Percorso

Memorie d'oltrecinema: ''Io la conoscevo bene'' di Antonio Pietrangeli

Gianni Olla ci apre la sua cineteca per riscoprire un grande film che riemerge dal passato

''Io la conoscevo bene''Anni Sessanta. In Italia il film simbolo è, inevitabilmente, La dolce vita di Fellini, che però ebbe una lunga e travagliata lavorazione a partire dalla fine del 1958. Ma, com’è noto, la rigidità del calendario si può  dispiegare entro una temporalità più ampia, annettendo il prima e il dopo delle datazioni cronachistiche.

La Roma di Fellini, divisa tra inferno e paradiso, tra carnevale pagano e tristezze esistenziali, è diventata, forse anche contro i desideri del suo autore, l’allegoria della modernità consumistica e “caciarona”. Troppe cose, nelle rievocazioni nostalgiche e mitologiche che riguardano quegli anni, appaiono come facenti parte della “dolce vita”.
Giusto per compensare le esagerazioni interpretative, ecco l’altro grande film dello stesso anno: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, in cui si racconta l’emigrazione meridionale verso le fabbriche del nord. Nascoste dietro il “boom”, che portò l’Italia tra le grandi potenze industriale, ci sono anche le tragedie familiari della famiglia Parondi, i cui figli, protagonisti del film viscontiano, si disperdono nella capitale economica italiana.

Qual è la verità storica, sociologica e antropologica e, non ultimo, il valore filmico delle due opere? Diciamo che sono entrambi dei capolavori che segnano, appunto, il crinale di un’epoca, magari estremizzando le rispettive tematiche. Per trovare un punto di mediazione, propongo di affidarci al cinema di genere, definizione sfuggente, oggi più di ieri, che però ha contatto tantissimo nell’immaginario italiano del dopoguerra.

''Io la conoscevo bene''Uno dei film che simbolizza la rapida e, per certi versi, drammatica mutazione italiana è Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, uscito nel 1965, anno in cui i cambiamenti culturali, sociali ed economici  sembravano abbondantemente digeriti e archiviati. Protagonista assoluta della pellicola è Stefania Sandrelli, allora diciottenne, già apparsa in cinque film e, ancora adolescente (15 anni), promossa ad icona procace e turbativa di Divorzio all’italiana. Il suo autore, Germi, nel 1964, aveva rafforzato la sua immagine di dea della sensualità, non più bambina ma comunque minorenne, in Sedotta e abbandonata.
La Sandrelli è Adriana, una ragazza che fugge letteralmente dal podere dei suoi genitori, nella campagna pistoiese, per avventurarsi sulla strada di un’emancipazione che si può già identificare con una “dolce vita”, magari da poveri o da “imbucati”. La vediamo, nella bella sequenza iniziale, esplorata nelle sue nudità – al netto della censura – mentre prende il sole in una spiaggia deserta. La lunga ripresa in continuità che si conclude sul corpo di Adriana, vista di spalle, esplora un luogo urbanizzato e inevitabilmente già sporcato dalle presenze turistiche.

Adriana, improvvisamente, ha fretta: si fa agganciare il reggiseno da un passante, corre con i tacchi alti e scomodi fino ad salone di bellezza, apre la serranda e, infine, si sdraia in un letto nascosto da una tenda. Poi si prepara ad accudire una cliente, magari in maniera distratta e pasticciona, ricordandosi, mentre rompe inavvertitamente una bottiglia, di un analogo incidente accadutole qualche tempo prima, mentre veniva inseguita da un amante focoso.

''Io la conoscevo bene''La giornata si chiude con un amplesso frettoloso consumato malvolentieri con il truce proprietario del negozio. Lei chiede solo un po’ di gentilezza e poi, quasi a volersi anestetizzare da quell’implicita violenza, alza il volume della radio che trasmette una canzone: una delle tante, anche queste segni forti di un’epoca, che punteggiano il racconto, e che diffondono le voci di Mina, Sergio Endrigo, Mia Genberg, Peppino Di Capri, Millie, Le gemelle Kessler, Gilbert Bécaud, Ornella Vanoni. 
A questo punto è quasi doveroso ricordare che Pietrangeli è stato il regista di riferimento del mondo femminile italiano, o meglio il cantore melanconico delle ragazze sradicate e più spesso “trasgressive”. Formatosi come critico cinematografico e saggista a cavallo tra la fine della seconda guerra mondiale e il neorealismo, già nel 1953, con il suo primo film, Il sole negli occhi, metteva in scena le disavventure di una ragazza di campagna che approda a Roma per fare la domestica. 

Nel 1957, con Nata di marzo, affrontava un tema più semplice ma quasi tabù per l’epoca: la separazione coniugale causata dall’esuberanza di Jacqueline Sassard, la “nata di marzo” del titolo. Ma soprattutto, a far considerare Pietrangeli un regista di donne “ribelli” fu la trilogia, ormai celebre, comprendente La parmigiana (1963); La visita (1963), e infine Io la conoscevo bene. Proprio la Parmigiana, interpretata da un’altra icona della sensualità giovanile, Catherine Spaak, sembra anticipare, sia pure con maggiore rigidità, quasi moralistica, il tema della fuga del film del 1965. Tratto da un romanzo di Bruna Piatti, recentemente riapparso nelle librerie, è infatti la storia di una ragazza, Dora, che si annoia nel suo paese in provincia di Parma. Lascia il fidanzato, si concede a diversi amanti che le promettono grandi amori, finisce per fare mille mestieri, tra i quali, a Roma, anche la prostituta.

''Io la conoscevo bene''Cineasta di genere, Pietrangeli fece da ponte tra la commedia post bellica, già legata ai cambiamenti di costume, ma ancora immersa in una sorta di pathos romantico, e l’affermazione trionfante del disincanto  pessimistico se non cinico, dei Risi, Monicelli, Comencini, i quali, non a caso, lo consideravano un maestro. Per chiudere questa parentesi, va anche sottolineato il peso che gli sceneggiatori hanno sempre avuto nella drammaturgia di base, para teatrale, del genere filmico italiano più popolare: i collaboratori di Pietrangeli furono Ruggero Maccari e Ettore Scola, nomi indiscutibili, e Scola, peraltro, anche regista in proprio e non certo tra i minori.

Eppure, tornando a Io la conoscevo bene, tutto l’armamentario, quasi tecnico, della commedia, è inserito e quasi costretto ad un ruolo formale secondario rispetto ad una forma narrativa complessa senza la quale il film diventerebbe quasi banale. Alcuni critici, già innamorati delle “vagues” europee più avanzate, e soprattutto di Godard e Resnais, scrissero che Pietrangeli aveva adottato, o era stato almeno influenzato, dall’“ecole du regard”, vale a dire da Alain Robbe-Grillet. Lo scrittore, poi regista, era diventato famoso, quattro anni prima, per aver firmato la sceneggiatura di  L’anno scorso a Marienbad di Resnais, film in cui la percezione memoriale è sovrastata da una sorta di impossibilità ricostruttiva del passato dei protagonisti.

''Io la conoscevo bene''Ma, supponendo che davvero Pietrangeli abbia avuto una sorta di “illuminazione” a contatto con le grande novità formali degli anni Sessanta, in Io la conoscevo bene non c’è alcuna traccia di sperimentalismo, né di avanguardia formale. Paradossalmente, lo stesso titolo, che dovrebbe alludere ad una realtà testimoniale (alla Quarto Potere, per intenderci), è assolutamente e volontariamente ingannevole. Nessuno, a parte uno scrittore che gli dedica un racconto, tenta minimamente di conoscere Adriana, e, soprattutto nessuno testimonia, a posteriori, sulla sua personalità. Nella “dolce vita” romana la ragazza è quasi inesistente: solo un corpo, benché bellissimo, attraente e disponibile.

La frammentazione narrativa non è  legata a sguardi soggettivi, se non in quello di un personaggio estraneo alla “dolce vita”: il giovane custode del parcheggio, interpretato da Franco Nero, innamorato della ragazza e forse anche lui beneficiario di una o più serate d’amore. Tutti gli altri “flash” narrativi, proiettati sul passato o sul futuro sono assolutamente oggettivati: frammenti della vita di Adriana, della sua tristezza perenne che, sfociando in una tragedia improvvisa, quasi scioccante, finisce per mettere in secondo piano, o in terzo e quarto, il sottobosco della “dolce vita”.

Così, anche la mancanza di un racconto lineare e ''Io la conoscevo bene''temporalmente percepibile, serve in apparenza a sottolineare la centralità drammaturgica di Adriana, ma, se si ripercorrono le tante disavventure della ragazza, ridotte quasi sempre a brevi sequenze, si percepisce appunto, una totale “inautenticità” della sua vita sociale.
Dopo l’esordio, troviamo, infatti, la ragazza che lavora come maschera in un cinema dell’Eur, a Roma – considerando il finale, questo potrebbe essere il suo lavoro stabile nella capitale – quindi in compagnia di una banda di ragazzi quasi pasoliniani, e poi amante dello scrittore; e ancora comparsa a Cinecittà, dipendente da uno squallido agente (Nino Manfredi), il quale sarà anche responsabile di un provino cinematografico che si trasformerà in uno scherzo atroce. Infine, semplice partecipante a feste nelle ville e nei palazzi scaturiti dalla mostruosa espansione urbana della capitale.

Poiché il film ha inizio nelle terrazze della Roma storica e finisce all’Eur ed in altri quartieri residenziali, oltre la cintura urbana principale, lo si potrebbe anche catalogare tra le pellicole – l’altro titolo che vi allude è Il padre di famiglia di Loy, girato nel 1967 – che raccontano, sotto traccia, l’urbanesimo selvaggio della capitale “infetta”, come veniva descritta, all’epoca, da molti settimanali, tra i quali L’Espresso.

''Io la conoscevo bene''Dentro questa linearità  creata mentalmente dallo spettatore, risalta particolarmente, quasi come un pentimento tardivo e senza sbocco, il provvisorio e tristissimo ritorno a casa di Adriana, nella campagna pistoiese. I genitori, che più nulla sapevano di lei non sono neanche riusciti ad avvertirla della morte della sorella minore. Averlo inserito in mezzo alla definitiva “trasformazione” della ragazza in una figura che oggi si chiamerebbe escort, dà una forza straordinaria proprio a quella tematica dello sradicamento che Visconti aveva trattato attraverso i canoni della tragedia greca e del melodramma.
Altri due inserti, lunghi e assolutamente centrali nel percorso di significazione del film, sono costruiti attraverso forme filmiche differenti, quasi opposte. Il primo è basato su una opposizione scenica tra due momenti di una medesima sequenza, peraltro racchiusa in un unico ambiente, un palazzo dello sport.

Si svolge a Pistoia: Adriana è stata ingaggiata da un losco organizzatore di incontri pugilistici assieme ad altre ragazze. Deve esibirsi, prima dell’incontro sportivo vero e proprio, in una sfilata di moda, che si svolge sul “parterre” sotto il ring. Gli abiti hanno un “glamour” da stilisti d’avanguardia e ovviamente provocano risate e commenti terribili da parte del pubblico che, anche durante la sfilata, incita i due boxeur a darsela di santa ragione. Il contrasto tra i due eventi è però apparente: la sequenza, che si chiuderà con un ennesimo e fuggevole amorazzo con il pugile sconfitto, ipotizza una sorta di assorbimento totale dello spettatore nella già sviluppata società dello spettacolo.

''Io la conoscevo bene''I suoi meccanismi di seduzione e di inglobamento del pubblico, permetteranno, a breve, di far coesistere tutti i modelli di intrattenimento e tutti modelli di pubblicità commerciale.
La seconda sequenza, che si colloca verso la fine del film e fa da prologo alla definitiva “discesa agli inferi” della protagonista, è invece una classica scena (il termine va inteso proprio in senso teatrale) da commedia italiana in cui l’arte della recitazione, ovvero il numero del mattatore di turno, quasi sempre “vampirizza” il racconto.
Il mattatore, in questo caso, è Ugo Tognazzi, attore ormai sul viale del tramonto ma in cerca di ingaggi per sopravvivere. Sollecitato dai suoi presunti amici, o ex colleghi ancora sulla cresta dell’onda, durante una festa, si esibisce in un pezzo difficilissimo e faticosissimo del suo repertorio da avanspettacolo.

''Io la conoscevo bene''Dopo l’entusiasmo e le risate generali degli amici, che si fanno beffe dalla sua ormai tramontata arte, qualcuno comincia a preoccuparsi per la sua salute, visibilmente provata dallo sforzo. La dolce vita romana ha dunque perso ormai definitivamente tutto il sottotesto drammatico, disperato, e quasi religioso del film di Fellini. In Pietrangeli è diventata, anche se in chiave comica, un diagramma del cinismo generale. Anche la presenza del giovane garagista, che la notte o la mattina all’alba, quando Adriana torna a casa con la sua 500, è sempre sul punto di dichiararle il suo amore, sembra un sussulto patetico che ricorda il lieto fine delle commedie degli anni Cinquanta, quando le ragazze erano “povere ma belle” o semplicemente esuberanti ma pronte a sposarsi con un bravo ragazzo che le avrebbe fatte diventare mogli e madri.

Ma in Io la conoscevo bene non c’è alcuna redenzione e, appunto, lo sguardo “estraneo” del ragazzo per bene, che sa stare al suo posto, è semmai un anticipo delle considerazioni di Pasolini che, di lì a pochi anni, definirà i cambiamenti “modernizzatori” degli anni Sessanta, come una violenza nei confronti del mondo contadino.

10 giugno 2015

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