Stampa

Salinger. Il mistero del giovane Holden

Un documentario racconta la vita segreta del più riservato scrittore americano del Novecento. di Gianni Olla

Jerome David SalingerPassato velocemente, e con poca attenzione critica, nelle sale, quindi, qualche mese fa, su SkyArte, è oggi disponibile nelle librerie, il Dvd (con libro associato) del film-documentario di Shane Salerno, Salinger. Il mistero del giovane Holden.
Dovrebbe essere inutile ricordare che Holden sta per Holden Caufield, il protagonista assoluto dell’unico romanzo pubblicato - appunto Il giovane Holden - da Jerome David Salinger, scomparso nel 2010 all’età di 91 anni.

Verrebbe voglia di scrivere “scomparso definitivamente”, visto che la sua “scomparsa sociale” è durata più o meno sessant’anni. Dopotutto, è questo uno degli enigmi che il regista statunitense tenta di risolvere nelle due ore di interviste e di ricostruzioni dirette e soprattutto indirette della vita dello scrittore. Forse troppe e talvolta ripetitive – questo è un difetto tipico del documentarismo televisivo statunitense – ma era probabilmente difficile non lasciare la briglia sciolta a ospiti famosi come Philip Seymour Hoffman, Edward Norton, John Cusack, Martin Sheen, Tom Wolfe, in qualche modo attrazioni “vendibili” sia nei circuiti statunitensi che in quegli europei.
Egualmente squilibrato è l’intervento dei pochi testimoni diretti che, in larga misura, tentano di ritagliarsi il quarto d’ora di celebrità warholiana: editori, parenti, mogli e fidanzate, che non furono poche e talvolta famose come Oona O’Neil, figlia del drammaturgo Eugene, che, nel 1941, lo lasciò per sposare Charlie Chaplin. Quest’ultima è comunque raffigurata solo attraverso testimonianze fotografiche e filmiche d’epoca. Ma, al fondo, la bellezza, la ricchezza, l’importanza del filmato sta proprio in un’attendibile ricostruzione sia della vita di Salinger, sia della mitologia, americana e non solo, del personaggio che, ricordiamo, ebbe il suo acme negli anni Sessanta della “beat generation”.

L’estroversione e l’esposizione mediatica di quel movimento, decisivo per il suo successo, è appunto l’altra faccia delle mute ribellioni di Holden Caufield e degli altri personaggi di Salinger. E forse non è un caso che negli stessi giorni in cui veniva programmato il film di Shapiro, sempre su SkyArte appariva Jack Kerouac e la beat generation, un altro bel documentario (che speriamo di vedere pubblicato in DVD), firmato da Richard Lerner e Lewis McAdams, orchestrato attorno al quasi cinquantenne – al tempo in cui furono realizzate le preziose interviste, verso la fine degli anni Sessanta – precocemente invecchiato dall’alcol e dalle droghe, che divenne famoso per On the road. Accanto alla sua icona comunque incancellabile, sono comunque preziose anche le testimonianze dei suoi amici e sodali, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Neal Cassidy.

Jerome David SalingerPer tornare a Salinger, in attesa di vedere e leggere i suoi inediti che dovrebbero essere pubblicati nel 2015 – ma furono scritti a partire dal 1954 e rimasero segreti per quasi sessant’anni – il primo tassello biografico incrocia la sua adolescenza/giovinezza, già segnata dalla irrequietezza, la timidezza, l’incertezza esistenziale, ma soprattutto dalla passione letteraria. I suoi racconti, scritti a partire dall’età di sedici anni, furono rifiutati dal “New Yorker”, la prestigiosa rivista a cui “il giovane Salinger” li inviava, convinto che fosse l’unica in grado di valorizzarli. Fino al 1948, si dovette così accontentare di essere accolto nelle pagine di altre pubblicazione, meno prestigiose; appunto nella prima parte del filmato, sono di grande interesse le sequenze in studiosi e collezionisti mostrano copie di queste riviste e commentano favorevolmente i racconti pubblicati in quelle pagine che sembravano perdute.
Solo nel 1948, il suo smisurato orgoglio e l’altrettanta smisurata determinazione finirono per far accettare al “New Yorker” il bellissimo, tragico e stralunato È un bel giorno per i pesci banana, poi pubblicato, nel 1953, in una raccolta che aveva il semplice titolo di Nove racconti. Anche questa è dunque una parte quasi nascosta della sua biografia, o meglio “oscurata” dapprima dagli eventi bellici e poi dal successo di Il giovane Holden. D’altro canto, anche l’esplosione della “beat generation” alla fine degli anni Cinquanta – cioè direttamente innestata nella grande mutazione del decennio successivo – ha fatto dimenticare che i protagonisti di quel movimento (Kerouac, Corso, Ginsberg, Burroughs, Ferlinghetti, Cassidy) erano dei giovani poeti, letterati, editori, attivi fino dagli Quaranta nelle università californiane e newyorchesi, e che solo la guerra ritardò l’esplosione contestativa.

Jerome David SalingerSalinger, comunque, la guerra la voleva fare e nel 1942, dopo un primo rifiuto, fu accettato come volontario nell’esercito che stava già combattendo in Asia e si preparava a sbarcare in Africa e in Europa, per combattere i tedeschi. Era di famiglia ebraica – il nonno proveniva dalla Lituania – e aveva conosciuto in anticipo gli orrori nazisti, visto che, giovanissimo, dopo gli studi, fu inviato a Vienna come corrispondente della ditta di importazione, guidata dal padre. Lasciò l’Austria subito dopo l’Anschluss hitleriano, nel marzo del 1938, che fece da prologo alla seconda guerra mondiale.
Ebbe il suo battesimo di fuoco nel giugno ’44, a Utah beach, una delle celebri spiagge della Normandia in cui ebbe inizio la marcia degli alleati verso Berlino. Nei mesi successivi, considerato che parlava correntemente il tedesco e il francese – appresi appunto in Europa, prima della guerra – entro nei servizi di “intelligence”. Fu tra i primi a entrare nel campo di sterminio di Dachau e, al ritorno negli Usa, disse che mai si sarebbe dimenticato dell’odore di carne bruciata nelle baracche in cui i nazisti avevano cercato di cancellare le tracce dello sterminio, bruciando i corpi delle vittime. A guerra conclusa, fece parte delle commissioni per la denazificazione della Germania e qui, il documentario, dopo aver mostrato rarissime immagini fotografiche e filmiche del “giovane Salinger” al fronte, svela il primo enigma: la prima moglie, Sylvia, era tedesca, sposata appunto nel 1945 e portata negli Usa lo stesso anno, dopo aver eluso le rigide regole che impedivano ai militari di sposarsi con cittadine del paese occupato. La donna tornò nella sua patria appena otto mesi dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, e Salinger fece capire di aver sbagliato a battersi per la sua “denazificazione.”

Jerome David SalingerÈ certo che l’esperienza bellica non fece che accentuare le sue tendenze misantrope che, in ogni caso, non esplosero apertamente se non alla fine degli anni Cinquanta, quando lo scrittore si ritirò in una casa di campagna nel New Hampishire, avendo con le case editrici solo rapporti epistolari (e poi, dal 1963, neanche quelli) e ricevendo pochissimi ospiti, mantenendo però una fitta corrispondenza – e anche qualcosa di più – con numerose ragazze, suoi ammiratrici. Rare – e rubate – sono le immagini di quel periodo.
Interessante è anche il capitolo cinematografico. Poco nota è, ad esempio, è la storia di un suo racconto del 1948, Uncle Wiggily in Connecticut, inserito poi nella celebre raccolta del 1953, che fu portato sullo schermo, nel 1949, con il titolo Questo mio folle cuore. Prodotto dalla “Metro Goldwin-Mayer”, riscritto dagli sceneggiatori Julius e Philip Epstein (gli inventori di Casablanca), diretto da Mark Robson, e interpretato da Dana Andrews e Susan Hayward, è tuttora visibile in Dvd. Nonostante lo spunto drammatico – una ragazza fa credere al suo fidanzato di aspettare un figlio, il cui padre è invece un militare morto in Europa poche settimane prima – è una commedia classica, agrodolce, stemperata dalla personalità della Hayward, che incarna la resistenza femminile e l’arte di sopravvivere alle tragedie.

Salinger, che nel 1943 aveva già tentato di sfondare a Hollywood con i suoi primi racconti, fu talmente contrariato dai cambiamenti subiti dal racconto (e con ragione, aggiungiamo, visto la pletora di personaggi che appaiono nel film, e il sostanziale mutamento delle atmosfere di delirio alcolico del racconto, tristissimo e quasi beffardo, nonché ambientato quasi interamente in un salotto), che, dopo il successo de Il giovane Holden, non volle – letteralmente – avere più a che fare con il mondo del cinema. Inutilmente Billy Wilder, Elia Kazan, e persino Jerry Lewis, cercarono di trattare personalmente con lo scrittore per potere portare sullo schermo il romanzo. Salinger si rifiutò anche di riceverli. Così non ci resta che ipotizzare che tipo di Holden Caufield avrebbero “ricreato” i sopradetti autori. Lewis, interessato soprattutto ad interpretarlo, avrebbe “clownizzato” apertamente il disadattamento del giovane Holden (ed è superfluo immaginare le reazioni dello scrittore); Kazan avrebbe probabilmente compiuto un’impresa opposta: magari, con l’aiuto di Marlon Brado, l’avrebbe interiorizzato all’estremo, tagliando via ogni ironia.

Jerome David SalingerForse il regista adatto era proprio Wilder, l’unico che potesse rispettare quel mix difficilissimo di autoironia, surrealtà, e dramma che si respira nelle pagine del romanzo. Peccato che oggi non ci sia più un Wilder, visto che prima o poi gli eredi acconsentiranno ad una trasposizione.
Infine, fuori dalle immagini del documentario, o meglio dipendente da queste ma decisamente elaborata dallo scrivente, c’è un’ultima riflessione. Uno dei romanzi meno conosciuti e frequentati di Philip Roth, Lo scrittore fantasma, racconta del celebre “alter ego” Zuckerman, giovane aspirante scrittore che riesce a farsi ospitare per un week end nella casa, in mezzo a montagne innevate, in cui vive il celebre scrittore Lonoff.  Zuckerman dovrebbe intervistarlo e si sorprende per una delle frasi più celebri di Lonof che dovrebbero spiegare il proprio mestiere: “io giro le frasi; al mattino giro le frasi, poi le giro di nuovo, e ancora di nuovo. Questo è ciò che faccio.”  Questo misterioso Lononf è stato sempre individuato – dalla critica e dalla filologia – nelle figure di Bernard Malamud o anche di Saul Bellow, amato da Roth e primo scrittore ebreo americano a vincere il Nobel per la letteratura. E se invece, quel signore, ormai anziano (il romanzo è del 1979), il cui nome (on rivela, off nasconde o spegne), fosse davvero il “fantasma Salinger”, chiuso nella sua dimora tra i boschi, intento per tutta la vita a “girare le frasi” accanto ad una moglie paziente ed una ragazza, una misteriosa ebrea europea, che appunto potrebbe far parte delle numerose ammiratrici/amanti che si attribuiscono all’autore de Il giovane Holden?

Dopotutto, la bibliografia di Philip Roth, che appartiene interamente agli ultimi trent’anni del Novecento, non fa che “estrovertere”, quasi in tono di sfida, talvolta gioioso, altre volte tragico, il disagio di una generazione di americani di discendenza e cultura ebraica, ormai affermati, cittadini come gli altri, ma, come si racconta in La macchia umana, capaci sempre di nascondersi. Proprio come Salinger.

4 febbraio 2015