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Memorie d’oltrecinema. ‘’Falstaff’’’ e ‘’Storia immortale’’ di Orson Welles

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire grandi film che riemergono dal passato

Orson WellesPer ricordare il centenario della nascita di Orson Welles (6 maggio 1915) e anticipare la commemorazione della morte (10 ottobre 1985), si può scegliere, a ragion veduta, di abbandonare la lunghissima bibliografia dedicata ai film maggiori (giusto per esemplificare, è stato pubblicato, proprio in queste settimane, l’ennesimo volume dedicato a Quarto Potere, curato da Nuccio Lodato e Francesca Brignoli per Lindau) per concentrarsi sulle opere meno viste.

Due di queste si trovano nella coda della sua filmografia, che, come regista, terminò nel 1975 con F for Fake: un altro titolo minore sul concetto di falso nell’arte (fake, appunto), che, attraverso la biografia di diversi personaggi – a cui fa da controcanto la cattedrale di Chartres, capolavoro anonimo e collettivo, come spiega lo stesso Welles – accomunati dall’abilità di falsificare il reale. E appunto, Welles, si mette tra loro fin dai tempi in cui produsse e interpretò, per le trasmissioni radiofoniche della CBS, La guerra dei mondi del suo quasi omonimo H.G. Wells.

''Don Chisciotte''Solo che la sua drammatizzazione si basava su una finta cronaca dello sbarco dei marziani che gli ascoltatori interpretarono come una “diretta”. Prevedibilmente, negli Stati Uniti, e soprattutto a New York, si diffuse il panico. Welles commenta che, dopo quell’impresa, aveva solo due possibilità: finire in prigione o a Hollywood. La seconda opzione fu certo migliore, ma non completamente risolutiva per le sue ambiziosissime prospettive: già da allora pensava di essere il genio assoluto del mondo dello spettacolo. Considerando soprattutto le ultime opere incompiute o anche “finite”, magari abbandonate perché non c’erano più soldi o anche per stanchezza creativa (The other side of th moon, The Deep, ma soprattutto il fortunatamente visibile Don Chisciotte), si potrebbe affermare che la conclusione della sua straordinaria carriera è segnata da un’indiretta autobiografia. Anche i titoli che precedono F for Fake sono appunto legati a questa straordinaria fase crepuscolare: Falstaff (1965) e Storia immortale (1968). 

''Falstaff''Falstaff (1965), prodotto dall’inglese Harry Saltzman (l’inventore del 007 cinematografico) e girato in Spagna, con le bellissime mura di Avila che campeggiano nelle prime sequenze, è ispirato a ben cinque opere di William Shakespeare: Riccardo II, le due parti di Enrico IV, Enrico V e Le allegre comari di Windsor. Il primo e l’ultimo testo sono altresì solamente citati come antefatto storico (Riccardo Il) e come ambientazione popolare e femminile delle imprese del senescente eroe picaresco.
Tralasciando di addentrarci nell’esegesi dei lavori teatrali e filmici wellesiani di derivazione shakespiriana, che occuperebbero, con la sola bibliografia, l’intero scritto, il personaggio di Falstaff, “barile di lardo” (letteralmente: Welles, che in L’infernale Quinlan, nel 1958, recitò affetto da un ipotiroidismo che lo gonfiava, qui ricorre al trucco per apparire grasso e sformato), era già apparso nel 1939 in Five Kings, opera teatrale in cui venivano messi in scena, principalmente, i protagonisti delle cinque opere citate. A quell’epoca il regista – per citarlo indirettamente – era tra coloro che possono interpretare solo i re, qualunque fosse il loro destino. E dunque a Falstaff fu riservato un buon trattamento drammaturgico, ma non il ruolo principale, regale.

''Five Kings''Re, cioè sovrani che vogliono comandare in maniera assoluta, sono invece, senza alcun dubbio, sia Charles Foster Kane che Macbeth, sia Otello che Mr Arkadin, senza contare, ovviamente, Quinlan che, inopinatamente e ambiguamente Italo Calvino paragonò a Stalin: colui che pur essendo, senza alcun dubbio, un farabutto, è altresì un buon ispettore che risolve, con il solo intuito (sic!), i casi delittuosi difficili. Forse Calvino si ispirò, per questo suo terribile confronto, alla fotografia in cui il regista e attore è al tavolo di una trattoria romana, con a fianco Palmiro Togliatti, “il piccolo padre” del comunismo italiano, segretario del Pci.
Falstaff, comunque, già ai tempi di Five Kings, era un personaggio molto amato da Welles, vuoi per la sua millanteria che per la sua spontaneità fanciullesca o la sua sicurezza di sbruffone e, soprattutto, per l’assoluta mancanza di senso e di gusto del potere. In poche parole, rappresentava il “non dover essere” contrapposto alle figure reali che lo sovrastavano in nome del dovere e del potere: un doppio, nascosto, delle prepotenti figure di re, poco amati se non odiosi, che il regista interpretava con gusto quasi masochistico, come fossero allegorie dell’effimero dominio sul mondo.

Five Kings fu un mezzo fallimento che contribuì ad allontanare Welles dalle scene teatrali. Trent’anni dopo, nel 1960, Welles riprese e modificò il progetto originale per uno spettacolo che fu messo in scena a Dublino, seconda patria di Welles che vi aveva recitato poco più che adolescente.
Lo spettacolo aveva come titolo Chimes at Midnight (campane a mezzanotte), e Welles scelse appunto di interpretare Falstaff, “il più bel personaggio di Shakespeare”, secondo quanto aveva sempre sostenuto. Citando di nuovo le parole del regista nel celebre libro intervista di Peter Bogdanovich, per lui “stava iniziando l’inverno della vita”. Forse era un esagerazione, ma certo, considerando i tanti disastri produttivi e gli insuccessi commerciali, Welles non si sentiva da tempo un attore che interpreta i re e un regista che li mette in scena, ma quasi un fallito costretto ad accettare ruoli insulsi in film che non avrebbe neanche mai visto.

''Falstaff''Cinque anni dopo, Chimes at Midnight, divenne un film che fu ribattezzato, in Italia e negli Usa, Falstaff. Il racconto si apre appunto con la rievocazione, prima dei titoli di testa, della “bella giovinezza” di Falstaff tra bagordi, donne, scherzi, e appunto “campane a mezzanotte”. Successivamente, i titoli di testa accompagnano delle sequenze che demistificano questi ricordi: c’è la guerra, con morti, feriti, impiccagioni. È una guerra civile che contrappone il vecchio Enrico IV Bolingbroke ai ribelli, guidati dall’erede al trono di Riccardo II, deposto e ucciso dall’attuale monarca. Dopo questo secondo prologo, ritmato dalla musica epica, di vaga ascendenza rinascimentale, di Angelo Lavagnino, si torna ancora indietro: la guerra non è ancora stata dichiarata e il figlio del re, Hal, il futuro Enrico V, passa il suo tempo ad ordire trame scherzose ma anche delittuose con (e contro) Sir John Falstaff, un nobile cortigiano squattrinato, le cui avventure (e quelle della sua banda) sono montate, in maniera classica, attraverso un’alternanza scenica e geografica con la ritualità di corte. Welles, che aveva sempre circondato la regalità con le pieghe avvolgenti e ambigue (Deleuze) di un linguaggio cinematografico barocco, in questo film non ha bisogno di movimenti di macchina eccessivamente “marcati”.

I monarchi, l’Enrico IV del grande John Gielgud (disponibile per poche pose, poi sostituito da controfigure riprese di scorso, in controluce o di schiena), e, successivamente, l’Enrico V di Keith Baxter, hanno la rigidità delle rappresentazioni ufficiali, rafforzata dalla scenografia: l’interno di una vecchia chiesa gotica inglese, ripresa con inquadrature che percorrono lo spazio prevalentemente in verticale. Una linea orizzontale, forse di derivazione fordiana più che eisensteniana, come scrissero molti critici, domina invece le scene di battaglia. Infine, alle vere e proprie figure della regalità e della vera aristocrazia delle due parti in conflitto, è riservato un piano di ripresa con un’angolazione leggermente aperta che mette evidenza, attraverso una prospettiva teatrale, la loro diversità di potenti.

''Falstaff''C’è però una curiosa eccezione a questi modelli scenici: in due lunghe sequenze, Falstaff si trova al centro di una locanda, sovrastata da un ballatoio, al piano superiore, che ne circonda interamente il perimetro. Il ballatoio conduce alle stanze, occupate, secondo Quikly, la proprietaria del locale (e usuraia che permette a Falstaff di fare la bella vita), da ricamatrici, in realtà prostitute. Falstaff è al centro dell’ampia sala, osservato dalle chiassose e allegre comari di Windsor. L’ambientazione e i piani di ripresa grandangolari alludono apertamente alla plurima spazialità scenica del teatro elisabettiano, e la composizione – questa volta barocca – serve non ad avvolgere ma a schiacciare il protagonista, che ha imboccato da tempo, il sentiero che porta alla decadenza senile e alla morte. Ma, a suo modo, Falstaff, in quelle poche scene, è pur sempre un re, magari dei mascalzoni e dei perdigiorno e dunque non invidia in alcun modo i monarchi e i principi. La rappresentazione picaresca – che in Shakespeare è sempre un controcanto della regalità, anche quando, come in Re Lear, questa è stata distrutta – si ammanta di una falsa magnificenza che confina con il barocco, cioè con l’illusione.

''Falstaff''Il montaggio alternato si unifica altresì in una lunga sequenza che fa seguito alle belle e originalissime scene di guerra che, per l’epoca, furono considerate cruente e impietose, ma di nuovo picaresche, come nella scena in cui Sir John Falstaff si appropria del corpo del ribelle Mortimer Hotspur, ucciso in realtà proprio dall’amico Hal, l’erede al trono. Dunque, nel prefinale, Falstaff viene ripudiato dall’amico: un re vero non può più permettersi, dopo la sua ascesa al trono, di stare alla taverna o di compiere imprese dissennate, se non per mantenere il proprio potere. Falstaff, che pure è stato capace di giustificare l’amico che lo ha abbandonato e di ricordare, con nostalgia, le campagne di mezzanotte, muore in solitudine, secondo le parole di Quikly.
Il film, che vinse un premio speciale al Festival di Cannes, uscì nelle sale italiane nel 1968, e alcuni critici – considerato l’anno fatale – vi lessero una sorta di lotta tra i padri veri, ma felloni e usurpatori, come appunto Enrico IV, e quelli “affettivi”, gaglioffi e picari ma capaci di provare un vero affetto paterno. In realtà, tutto il film è impregnato da una sdegnosa anche se dolorosa rinuncia alla regalità indiretta: Falstaff, dapprima, si illude di poter “regnare” nei bassifondi, protetto dal re, quindi sogna inutilmente di essere al fianco di Enrico V per proteggerlo e consigliarlo.

''Storia immortale''In quello stesso anno, questa sua inedita vocazione al “cupio dissolvi” – che non aveva mai trovato posto nei suoi precedenti film – ricompare in un’opera ancora più pessimistica e dolorosa, Storia immortale, tratto da un racconto di Karen Blixen. Fu il primo film a colori di Welles (il secondo e ultimo è appunto F for Fake), che non avrebbe mai rinunciato al bianco e nero perché – ancora parole sue – esaltava la recitazione degli attori, spogliati da un eccesso di verosimiglianza teatrale. Il progetto prevedeva di portare sullo schermo anche altri due racconti della scrittrice danese – per inciso molto amata dal regista che fece un inutile viaggio in Danimarca allo scopo di conoscerla personalmente – ma i soldi finirono e il film restò appeso ai 58 minuti di Storia immortale, difficile da proporre nelle sale cinematografiche. E difatti, dopo essere stato presentato al Festival di Berlino, fu poi programmato in televisione, in Francia (1968) e in Italia (1970), per poi sparire e ricomparire in un Dvd della Ripley Home.

''Storia immortale''Anche qui il protagonista è Welles, che giganteggia nei panni di Mr. Clay, un vecchio e ricchissimo mercante di Macao, attaccato ai suoi ingenti beni, ma la cui vita è sicuramente vuota, senza alcuno scopo che non il ripasso dei libri contabili che il suo segretario, Elishama Levinsky, gli legge ogni sera, prima di “non dormire”, visto che Clay è anche ammalato di gotta. Siamo ai primi del Novecento e Welles è qui di nuovo un re, teatralmente truccato con un naso finto che ricorda quello, esagerato, di Quinlan, e dei baffoni, anch’essi esageratamente posticci. Se il “barile di lardo” Falstaff lasciava intravedere il Welles di sempre, Mr. Clay lo nasconde, ed anche questo “camuffamento” è assolutamente significativo, trattandosi, alla fine, di un vero film testamentario che potrebbe ricalcare l’intera carriera del regista.

Uomo gretto e cattivo, che ha rovinato un suo socio in affari, Clay crede solamente nella concretezza materiale. Invano, il suo servizievole “badante”, gli legge un brano della Bibbia che conserva come una reliquia della sua fuga dai “pogrom” polacchi: per lui sono assolutamente irreali, o meglio non verificabili e dunque non accaduti. Eppure, anche Clay conosce un racconto a cui non ha dato molto peso, proprio perché inverosimile: un uomo anziano e ricchissimo che, per poter avere un figlio, concede la giovane moglie ad un marinaio. Elishama gli spiega che tutti conoscono quella leggenda, continuamente raccontata dai marinai delle navi che solcano gli oceani. Così, Mr. Clay, fedele al suo credo materiale, decide di renderla reale, ordinando al suo segretario di trovare una giovane donna e un marinaio disposti, per denaro, a passare la notte assieme e, impersonando lui stesso il vecchio e ricco mercante che cerca di fuggire alla sua solitudine.

''Storia immortale''Il film è dunque uno straordinario e amaro apologo sulla scrittura, letteraria o filmica, derivanti da storie e leggende che viaggiano assieme agli uomini: senza questa circolazione para letteraria non ci sarebbe alcun immaginario collettivo, nessun mito, nessun epos letterario o teatrale, e ovviamente cinematografico. E, visto che il regista ha inseguito storie da filmare per tutta la sua carriera, riuscendo a portare a termine non più di un terzo dei progetti che aveva ideato o già scritto, e talvolta persino filmato, non ci può essere alcun dubbio sul legame indirettamente autobiografico che lega il regista e attore al suo personaggio. Per essere più chiari, se Clay cerca inutilmente di eternarsi come individuo di cui parleranno i marinai, Welles vuole risaltare come un artista “scolpito” nella materialità dei libri e dei film, perpetuandosi, appunto, nelle biblioteche o nelle cineteche. Nella sua semplicità narrativa e drammaturgica, anche Storia immortale è un film anti barocco e non potrebbe non esserlo: il re, questa volta, è già stato deposto e non ha neanche la memoria della propria gloria. Cerca di costruirsela, o di farla costruire dal suo segretario “fac-totum”, attraverso una finta esperienza, una leggenda che vorrebbe poter materializzare.

''I magnifici Ambersons''Questa materializzazione è il cinema, paradossalmente la fabbrica dei sogni hollywoodiana che Welles ha sempre disprezzato fino al punto di considerarla un universo finzionale totalmente estraneo al suo concetto di cinema. A questa macchina del consenso si è concesso solo materialmente – “concretamente” direbbe Clay – per poter vivere del proprio lavoro. Il resto della propria creatività sta appunto nelle incertezze dei testi filmici, nei fallimenti, nelle rinunce, nei progetti andati a fondo, che hanno trovato spazio nelle bibliografie e nelle filmografie postume.
Si può chiudere con una riflessione sull’intera carriera di Welles, ovvero sulla sua talvolta opaca, altre volte trasparente autobiografia. All’indomani del suo secondo film, L’orgoglio degli Amberson (1944), tratto da un romanzo del 1918 (The magnificent Amberson) che raccontava di un suo zio, fratello del padre, un critico francese scrisse che il regista del film aveva voluto impartire una lezione di modestia al suo doppio, il Welles di Quarto Potere (1941), immerso in un barocchismo travolgente e virtuosistico.

La stessa osservazione si potrebbe fare per questi due film testamentari, così diversi tra loro, ma ancora più diversi, entrambi, dalla maggior parte delle opere virtuosistiche del passato. Ma il problema non riguarda affatto la modestia, ma appunto l’autobiografia, a cui si addicono, in larga misura, forme e tonalità che non soffochino i protagonisti.

29 aprile 2015