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Le radici di American Sniper

La guerra o le guerre americane secondo Clint Eastwood. Dalla mitologia del sacrificio e della “rigenerazione” all’annullamento della personalità nei gesti ripetitivi e automatici del cecchino Chris Kyle. di Gianni Olla

''American sniper''Il mirino telescopico esplora il territorio devastato dalla guerra irachena: la città, già semi distrutta – Falluja, roccaforte dei sunniti che non si arresero dopo la caduta di Bagdad, nel 2004 – è piena di guerriglieri. Dietro il mirino, sui tetti delle case, sta un “tiratore scelto”, un cecchino, l’American Sniper del film di Eastwood, che deve proteggere i suoi compagni mentre frugano dentro le abitazioni e i vicoli.

Tra i bersagli non ci sono solo uomini armati – e le armi possono essere più o meno nascoste – ma anche donne e bambini e il nostro protagonista, ogni volta che vede un “bersaglio” apparentemente irregolare (ma dotato di un lanciarazzi, di una bomba o di un Kalašnikov) suggerisce telepaticamente alle possibili vittime, attraverso un monologo interiore, di lasciare stare le armi e allontanarsi. Poi progressivamente, il suo ruolo di “killer” legale e giustificato, si nevrotizza e diventa una sorta di duello western contro un rivale specifico e identificabile: un olimpionico di tiro e segno, siriano, arruolato da Al Qaeda e subito utilizzato come “cecchino” nei confronti degli odiati invasori americani.

''American sniper''Sintetica e drammaticamente concentrata, la parte bellica del film – che ritorna, capitolo dopo capitolo a segnare la narrazione ellittica – ha anche un significazione nominale. American Sniper non ha l’articolo, e dunque riguarda tutti i cecchini americani, il segno distintivo di una nazione in guerra. Ma, con apparente incongruità, la pellicola si apre in una pacifica comunità texana, nei tardi anni Settanta. A tavola un padre impone ai suoi figli, poco più che bambini, una rigida morale da pionieri: “Al mondo ci sono le pecore, i lupi, e poi i cani da pastore. Voi non sarete mai né pecore, né lupi.” Il figlio maggiore, otto anni, ha avuto già il “privilegio” di uccidere un cervo con un colpo solo (come diceva e faceva Robert De Niro ne Il cacciatore di Cimino), ma anche di salvare il fratellino dalle grinfie di un compagno di scuola violento. Quel bambino diventerà anch’esso un allevatore (un cow-boy, così si presenta alla futura moglie, conosciuta in un locale notturno), si divertirà a domare i cavalli nei “rodeos”, e verrà traumatizzato, prima dalle immagini televisive degli attentati islamici nei confronti delle ambasciate americane, e quindi, inevitabilmente, dalla strage dell’11 settembre. Diventerà “An american sniper”, al singolare, giusto per sottolineare il confronto tra il destino collettivo della nazione e quello individuale.

''Three Kings''L’ultima fatica dell’ottantaquattrenne Clint Eastwood è un film “ereditato” da Steven Spielberg e prima ancora da David Owen Russell, già regista di Three Kings (1999), primo titolo ad occuparsi del’Iraq, o meglio della guerra irachena (o del Golfo) scatenata nel 1990 da George Bush senior, su mandato Onu, per liberare il Kuwait invaso dall’esercito di Saddam HusseinPoiché la sceneggiatura del film è accreditata a Scott McEwen e James Defelice, che sono anche i coautori dell’autobiografia di Chris Kyle, protagonista della storia, pubblicata in Italia da Mondadori con lo stesso titolo della pellicola, mi piacerebbe, da cultore del cinema “invisibile”, ovvero solo progettato e mai tradotto in immagini, verificare gli adattamenti costruiti dai tre registi che si sono alternati nella lettura del libro/copione. Per ora occorre accontentarci, però, di ciò che si vede nel film di Eastwood, cominciando appunto, dalla succinta biografia del protagonista.

Il vero Chris KyleChris Kyle fu un tiratore scelto dei Navy Seals, volontario nella seconda guerra irachena, iniziata nel 2003 e mai finita, nonostante le truppe statunitensi siano state progressivamente ritirate dopo l’elezione di Obama. Accreditato di oltre 160 bersagli (ovvero morti ammazzati) in 1000 giorni di servizio, diluiti nei sei anni di guerra, fu ucciso nel 2013 da un ex commilitone, traumatizzato dall’avventura irachena, che gli era stato affidato dai centri di riabilitazione dell’esercito. Quest’ultimo fatto, accaduto ovviamente dopo la pubblicazione del volume e la redazione delle prime sceneggiature, viene citato semplicemente nei titoli di coda, preceduti dall’apparizione della “triste figura” del reduce che attende, fuori dalla porta, il suo “tutor” dei tempi di pace. Al sintetico epitaffio, seguono però altre immagini, di finzione e soprattutto documentarie, che mostrano il funerale di Kyle: la pubblica e festosa commemorazione di un eroe, senza se e senza ma, a cui partecipano migliaia di persone che seguono il corteo funebre con fiori e bandiere. Il primo e unico richiamo mitologico del film, al limite dell’extra diegesi.

''Gran Torino''La vicenda raccontata da Eastwood resta, fino alla fine, in bilico tra l’appartenenza al suo primo cinema di giustizieri – i polizieschi in cui impersonava l’ispettore Callaghan, non tutti diretti da lui, ma certamente segnati dalla sua presenza di attore/personaggio; gli western che incattivivano l’ironia di Sergio Leone, riportando il genere all’idea puritana della frontiera – e la pacata ma sofferta osservazione che la violenza originaria, difensiva e offensiva, che ha avuto una grande importanza nella storia degli Stati Uniti, dovrebbe essere ammansita dalla ragione, come accade nel suo film più bello, Un mondo perfetto, proprio per non essere sottoposta ad un continuo tormento memoriale e esistenziale, quello che si porta dietro il protagonista dell’ultimo suo grande titolo, Gran Torino.

''Gran Torino''Ma proprio la presenza di un vero “eroe” dei tempi di guerra potrebbe ipotizzare che la filiazione storico-agiografica  – magari condivisa anche da Spielberg – sia anche più lontana nel tempo. Il progenitore potrebbe essere Alvin York, contadino e cacciatore del Tennessee, grande tiratore, ubriacone e festaiolo, che divenne un cristiano pacifista, dopo essere scampato ad un “fulmine divino”. Esentato dalla prima guerra mondiale come obiettore di coscienza, poi arruolato nei servizi civili in Europa, ed infine, sconvolto dalla morte in battaglia di tanti ragazzi, York, di nuovo illuminato da Dio (o dalla Bibbia), decise di usare la sua bravura di fuciliere per proteggere i suoi commilitoni.  Nel 1917, il “cane da pastore”, durante un una impresa folle e mal organizzata, si trovò, con i suoi compagni dietro le linee tedesche, e qui fece fuori 25 soldati nemici e né catturò altri 132, spaventati dal suo coraggio e dalla sua potenza di fuoco. Tornò a casa, sposò la sua fidanzata e visse pacificamente e senza apparenti rimorsi, fino al 1964.

''Il sergente York''Nel 1940 fu celebrato da Howard Hawks nel film Il sergente York: il fuciliere/sniper della prima grande guerra americana era interpretato da un sorridente e sornione Gary Cooper, che, ovviamente, invitava, attraverso le sue gesta, a imitare l’eroismo di quell’anonimo contadino nella nuova e terribile guerra che il governo di Roosevelt si stava preparando ad affrontare, avendo contro, fino all’attacco giapponese di Pearl Harbour, la maggioranza dell’opinione pubblica del paese. È dunque facile farsi tentare dal mettere in una contraddittoria continuità – quasi un ossimoro – quel titolo classico e epico un gran numero di film sulla seconda guerra mondiale, compresi i dubbiosi romanzi di James Jones (Da qui all’eternità, La sottile linea rossa), da cui furono tratti dei celebri film di Zinnemann e di Malick, quasi inneggianti alla diserzione; o anche i documentari di John Huston (censurati) sui reduci della seconda guerra mondiale traumatizzati nel corpo e nella psiche; o il celebre I  migliori anni della nostra vita di William Wyler (1946), sospettato di disfattismo dai maccartisti intenti a scovare i dissidenti antipatriottici della nuova guerra (fredda) contro l’Unione sovietica.

''The Hurt Locker''E ancora, dopo il dimenticato I ponti di Toko-ri di Mark Robson (1954), dedicato alla guerra di Corea, che aveva come protagonista un altro eroe dubbioso interpretato da William Holden, arriva la lunga serie dei film sul Vietnam – in testa, di nuovo, Il cacciatore, con il contrasto tra la morale del colpo solo e la strage generalizzata della guerra – nonché i pochi ma significativi titoli sull’Iraq: il già citato Three Kings, Jarhead di Sam Mendes, Redacted di Brian De Palma, The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, nonché, della stessa regista, Zero Dark Thirty, che racconta l’uccisione in Pakistan del nemico pubblico n. 1 degli Stati Uniti, il capo di Al Qaeda, Bin Laden. Ora, se esclude Nella valle di Elah (2007) di Paul Haggis, con la bandiera americana sventolata quotidianamente da Tommy Lee Jones, patriottico genitore di un militare scomparso misteriosamente (ucciso non in azione, ma dai suoi stessi compagni ubriachi) dopo la guerra irachena, tutte queste pellicole sono le prime, nella storia del cinema bellico statunitense, a non avere alle spalle alcuna mitologia, in primis, quella della “rigenerazione” dello spirito americano, presente in dosi massicce anche nei film sul Vietnam e contro la guerra del Vietnam.

''American sniper''Le azioni belliche, infatti, compresa quella che ha portato all’uccisione di Bin Laden, sono raccontate nei loro dettagli tecnici di superficie, notarili, come dei rapporti di polizia, poi trasformati in frammenti di realtà quasi documentaria, anche negli aspetti più crudi come la tortura. E non a caso, quei soldati non vedono l’ora di tornare a casa e abbandonare il loro mestiere di ragionieri della morte.

L’uccisione come droga, il mestiere di giustiziere come missione che cancella ogni domanda sulla necessità della guerra – e dunque sulla mitologia rigeneratrice – è forse il tema segreto del film. Kyle ha una moglie che lo aspetta sempre e vorrebbe impedirgli di ripartire, e due bambini amatissimi, ma non è in grado di stare con le mani in mano e, per difendere il figlio che gioca con il cane, rischia di uccidere la bestiola.

''Non è un paese per vecchi''Spesso, anche in virtù del suo linguaggio cinematografico classico, “trasparente”, come scrivono i manuali, il regista è stato definito come l’ultimo erede di John Ford, americanissimo, patriottico, umanissimo, pietoso, ma anche legato ad una cultura cattolico-irlandese che non poteva permettere una tale estremizzazione del diritto di uccidere e non si portava dietro il radicalismo puritano degli altri maestri del western. Ma il mondo di Ford non esiste più, travolto dal cinema post moderno, che, tra i suoi rappresentanti più autorevoli, per fortuna, ha non solo lo splatter scherzoso di Tarantino, ma anche l’ironia nera dei fratelli Coen. In uno dei loro film più conosciuti, Non è paese per vecchi, pervaso dalla violenza in ogni sequenza – e ambientato anch’esso in Texas, terra adottiva dello scrittore Cormac McCarthy, dal cui romanzo è tratta la pellicola – gli anziani, tra il quali lo sceriffo Tommy Lee Jones, invecchiato precocemente, si lamentano dei tempi nuovi (dominati dalla droga e dal denaro), ma in realtà i racconti del passato non sono poi diversi da quelli attuali. La vita di frontiera – e la frontiera è stata l’essenza del cultura di fondazione americana – è sempre stata una sfilata di morti ammazzati e il celebre deserto fordiano, simbolo di purezza nostalgica, è appunto attraversato dalla morte che invade anche le metropoli, per poi riversarsi all’esterno degli Stati Uniti, nelle nuove frontiere dell’impero. Insomma, per tornare ad un “refrain” della cultura americana, non c’è mai stata perdita d’innocenza perché, nella realtà, non c’è mai stata innocenza.

''American sniper''. Eastwood sul setCosì, anche nelle dichiarazioni di Eastwood – la storia ama la guerra è il suo motto pessimistico e quasi cinico – si può leggere un lungo percorso di “mitridatizzazione” della violenza, cinematograficamente visibile solo a partire dagli anni Settanta, quando un disincanto generalizzato e una minore censura, hanno permesso di visualizzare, nel cinema di genere e in quello d’autore, il sangue, le uccisioni, le stragi che, realmente, avvenivano nelle guerre e nel mondo intero, anche senza i campi di sterminio nazisti. Sempre di più, come lo stesso Eastwood ci ha raccontato in Flags of our fathers, la guerra è diventata, in maniera contraddittoria, uno spettacolo ed un atto di accusa verso il mondo, ed è ormai difficile ammansire l’orrore. Si può alleggerirlo, contrapponendo all’eroismo di Kyle la scelta del fratello, che, di ritorno da una missione in Iraq, decide che non vuole più fare il “cane da pastore”, perché la guerra è una merda. O semplicemente sottraendo alla scene più cruente ogni effettismo da video gioco, ogni musica, ogni rumore che non sia quello delle pallottole e dei tonfi sulla strada, o delle urla dei feriti.

''American sniper''E infine, caratterizzando il protagonista, Bradley Cooper, reduce da ruoli da divo appena un anno fa (American Hustle, candidato agli oscar 2014), come una sorta di “terminator” ingabbiato nella divisa e in tutti gli altri mezzi che servono al suo mestiere di uccisore, per poi proporlo, da civile, come un nevrotico incapace di vivere. Solo la visione dei corpi dei mutilati e degli invalidi che affollano gli ospedali – una terapia consigliata da uno psicologo militare – lo avvicina alla verità della guerra, che prescinde anche dalla validità o meno dei motivi e delle ragioni o dei torti. Perché in fondo, in questo film dove l’austerità e il puritanesimo delle immagini sono più scioccanti della strage finale di un celebre western pre tarantiniano, Il mucchio selvaggio, non è neanche l’ambientazione irachena – rifatta in Marocco – a turbarci o a riportaci alle giuste proteste del 2003 contro la cosiddetta e truffaldina “coalizione dei volenterosi”. Piuttosto è proprio l’idea che dopo la seconda guerra mondiale – considerata l’acme dell’orrore – i massacri bellici non sono affatto terminati e non solo nessuno è in grado di fermarli, ma fanno ormai parte dell’orizzonte futuro del pianeta come una nuova “mitridatizzazione” che travalica la spettacolarità delle immagini cinematografiche e televisive.

Eroico nel sacrificare la sua vita per porre fine alle violenze (Gran Torino), il personaggio Eastwood sembra qui concludere la sua magnifica carriera di regista classico post fordiano, filmando la fine della mitologia americana, l’ultima rimasta in piedi e ormai travolta dalla feroce globalità della violenza.

21 gennaio 2015

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