluzione”, semplicemente vivendo e arrangiandosi. Una vera metafora dell’uomo cinese che continua a sopportare ogni sofferenza. Va però detto che le altre due Cine, confinanti con il continente, proprio negli anni in cui la rivoluzione culturale trionfava, svilupparono cinematografie in qualche modo contrapposte tra loro e soprattutto lontane anni luce dalla Cina popolare. A Hong Kong venne inventato il cinema di arti marziali (Bruce Lee fu un mito anche per i giovani sottoproletari italiani degli anni Settanta) e soprattutto un genere, ancora più spettacolare, legato alla mitologia feudale, avventurosa e magica, rappresentato da King Hu, il cui film più celebre, La fanciulla cavaliere errante (1972), anch’esso tuttora visibile, fu presentato a Cannes, per poi transitare al Festival del nuovo cinema di Pesaro.

''Il buco''Un autore a parte è poi Won Kar Wai, cinese continentale la cui famiglia si trasferì a Hong Kong all’inizio della rivoluzione culturale. Considerato il più occidentale dei cineasti cinesi, è in realtà, il raffinato interprete di un sentimento di lontananza dalle sue radici e forse anche dalla nuova patria. Una lontananza/estraneità dai caratteri tragico-melodrammatici, è visibile nel suo capolavoro, In the mood for love, girato nel 2000; nei tre film precedenti:   Hong Kong Express (1994), Angeli perduti (1995), Happy Together (1997) è invece ironica e provocatoria. La sua filmografia può introdurre un’altra diversità e trasversalità, quella di Taiwan, il cui regista più conosciuto è sicuramente Ang Lee, pluripremiato in ogni festival, poliedrico, capace di raccontare efficacemente il mondo americano e quello cinese, storico e contemporaneo, ma anche abilissimo nel mettere in scena fiabe rassicuranti (La tigre e il dragone, premio oscar 2000) o turbative (Vita di Pi). Ma Taiwan è anche il paese di due tra i maggiori autori contemporanei, Hou Hsiao-hsien (Città dolente, Leone d’oro a Venezia’89) e Tsai Ming-liang (Vive l’amour, Il fiume, Il buco, girati a metà degli anni Novanta): l’uno capace di raccontare la memoria storica – e tragica – della separazione tra le due Cine; l’altro un provocatorio indagatore della solitudine di quel lembo di Cina.

Wu WenguangSinteticamente, nell’incontro – dal titolo intrigante “Bussare alle porte della memoria” – svoltosi venerdì 5 dicembre alla facoltà di Scienze Politiche, coordinato dalla studiosa di Storia dell’Asia Barbara Onnis, si è parlato anche di queste radici culturali, visto che è impossibile separare il cinema cinese – ma anche di altri paesi – dalla storia generale, cioè dagli accadimenti fattuali importanti. E si potrebbe quindi affermare che, sia il cinema indipendente vero e proprio, rappresentato proprio da Wu e dalle sue collaboratrici: Zou Xueping, Zhang Mengqi, anche esse presenti a Cagliari, sia l’ultima generazione di cineasti “da sala”, di cui si sono visti, proprio a Cagliari, alcune recenti opere piuttosto belle, rappresentano una vera e propria rottura con la tradizione o piuttosto un allineamento con la varietà di stili, forme e temi delle altre cine.

Folk memory projectDa oltre vent’anni, infatti, Wu ha fondato il Folk Memory Project: i cineasti aderenti al movimento girano per le campagne, magari sperdute – ma il punto di partenza è sempre il paese natale degli operatori – alla ricerca di testimonianze da fissare sui supporti digitali visivi e auditivi. Il tema dominante è stato ed è tuttora la grande carestia degli anni 59- 62, da sempre rimossa storicamente, almeno come “vulgata” di dominio pubblico. Il che significa che questi cineasti/antropologhi cercano la riconciliazione con il passato. Attraverso le testimonianze si traccia una linea di continuità, almeno familiare, con quella lunga sequenza storica che dapprima si chiamò “Il grande balzo in avanti” (l’industrializzazione forzata, causa prima della carestia), poi la fame che provocò milioni di morti e un diffuso cannibalismo nei villaggi più isolati. Ed infine, a metà del decennio successivo, la rivoluzione culturale: una lotta per il potere tra Mao e i suoi rivali che provocò un decennio di anarchia e di nuove carestie e repressioni.
Questo recupero della memoria collettiva e individuale – considerato ciò che si è scritto a proposito dell’impossibilità di accettare la storia passata senza interpretarla in maniera rigida o censurarla come “non esistente” – è sicuramente il tratto più rivoluzionario dell’ultima generazione, che, secondo le parole dello stesso Wu, cerca di fare il proprio lavoro partendo dal basso e cercando di evitare i contatti, sicuramente pericolosi, con il mondo politico.

Peraltro, sia durante l’incontro alla Facoltà di Scienze Politiche, sia la domenica successiva all’Hostal della Marina, dopo che al mattino proprio Wu aveva diretto, al Lazzaretto, una “Master class” per i filmmakers isolani, si sono visti i primi lavori di antropologia visuale del gruppo: Trash Village  di  Zou XuepingSelf Portrait at 47 KM  di Zhang Mengqi, The Gleaners  di Ye Zuyi, che si caratterizzano per un approccio quasi timido, “sulla soglia” (anche letteralmente, la macchina da presa incornicia la porta delle case contadine, senza mai entrare) o, letteralmente, sulla porta della memoria, non sempre facile da aprire. 
Ma accanto alla riscoperta quasi clandestina di una storia locale che prenda il posto di quella ufficiale, e mettendo in conto anche alcuni esempi – visti lunedì 8 al MiniMax – di cinema sperimentale, legato alle poetiche cosmopolite dei “videomakers”, ecco altri cineasti che si appropriano del presente provando a definirsi come semplici, e quasi sempre anonimi, abitanti di un immenso paese.

''Winter Vacation'' di Li HongqiIn Winter vacation (2010) di Li Hongqi, premiato a Locarno, un gruppo di giovani/adolescenti, classe medio-bassa, abitanti di una quartiere moderno e tristissimo, passa il tempo delle vacanze scolastiche nel più semplice dei modi: stando immobile a osservare altri uomini e donne catatoniche. In questo quadro da “finale di partita” beckettiano – ma girato con lo stile umoristico di Kaurismaki – l’unico elemento di ribellione è un bambino che rivelerà alla sua amichetta di voler diventare, da grande, un orfano, salvo poi anticipare questo desiderio e fuggire.
Se l’allegoria di questa pellicola, che pure resta ancorata, in superficie, al tema universale dell’inadeguatezza o all’assenza dei padri, è l’assoluta immobilità della Cina del benessere, si corre invece moltissimo in A touch of Sin di Jia Zhangke, già autore, nel 2009 di Still life, bellissima opera sulla disgregazione/distruzione delle comunità che vivevano a margini delle “Tre gole” del Fiume Azzurro, dove è stata realizzata la diga più grande del mondo.
Premiato a Cannes nel 2013, il film racconta quattro storie intrecciate, in cui tutti i protagonisti fuggono da qualcosa: un lavoro terribile, un amore sfortunato, una famiglia. In realtà, dietro queste fughe si rivela una nuova e eterna immobilità, in larga parte la dannazione di un lavoro schiavistico, pur nella modernità trionfante e accecante della nuova Cina “mercantile”. Così l’unico personaggio che reagisce al supposto progresso è un uomo di mezz’età che, picchiato e irriso dai potenti che ha accusato giustamente di corruzione, decide di compiere una vendetta “tarantiniana”: uccide tutti i malversatori e i loro aguzzini. E, già che ha in mano un fucile da caccia, fa fuori anche un sadico vetturale che frusta senza ragione il suo povero cavallo. Una scena bunueliana che invita a riderci sopra, anche se è proprio difficile tenere il sorriso per più di qualche minuto.  

''Here, then''Sempre declinato al presente, ma molto più interiorizzato è Here, Then di Mao Mao, premiato a Edimburgo, sorta di “ronde” tra rapporti telefonici, desideri, incontri casuali nella Cina di oggi. Film piuttosto bello e certamente influenzato non solo dal cinema occidentale, ma anche dal’eclettismo filmico di Taiwan e di Hong Kong. Infine, Treating di Wu Wenguang, presentato come un documentario, è in realtà quasi un’autobiografia emozionale dell’autore, filmata “in corpore vili”, dopo la morte della madre, avvenuta nel 2007.
Ora, è vero che pochi titoli, e per di più censurati in patria, non saranno mai emblematici di tendenze dominati, ma pure in questa capacità/possibilità di ricominciare a pensare il presente e il passato, a partire non dagli eroi del “socialismo con caratteri cinesi”, ma dall’uomo comune, si legge, da un lato una fuoriuscita dal monopolio del potere partitico (ovvero dalla dittatura); dall’altro da ciò che Hanna Arendt chiamava totalitarismo, ovvero il dominio assoluto, anche ideale e psicologico, sui cittadini e sui loro atti, parole e pensieri. In pratica, lo sviluppo economico metropolitano, la tecnologia mediatica e leggera, la possibilità di viaggiare, di istruirsi, di leggere anche testi stranieri, hanno creato una nuova generazione – e questo a partire dal massacro del 1989 nella piazza Tienanmen, data d’inizio anche del Folk memory project – che finirà per far parte della futura classe dirigente. O almeno, questa è la speranza.

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17 dicembre 2014