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Memorie d'oltrecinema: "Il compromesso" di Elia Kazan

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire un grande film che riemerge dal passato

''Il compromesso'' di KazanUno spettatore dotato di buona memoria e persino un critico allenato avrebbero molte difficoltà a ricomporre il puzzle entro cui si dipana un film come Il compromesso di Elia Kazan, ma entrambi difficilmente dimenticheranno la lunga sequenza dell’incidente che precede il vero e proprio inizio della narrazione. Questa sequenza è collocata, a sua volta, dopo un prologo, apparentemente pacificante, ma carico già di percepibili ambiguità.

La scena si apre con una panoramica di un quartiere per ricchi di Los Angeles, in cui sono in bell’evidenza il blu delle piscine e i giardini delle ville. Trattandosi di un’opera di Kazan, si può pensare – all’estremo e correndo il rischio di sovra interpretare il film – ad una feroce auto ironia. Difatti il regista, attivista comunista negli anni Trenta, poi rooseveltiano, animatore del Group Theatre –  una compagnia pubblica che metteva in scena anche testi sperimentali e  sociali – e quindi autore di film politicamente impegnati e apertamente antirazzisti (Un’albero cresce a Brooklyn, Bandiera gialla, Barriera invisibile, Viva Zapata), nel 1952, si presentò spontaneamente al Comitato per le attività anti americane, presieduto dal famigerato senatore McCarthy, dichiarando di essere stato comunista e fornendo poi, su richiesta degli inquirenti, i nomi di una decina di colleghi noti e meno noti, anch’essi iscritti al Partito Comunista. Kazan non si pentì mai pubblicamente di quel gesto, che non ebbe grandi ripercussioni nel mondo del cinema e del teatro, visto che le grandi epurazioni dei simpatizzanti di sinistra, in prevalenza drammaturghi e sceneggiatori, erano già avvenute negli anni 1947/1950.

''Il compromesso'' di KazanMa nondimeno, e quasi automaticamente, il regista, data la sua fama, divenne il simbolo del tradimento di una intera generazione di intellettuali e artisti politicamente impegnati a sinistra. Orson Welles, anche lui sospettato di simpatie comuniste, tanto da lasciare gli Stati Uniti nel 1948, assieme a Charlie Chaplin e Joseph Losey, coniò la famosa frase, rivolta appunto ai cosiddetti delatori, e probabilmente allo stesso Kazan, pochissimo amato anche sul piano filmico: “Hanno venduto i loro amici per conservare le piscine”.
Dunque, Eddie Anderson, il protagonista, interpretato da Kirk Douglas,  possiede una bellissima villa e una grande piscina. Lo vediamo, al mattino, in una stanza smisurata occupata da due altrettanto smisurati letti: marito e moglie si svegliano assieme, compiono gli stessi gesti, entrano nello stesso momento in due box doccia sempre fuori misura, e infine fanno colazione in giardino assistiti da una governante di colore. La sequenza ha un sottofondo ironico ma anche simbolico, non solo per quell’ostentazione di grandezza e di benessere, ma soprattutto per la “separazione” dei coniugi.

Come si sa, la presenza di un maschio e una femmina, anche legati da un vincolo matrimoniale, in una stanza con i letti separati è stata una scenografia obbligatoria che, a partire dagli anni Trenta, istituiva un sorta di codice (ed era un vero codice, inventato dall’avvocato Hays, pagato dalle majors che intendevano evitare interventi censori da parte del governo federale, della magistratura o dei singoli stati), incentrato sulla sessuofobia, oltre che su altre proibizioni visive: la violenza esplicita, la presenza del sangue nelle scene cruente, i nudi, l’omosessualità. Ma nel 1969, questa ridicola proibizione – che molti spettatori hanno interpretato per decenni come una specifica tradizione americana, giustificata magari dall’igiene o dalla “privacy”, manie della classe benestante – era da tempo un ricordo. Kazan, riproponendola, non solo irride ad un “topos” a cui lui stesso aveva dovuto sottostare, ma certifica soprattutto la separazione reale tra i coniugi. In senso fisico, come si capirà nelle scene successive, i due non sono più da tempo marito e moglie.

''Il compromesso'' di KazanLa seconda sequenza, quella appunto indimenticabile, ha inizio con il protagonista che si reca al lavoro. A bordo di un’Alfa Romeo Duetto, auto resa celebre, l’anno prima, da Il laureato, percorre le autostrade urbane della metropoli: i totali del traffico si alternano ai primi e primissimi piani del volto sorridente di Eddie, finendo per stargli addosso in una lunga scena in cui l’auto affianca, dentro una galleria, un grosso TIR. Eddie continua a sorridere mentre osserva l’autista del mezzo. Costui si allarma per l’eccessivo accostamento dell’auto, suona il clacson, gesticola. Improvvisamente il nostro eroe sterza velocemente in direzione del TIR e s’infila sotto. Fine della sequenza. Ritroviamo il protagonista prima in ospedale, fasciato e immobilizzato, poi nello stesso giardino della villa, su una poltrona, assistito amorevolmente dalla moglie Florence, interpretata da Deborah Kerr. Non è chiaro se ci sia stato un premeditato tentativo di suicidio, o una distrazione, o un inconscio desiderio di morte che ha preso la mano a Anderson.

Nel romanzo autobiografico dallo stesso titolo dal quale Kazan ha ricavato la pellicola, il protagonista ci riflette sopra, e conclude che neanche lui è in grado di stabilire la verità. Nel film, la visività della dinamica dell’incidente nonché la frase del medico, in ospedale (“deve aver abbassato la testa, mentre l’auto s’infilava sotto il TIR”), dovrebbe portarci a concludere che, qualunque fosse l’intenzione di Anderson,  un impulso vitale  ha evitato la sua morte.
Ma tutto questo non è importante: ciò che Kazan ci comunicherà progressivamente è che l’incidente è stato il punto di rottura di un continuo “compromesso” tra i sommersi impulsi della libido (nel senso freudiano del termine)  e la serenità di una vita familiare e lavorativa che potrebbe essere inquadrata nel sogno americano.

''Il compromesso'' di KazanIn un’analisi narratologica, queste prime sequenze andrebbero collocate, più o meno, a metà del racconto. Sicché, ciò che ci viene mostrato in quella che, arbitrariamente, si può definire una seconda parte, è un lungo flash-back in cui non solo viene presentata la carriera di Anderson, pubblicitario di successo, ma anche e soprattutto il suo innamoramento per una collega, Gwen. Interpretata da Faye Dunaway, l’amante del protagonista è bella, disinvolta e senza pregiudizi. Insomma una ragazza degli anni Sessanta, la cui esplicita simbologia sta nel poster di Bob Dylan presente nella propria abitazione e nel successivo proto femminismo che rivendica una maternità che può fare a meno di padri ingombranti e possessivi.
Il primo “incidente” esistenziale nella vita di Anderson è altresì raccontato attraverso una continua frammentazione scenica che, evidentemente, è una proiezione memoriale del personaggio, quasi immobile nella sua poltrona, in giardino, e poco disposto a parlare se non attraverso monosillabi e frasi quasi offensive rivolte ai propri datori di lavoro.

Insomma, una soggettiva indiretta che traduce virtualmente l’io narrante soggettivo del romanzo. Il protagonista del film è, dunque, un “Io vedente e immaginante”, al punto che certe apparizioni “fantasmatiche” ma visualizzate realisticamente, sono già in sintonia con le opere  di un regista totalmente differente: Ingmar Bergman. Come sottolinea Martin Scorsese in un bel documentario (A letter to Elia) da lui dedicato al regista,  Il compromesso  – nonostante i 60 anni di Kazan –  finisce per intersecarsi non solo con le tematiche “libertarie” ma anche con i nuovi linguaggi delle “vagues” americane e europee.

''Il compromesso'' di KazanQuesto sconvolgimento della classicità hollywoodiana, che Kazan aveva tutto sommato rispettato nel decennio precedente, non portò comunque fortuna al film: il pubblico e la critica tradizionalista non capirono la ribellione da parte di un uomo “in carriera”, e d’altro canto le giovani generazioni consideravano Kazan un “cineasta del passato”.
Nella terza parte, la più lunga, si torna al presente: il risveglio “memoriale” di Anderson lo spinge, da un lato, a cercare nuovamente Gwen, dall’altro a confrontarsi, drammaticamente, con il padre, mai evocato fino a quel momento, e poi talmente incombente da poter definire questo incontro/scontro una ennesima uccisione, e non solo simbolica, del genitore.

A questo punto, visto che, sulla scia delle dichiarazioni del regista, ho definito il film  indirettamente autobiografico, si può precisare questa affermazione. Il vero nome di Kazan era Elias Kazanjoglou, nato a Istanbul, nel 1909, da una famiglia greca coinvolta nelle repressioni turche, sebbene senza la ferocia che questi dimostrarono verso un’altra minoranza, gli armeni. Quando non aveva ancora un anno, la famiglia emigrò in America e il padre fece fortuna con il commercio dei tappeti. Questa vicenda è raccontata, per interposta persona (il cugino), nel suo film precedente, datato 1963: Il ribelle dell’Anatolia (o America, America), appunto la prima parte di un dittico autobiografico. Anche Il ribelle dell’Anatolia è tratto da un suo romanzo (si può altresì segnalare che i due libri sono stati ristampati qualche anno fa e dunque sono ancora leggibili), e sempre, per ammissione del regista, le due opere letterarie furono una sorta di risarcimento per le frustrazioni patite a Hollywood dopo la “delazione” del 1952 che pure, sempre utilizzando le sue dichiarazioni, lo portarono a girare, in maniera totalmente libera, le sue opere più mature e più personali.

KazanPerò, nonostante questa libertà creativa, la carriera finale di Kazan è  segnata da un numero abbastanza scarso di film: a partire da Splendore nell’erba (1961), ultimo film di successo, premiato anche con l’oscar per la sceneggiatura di William Inge, ci sono solo altri quattro titoli: Il ribelle dell’Anatolia, Il compromesso, I visitatori – altro titolo “sommerso” di cui si dovrà riparlare – ed infine Gli ultimi fuochi, tratto dal romanzo incompiuto di Francis Scott Fitzgerald, scritto da Harold Pinter, e interpretato da Robert De Niro. Quest’ultima pellicola fu girata nel 1976. Kazan morì nel 2003. Nella New Hollywood degli anni Settanta, e meno che mai nei decenni successivi, non c’era spazio per lui e per molti altri maestri  che pure avevano rinnovato il cinema post bellico.
Tornando al rapporto con la propria famiglia – quella paterna e quella propria – il film ha il suo momento più intenso e tragicamente cupo quando Anderson, costretto ad occuparsi del padre (Richard Boone, grandissimo caratterista), malato di cuore e ormai tendente alla follia e alla persecuzione nei confronti della madre, viene quasi costretto dal genitore ad occuparsi del commercio dei tappeti.

Le scene di questa lunga sequenza sono segnate dall’urlo ripetuto: Evanghelos!!! Quel nome “riportato alla luce” è il primo segno della sua identità: così fu battezzato in Grecia, e il cognome era Topouzoglou. Negli Stati Uniti fu cancellato dallo stesso genitore, che ne adottò uno ebraico, Arness. Aaron Arness, il primo nome americano di Eddie, simbolizza forse una sorta di comunanza con altre minoranze oppresse o semplicemente discriminate che il regista aveva messo in scena nel film Barriera invisibile. Eddie Anderson, infine, rappresenta la sua definitiva americanizzazione.
Il confronto/scontro con il padre, dunque, fa scattare una reazione di disconoscimento totale nei confronti della propria vita. Così, quando questi verrà coattamente ricoverato in un ospizio, Eddie darà fuoco alla casa paterna, bruciando anche il magazzino in cui sono conservate le memorie e i documenti dei suoi commerci: “tutta la sua vita”, esclama il nostro antieroe di fronte al giudice, sottolineando la volontà di ucciderlo, almeno sul piano simbolico.   

''Il compromesso'' di KazanQuesta terza parte è dunque densissima di avvenimenti, di nuovo raccontati o per rapidi flash visivi – il compagno di Gwen che, trovando Eddie in compagnia della donna, lo ferisce con un colpo di pistola – o per sequenze più estese, apparentemente pacificanti. Una di queste è la permanenza in un ospedale psichiatrico, prima coatta e poi volontaria, dello stesso protagonista, che segue all’incendio e ad una denuncia della moglie. Qui Eddie viene di nuovo raggiunto da Gwen. La fine della sua “prima vita”, segnata dal funerale del padre, e un nuovo inizio si legano assieme, in un apparente “lieto fine” che fa seguito ad una dolorosissima terapia basata sulla ribellione ad ogni ordine sociale e familiare precedente. Certo un illusione, o forse solo un desiderio di Kazan, la cui filmografia, come chiarisce sempre Martin Scorsese – che chiese inutilmente di potergli fare da assistente proprio per questo film – è appunto basata sulla ribellione violenta ai padri o ai fratelli maggiori. In Fronte del porto Rod Steiger è appunto un ambiguo fratello/padre di Brando; in La valle dell’Eden e in Splendore nell’erba i padri sono ingombranti, talvolta dispotici, convinti di avere in tasca la formula del successo e della “buona e onesta esistenza”. Da sottolineare, ancora, che la giustificazione data da Kazan dopo la sua confessione di fronte al Comitato per le attività anti americane, fu che non vedeva l’ora di liberarsi da quel passato “ingombrante” come un macigno.

Allo stesso modo, Il compromesso è una rivolta rabbiosa e, in larga misura impotente, che resta sospesa tra l’enigma, anche fisiognomico, di un personaggio perfettamente raffigurato da Kirk Douglas, e tutto ciò che lo circonda e che lui vede come progressivamente estraneo e ostile al proprio mondo interiore. Insomma, lo spettatore, come si è già scritto, entra progressivamente nella testa del protagonista che, addirittura, in un momento di sconforto, abbandonato nuovamente da Gwen, dichiara ad un interlocutore che andrà  da qualche altra parte, e poi, rispondendo alle insistenze di costui, afferma semplicemente: “dentro me stesso”, cioè nella profondità dell’inconscio, ammesso che si riesca a raggiungerlo.

''Il compromesso'' di KazanFondatore dell’Actor’s Studio assieme a Lee Strasberg (1949), Kazan ha sempre estremizzato – fino a tradurlo in una sorta di terapia  – il metodo Stanislavskij dell’identificazione psicologica tra attore e personaggio. Non a caso, Marlon Brando, James Dean, Paul Newman, Montgomery Clift, Warren Beatty,  devono a Kazan la loro formazione e i loro primi successi, tra teatro e cinema. Brando esordì a teatro con Kazan in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, che poi fu portato sullo schermo dallo stesso regista nel 1951. La prima regia teatrale di Kazan, basata sulle tecniche dell’Actor’s Studio, fu però Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller (1949), un dramma ancora attualissimo e basato anche questo sul “compromesso” esistenziale, che il regista accettò di dirigere – e con entusiasmo – dichiarando di averlo amato perché gli ricordava il proprio genitore e i contrasti che lui, figlio ribelle, aveva continuamente con il capo famiglia.

''Il compromesso'' di KazanQuando cominciò a scrivere Il compromesso Kazan pensava che, se fosse riuscito a produrre un film ispirato al romanzo, Marlon Brando, suo figlio professionale, sarebbe stato un perfetto Evanghelos/Aaron/Eddie. Brando, da buon figlio ribelle, non fu disponibile (anche lui non perdonò mai il tradimento del “padre”), e così si arrivo a Kirk Douglas, che portò nel film anche la propria autobiografia di discendente da emigrati bielorussi di origine ebraica, poi raccontata nel libro Il figlio del venditore di stracci.
Dunque, Il compromesso – come spiega ancora Scorsese – allarga il fronte del contrasto generazionale e del “dover essere”, tipico dell’America novecentesca, ad un ampio arco di emigrati che si sono affermati al di là delle tutela familiare, religiosa e etnica. Un bel pezzo di cultura statunitense, anche letteraria, da Below e Salinger fino a Roth, racconta la medesima storia. E in campo cinematografico si possono citare i tedeschi Lubitsch, Wilder, Preminger, Lang, o gli italiani Capra, Coppola, Scorsese.

Il loro “background” è quasi sempre visibile e leggibile e soprattutto “trasferibile” anche agli spettatori di oggi, abbastanza diversi da quelli che bocciarono il film negli anni Settanta. Evanghelos/Aaron/Eddie teatralizza in maniera aperta il modo di vivere di ogni tipo di società del benessere e suggerisce che tutti gli esseri umani hanno un padre da uccidere simbolicamente, per poter essere liberi.

27 maggio 2015