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Letters to Tacloban, cosa rimane dopo la tempesta? - Guarda il DOC

La storia di un viaggio trasformato in una consegna delle lettere è un documentario di Claudio Accheri, girato nelle Filippine devastate dal tifone Yolanda. VEDI IL VIDEO. di Valentina Bifulco

Foto di Claudio AccheriIl video dopo l'articolo. A tre mesi dal disastro ambientale Claudio decide di partire dall’Australia e andare a vedere come è la situazione, incuriosito soprattutto dall’aspetto dell’utilizzo dei fondi per la ricostruzione. All’inizio del viaggio non c’è un progetto definito che guida la telecamera di Claudio Accheri*, fino al giorno in cui arriva in un convento a Calabanga e conosce un gruppo di bambini provenienti da Tacloban (uno dei paesi più devastati dal tifone), che non vedono i genitori dai giorni dopo Yolanda.

Claudio decide di raccogliere le loro lettere e di scattare delle fotografie da portare alle loro famiglie rimaste a ricostruire il paese. Nasce così un documentario che racconta una storia fatta di paura, morte ma anche sorrisi, emozioni e voglia di ricominciare. Un progetto difficile da realizzare, anche perché tutto il lavoro, sia di produzione che di post-produzione, è stato fatto da una sola persona.

Quando è partito per le Filippine aveva già in mente di fare un documentario?
In realtà no. L’idea di realizzare un documentario da 40’’ non mi sfiorava minimamente, soprattutto per la mole di lavoro che un progetto del genere richiede in fase di post-produzione. Il mio progetto iniziale ruotava intorno ad una serie di interviste e alcune idee, location e tematiche che volevo sviluppare. L’idea era di realizzare una serie di ‘pillole’, clip da 5 minuti che si sarebbero concentrate su una singola tematica. Poi, per fortuna, le cose sono andate diversamente e quei video che percepivo così lontani l’uno dall’altro hanno iniziato ad integrarsi per contenuti, arrivando a permettermi di costruire un progetto più articolato.

Foto di Claudio AccheriCome si inizia a lavorare su un progetto come il suo?
Se dovessi indicare un punto di partenza dovrei partire dall’ 8 Novembre 2013. Nei giorni seguenti al disastro i media internazionali stavano seguendo le Filippine con estrema attenzione. Ovviamente in questo contesto il racconto dell’attimo prevale sulle tematiche di lungo respiro e dopo due-tre settimane l’attenzione si era già rivolta verso altri temi, lasciando un grosso punto interrogativo sulla ricostruzione. È da lì che son partito, con molte domande e poche certezze. Ho iniziato a cercare risposte nei documenti ufficiali del governo filippino sui piani di ricostruzione e nei trattati scientifici sulla risposta ai disastri naturali. Il tutto passando per libri sull’argomento, documentari blog locali e tante, tante news. Tutto ciò che avrebbe potuto darmi una risposta o uno spunto. Nel frattempo avevo iniziato ad inondare di email gli accademici che operano nel campo, gli amici che lavorano nella cooperazione internazionale o in associazioni umanitarie. L’importante è cercare di coprire tutte le opzioni, perché il più delle volte i contatti migliori arrivano da dove meno te lo aspetti.

Foto di Claudio AccheriOltre alla fase di riprese, nella produzione di un documentario ci sono tantissimi aspetti che vanno curati, lei era solo, come ha organizzato il lavoro?
So che sembrerà una risposta stupida e scontata, ma purtroppo è proprio così: con molta, molta, molta pazienza e pre-programmazione. Io personalmente lavoro schematicamente, seguendo differenti serie di steps per ogni singolo aspetto del lavoro. Per quanto riguarda la post produzione, per esempio, di solito comincio dalla catalogazione dei materiali, dalla loro organizzazione per contenuti alla loro tipologia per tipo di inquadratura e utilizzo. Questo semplice passaggio può richiedere anche settimane a seconda del quantitativo di materiali e il tempo che si ha a disposizione. Una volta organizzati i contenuti si può iniziare a costruire uno storyboard completo del progetto, di modo che sia possibile svilupparlo pezzo per pezzo in compartimenti stagni. Quando la prima bozza è pronta ci si concentra su diversi aspetti dell’editing, che vanno a sovrapporsi l’uno sull’altro. Montaggio, bilanciamenti, color grading, audio e via dicendo, fino ad ottenere quello che si voleva ottenere dal principio.

Foto di Claudio AccheriQuali sono state le difficoltà maggiori sia nella fase di produzione che di post produzione?
In entrambe le fasi si soffre il fatto che si lavori da soli e quindi la mole di lavoro sia enorme per un singolo. Ma mentre nella fase di post-produzione ci si può lasciar andare a tempistiche protratte nel tempo, nella fase di produzione non c’è mai un minuto da perdere. Potrei passare la giornata a raccontare momenti sfuggiti all’obiettivo per un istante. Piccoli spaccati di vita quotidiana che apparivano e scomparivano nell’arco di pochi secondi. E per quanto si possa avere una telecamera costantemente a portata di mano, delle volte non c’è niente da fare. Bisogna quindi accettare il fatto che ci siano dei limiti. L’uso di più telecamere può aiutare, ma allo stesso tempo è difficile articolarne l’utilizzo se si è in viaggio. Ovviamente l’esperienza fa la differenza, oltre alla conoscenza delle location e un po’ di fortuna, ma quando si lavora da soli le regole sono poche: non esistono pause e non ci si può mai distrarre.

Foto di Claudio AccheriIl suo viaggio è una di quelle esperienze che lasciano il segno, non solo a livello professionale ma, immagino, anche personale.
Dal punto di vista professionale ogni progetto, come ogni esperienza umana, ci insegna sempre qualcosa. Ora, per esempio, non ripeterei molti errori commessi in fase di organizzazione, produzione e post-produzione. Saprei come comportarmi e come gestire alcune situazioni che mi hanno regalato non pochi grattacapi. Anche la semplice organizzazione del lavoro è estremamente importante per progredire con una certa regolarità senza sentirsi intrappolati in un progetto senza fine. Dal punto di vista personale è stata una delle esperienze più intense della mia vita. Attraversare un paese come le Filippine con uno zaino in spalla, una telecamera e un pugno di contatti era di per sé una esperienza di vita nel vero senso della parola. Essere riuscito a fare ciò che mi appassiona, sviluppando un progetto che riuscisse a raccontare una piccola parte di quella esperienza ha un valore che trascende lo stesso prodotto finale.

Foto di Claudio AccheriHa in cantiere qualche nuovo lavoro?
In questo periodo sto iniziando la fase di ricerca per un nuovo progetto, qualcosa che avrà a che vedere con il valore dell’informazione personale nella nostra società. Qualcosa di più maturo, più articolato, sia in termini di contenuti sia per la tipologia di interlocutori.

*Claudio Accheri è cresciuto a Quartu Sant’Elena, laureato alla Sapienza in Editoria Multimediale e nuove professioni dell’informazione. Inizia la sua attività giornalistica collaborando con l’Osservatorio Iraq coprendo il settore politica mediorientale, muovendo I primi passi nel video editing e nella produzione di contenuti multimediali. E’ durante questo periodo che ha le sue prime esperienze internazionali, come corrispondente dal Libano. Nel 2014 completa un master in Media Practice all’Università di Sydney portando avanti il progetto “Letters to Tacloban”. E’ membro del team di giornalisti della kallanish commodities di Londra e si occupa del settore minerario del sud Europa.


4 marzo 2015

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